sabato 9 luglio 2016

L'omicidio di Fermo: ma la destra che c'entra con chi tira le noccioline ai neri?



Annalisa Terranova


  1. Si potrebbe tirare diritto, e fare finta di niente. Invece le reazioni di una parte della destra, o di chi si dice di destra (ma le definizioni ormai che importanza hanno?) all’uccisione di Emmanuel Chidi Nnamdi sono esemplari e rispecchiano una condizione di sbandamento cui ormai anche gli stessi leader non riescono a porre riparo (lo dimostrano i post antirazzisti di alcuni esponenti di Fratelli d’Italia accusati dai loro seguaci di essersi piegati al “politicamente corretto”). E’ vero che all’inizio si è parlato di un’aggressione e che invece c’è stata una colluttazione, ma la provocazione che ha suscitato l’episodio, la frase razzista “scimmia africana”, non può essere relegata a un dettaglio irrilevante. Sulla vicenda (dove il morto è il nigeriano, non dimentichiamolo) si è voluto stendere il velo propagandistico di parole d’ordine (amplificate principalmente dalla Lega) già ascoltate nei mesi passati: la legittima difesa vale sempre (di qui la diffusione virale sul web della versione di una testimone, una parrucchiera di Fermo, che in pratica dipinge Mancini come vittima e Chidi Nnamdi come aggressore), e ancora “prima gli italiani” anche se quegli italiani hanno comportamenti vergognosi (il fratello dell’arrestato racconta che il tipo si divertiva a tirare noccioline ai neri, così, per gioco…) e infine l’ “invasione” che spiega tutto, che giustifica tutto (che è come dire che siccome in strada ci sono troppi ingorghi il guidatore può investire pedoni e auto a proprio piacimento). Questo schema interpretativo, reiterato su molte bacheche, è stato poi condito da guizzi creativi sorprendenti: per esempio ho appreso che certi fatti di cronaca non vanno letti su Repubblica o sulla Stampa o sul Corriere perché quella è la “versione delle zecche” (la stampa di regime crea ad arte il “mostro” per suscitare la compassione dell’opinione pubblica e garantire quella libera invasione del territorio italiano che ci condurrà alla rovina finale) e ancora sono state proposte campagne di sottoscrizione per aiutare l’arrestato e garantirgli un giusto processo (ma Mancini – oltre alla supertestimone - ha già un avvocato che parla molto con i giornalisti, dà loro foto e altro materiale, dipinge il fermano come un uomo pentito e distrutto dal dolore, ha avuto un suo perito presente all’autopsia al contrario del nigeriano morto, che essendo un rifugiato scampato a uno dei gruppi jihadisti più feroci, Boko Haram, non aveva e non ha proprio nulla e a quanto pare non è nemmeno meritevole della pietas che spetterebbe ai morti). Ma ho persino letto che questa coppia in fondo poteva restarsene a casa propria, e lui anziché aggredire il bravo ragazzo di Fermo poteva combattere virilmente Boko Haram (che pure aveva già ucciso una figlia dei due, e i loro genitori) anziché venire in Italia a fare la finta “risorsa” come affermano i “buonisti” alla Boldrini… Stesse persone che magari ce l’hanno col Papa perché non difenderebbe le vittime cristiane dell’integralismo islamico mentre loro, ai cristiani che scappano dai loro persecutori, tirano scherzosamente le noccioline e difendono, con questo, la gloriosa “civiltà europea”.  Questo il campionario, insomma. E non mi dilungo oltre. Un repertorio dove non affiora una condanna netta del razzismo, anzi si fa finta che il razzismo nulla c’entri, perché si ha difficoltà, evidentemente, a riconoscerlo e a prenderne le distanze e basta dire come ha detto Matteo Salvini che chi lancia certi insulti è un “coglione”. E basta, senza ulteriori specifiche, perché la vulgata da difendere è che i buoni italiani sono assediati dai cattivi migranti, e ciò non può essere messo in discussione. Se dici che i razzisti ti fanno schifo (è il mio caso) sei “complice” e “buonista” se non “radical chic” e altre scemenze del genere.



  1. Questa narrazione che certa destra (non tutta per fortuna) ha fatto sul caso di Fermo è perfettamente corrispondente al linguaggio populista analizzato dal sociologo Rosanvallon: “Esso riconosce solo una giustizia della repressione, della sanzione, della condanna, eleggendo a oggetto della propria vendetta una vasta categoria di indesiderabili e parassiti”. E in questa stessa narrazione è affiorata un’altra caratteristica del linguaggio di cui parliamo: il passare disinvoltamente dall’indice puntato al vittimismo. E allora gli italiani derubati dagli stranieri? E allora le nostre donne insultate dai migranti? E perché il ministro dell’Interno non si reca anche nei luoghi dove i profughi organizzano rivolte, infastidiscono i residenti, compiono atti di teppismo o veri e propri crimini? Perché appunto, se il “popolo” nel nome del quale si pretende di parlare è vessato e inascoltato, allora certi scatti rabbiosi, certe parole fuori luogo, possono anche scappare di bocca…
  2. Detto tutto ciò, resta da accennare a quell’altra parte di opinione pubblica che ha evocato a sproposito la parola fascismo per affibbiare un’etichetta all’omicida di Fermo. Anche questo seguendo l’ottica di un’autorassicurazione ideologica che fa velo agli errori politici commessi in passato: il male esiste, e sta sempre dalla parte che non è la mia…


  1. Ma mi hanno colpito, soprattutto, le energie profuse in difesa di una persona che in nulla, in nulla, può rappresentare o far scattare meccanismi di identificazione in chi ha militato a destra. Un attaccabrighe, uno che cinque anni fa faceva l’estremista di sinistra inseguendo una volubilità ideologica che evidentemente serviva da copertura alle sue capricciose pulsioni. Ma lui è quello che è. I suoi tanti difensori invece (che immagino esultanti perché l’autopsia ha confermato che c’è stato solo un pugno da parte di Mancini e dunque la versione iniziale della moglie del nigeriano non trova per ora conferme) sono persone che esprimono una tendenza, un orientamento, una mentalità. Che siano tanti o un’esigua minoranza non mi interessa. Un tempo forse avrei provato imbarazzo dinanzi a tutto ciò. Avrei persino provato a spiegare. Quel tempo è finito. Siamo distanti e resteremo distanti. Se non ce la fate a condannare il razzismo il problema è tutto vostro, tutto interno a una “destra” di cui nulla mi interessa. Io vengo dal Msi, che aveva moltissimi limiti, ma dove nessuno mi insegnava che dire scimmia a una donna africana era un innocente passatempo; nessuno mi avrebbe obbligato a difendere un Giovanardi, lo stesso che attribuì la morte di Cucchi alla sua fragile costituzione fisica; nessuno mi avrebbe chiesto di difendere il diritto d’opinione di un parlamentare che dà dell’orango a una ministra italiana di origini congolesi. Questa non è roba mia. A ciascuno il suo.  

venerdì 29 aprile 2016

E a Roma è cominciata la campagna elettorale...






Annalisa Terranova

Ma Berlusconi spariglia a Roma oppure no? E Alfio Marchini sarà un potenziale competitor di Renzi o il coprotagonista di un patto del Nazareno capitolino? Tutte domande legittime mentre la campagna elettorale finalmente entra nel vivo nella Capitale sgomberando il campo da vari equivoci tra cui il primo e più importante consisteva nell'illusione che il centrodestra potesse tornare unito e vincente come un tempo. 
In parte, va detto, Berlusconi è stato costretto all’abbandono della candidatura di bandiera per la fuga dei quadri romani verso Fratelli d’Italia che metteva a repentaglio persino la possibilità di formare una lista. Certo, l’opzione Marchini può trasformarsi in una scelta di strategia: costruire un’area di moderati riformisti per attrarre quell’elettorato indisponibile a seguire la deriva lepenista della destra salviniana. Ma quell’area è già presidiata da Matteo Renzi. Per vedere, allora, se Alfio Marchini potrà aspirare ad essere davvero alternativo al premier bisognerà vedere quanti romani sono disposti a puntare su questa scommessa. Roma è una città che riserva grandi sorprese: tutti ricordano l’exploit di Gianfranco Fini, imprevisto e imprevedibile, alle comunali del ’93. La campagna elettorale comincia solo ora: Marchini dovrà barcamenarsi non poco per non farsi stringere nella morsa dell’abbraccio soffocante del Cavaliere, Virginia Raggi ha il problema di dover parlare di politica oltre a invocare onestà e legalità, Giachetti dovrà faticare per occupare un posto sulla scena dopo essere stato messo in ombra dagli ultimi eventi (oltre che dai sondaggi) e Giorgia Meloni dovrà stare attenta a non calibrare la polemica solo nell’area della destra, per non portare fino in fondo lo scollamento tra le lacerazioni dell’area ex-An e i veri interessi dei cittadini romani.
 Oggettivamente è insostenibile la tesi che la candidatura Marchini sia di “sinistra” e che sia la più conveniente per Renzi (al quale semmai conveniva molto di più che Bertolaso restasse in campo). Marchini rappresenta invece quel civismo post-ideologico e imprenditoriale che può funzionare per aggregare l’elettorato deluso dai partiti (con Luigi Brugnaro, a Venezia, ha funzionato). Certo attorno a lui si agitano personaggi come Gianfranco Fini, Gianni Alemanno e Francesco Storace. Il primo, che forse dovrebbe un po’ contenere gli applausi per il Cavaliere di cui è stato fiero oppositore, può rivendicare una certa coerenza, in quanto appoggiava Marchini già alle precedenti comunali romane. Più difficile per gli altri due dare valenza politica a una scelta che va inquadrata come unica alternativa possibile all’esclusione da Fratelli d’Italia, movimento cui viene imputata – almeno a Roma – un’impronta comunitaria che a volte sfocia nel settarismo. Ma questi sono aspetti tutto sommato marginali. Solo se Marchini riuscirà ad andare al ballottaggio, sconfiggendo l’ipotesi da molti temuta – e cioè una vittoria di Virginia Raggi già al primo turno – si potranno pesare le conseguenze sugli equilibri futuri del centrodestra il cui leader quasi ottantenne aveva già prescelto come delfino un politico come Angelino Alfano, le cui caratteristiche certo non combaciano con un Salvini che va in conferenza stampa con la ruspa giocattolo.

E oltre agli equilibri si potranno vedere i risultati e definire le ricette più convincenti: il presidio dell’area di protesta a Nord con la Lega e al centro-sud con Fratelli d’Italia non è una formula spendibile come alternativa di governo. E il centrodestra nacque nel ’94 con queste ambizioni. Non era pensabile, in fondo, che un elettorato che aveva raggiunto il 38% (risultato dell’asse Berlusconi-Fini nel 2008) potesse interamente ripiegare sulle parole d’ordine della Lega in un quadro complesso come l’attuale sia a livello internazionale sia nel contesto della dialettica con Bruxelles. Certo, il vento populista soffia fortissimo in tutta Europa, e non solo all’ombra del Colosseo e finora le risposte “moderate” hanno rappresentato inconcludenti balbettii. Anche per questo la sfida romana è di cruciale importanza: doveva essere una sfida tra Raggi e Giachetti, era diventata una sfida tra Raggi e Meloni. Ora l’abilità di Marchini sta nel farla diventare una sfida tra lui da una parte, e Raggi e Meloni dall’altra. Ci riuscirà?


sabato 9 gennaio 2016

Sui fatti di Colonia non dite che è solo criminalità comune...



Annalisa Terranova 

No, i fatti avvenuti a Colonia (ma anche ad Amburgo, Zurigo, Helsinki e Stoccolma) non sono fenomeni di sola criminalità comune. Che lo dica Angela Merkel, che sente in queste ore vacillare la sua poltrona, è comprensibile. Non lo è da noi, dove il dibattito che si è avviato dovrebbe essere scevro da preoccupazioni elettoralistiche.
Ora, sui bigliettini trovati in tasca a qualcuno dei profughi identificati per le molestie e i furti a Colonia è stata trovata la scritta da dire in tedesco alla “preda”: “Ti voglio sco..re fino alla morte”. Uno di questi fermati, già a piede libero del resto grazie alle garanzie giuridiche dell’odiato Occidente, ha solo sedici anni (è un marocchino).
Il caso ha voluto che negli stessi giorni in cui l’Europa si indignava per le violenze alle donne tedesche ci abbia raggiunto l’atroce notizia dell’uccisione di una madre di Raqqa, Lena Al-Qasem, da parte del figlio jihadista. Un fanatico sanguinario che non aveva tollerato l’invito rivoltogli dalla madre a lasciare la capitale del Califfato.
Io i fatti li vedo collegati: la considerazione della donna è tale, in certe sottoculture, da essere indotti o ad umiliarle o ad eliminarle fisicamente, anche se sono madri (o mogli o sorelle). Oggetti di trastullo, o oggetti fastidiosi, in ogni caso privi della dignità di persone.
Certo, non si vuole dire che tutta la cultura islamica soggiace a questo schema, ma il problema esiste e non è con la comprensione compiacente che lo si risolverà. E’ stato detto che le femministe sono state parche di parole dinanzi ai fatti di Colonia. Bè forse lo sono state il sindaco di Colonia e Laura Boldrini, che non rappresentano nessuno. La femminista francese Elisabeth Badinter, intervistata dal Corriere, ha invece parlato chiaro e ha detto cose interessanti. Per esempio questa: “La prima reazione delle autorità e dei media agli incidenti di Colonia è stata, subito, difendere l’immagine dei rifugiati e degli stranieri in generale. Non le donne. Non posso dirvi quanto questo mi abbia dato fastidio. Come se la tutela delle donne possa venire dopo. I commenti si concentravano sul proteggere gli stranieri dalla xenofobia, e questo è uno scopo nobile. Ma il risultato è che nessuno si è dichiaro inorridito per le donne aggredite”.

Ecco, il punto è proprio questo. Il rispetto per le donne esige anche che non si abbia paura di passare per islamofobi, né di imitare la sgrammaticata e stracciona propaganda di Salvini (il quale peraltro appartiene alla tradizione culturale celodurista della Lega). Il rispetto per le donne esige che si dica che nelle piazze tedesche sono avvenuti fatti nuovi, inediti e inquietanti e che se pure la polizia fosse riuscita a reprimerli anche la sola intenzione di mettere in atto molestie di massa alle ragazze tedesche sarebbe stato un fatto intollerabile, ripugnante e generato dalla sottocultura di cui abbiamo detto. Il rispetto delle donne, è appena il caso di sottolinearlo, è un valore di civiltà mentre non lo è l’accoglienza, che è solo un metodo per fronteggiare un’emergenza. E i metodi si possono cambiare, i valori no. 

domenica 20 dicembre 2015

La Porta Santa: la poesia di Pascoli per il Giubileo 1900



Sandro Consolato

Papa Leone XIII aprì il solenne Giubileo che doveva segnare il passaggio di secolo, dall’Otto al Novecento, il 24 dicembre del 1899; chiuse quindi la Porta Santa un anno dopo, il 24 dicembre del 1900. L’evento ispirò a Giovanni Pascoli uno dei suoi INNI, intitolato LA PORTA SANTA, pubblicato sul “Marzocco” il 6 gennaio 1900. Questo testo rientra tra quelli di Pascoli in cui sono presenti il “tema cosmico” ed un senso indefinito di angoscia collettiva, lo stesso che noi ancor più forte avvertiamo al termine di questo quindicesimo anno del nuovo millennio in cui, tra guerre e migrazioni di popoli, si apre un nuovo Giubileo straordinario, voluto da un Pontefice che si è annunciato come “venuto dalla fine del mondo”. Giustamente Arnaldo Colasanti, curatore dell’edizione Newton Compton di “Tutte le poesie”, per “La Porta Santa” parla di “Poesia di grande fascino”, in cui si affaccia “il dubbio assurdo di un’apocalisse vicina”. Patrizia Paradisi, nel suo studio presente in rete su “La ricerca dell’Assoluto nella letteratura: Giovanni Pascoli”, osserva: “Pascoli stravolge il significato religioso del rito, immaginando che il popolo che vi assiste si senta in qualche modo escluso, tenuto fuori, dalla realtà oltre la porta, la Vita Eterna promessa da Dio e dalla religione, e allora invoca il Papa perché non chiuda questa porta, e lasci che il popolo dei fedeli possa vedere quello che c’è di là”. Forse potremmo leggere questo inno pascoliano anche come un monito a contemplare certi eventi come eventi di portata universale, al di là della nostra appartenenza religiosa, l’apertura e la chiusura della Porta Santa essendo uno di quei gesti sacri che vengono da tempi antichi ma si coniugano con speranze e paure connesse sia allo stesso esistere umano sia al vivere in un determinato tempo. Ed ora, non ci resta che leggere il testo.

Uomo, che quando fievole / mormori, il mondo t’ode, / pallido eroe, custode / dell’alto atrio di Dio;
leva la man dall’opera, / o immortalmente stanco! / Scingi il grembiul tuo bianco, / mite schiavo di Dio: / la Porta ancor vaneggi! / Vogliono ancor, le greggi / meste, passar di là.
O nostro primogenito, / puro tra i bissi puri, / le pietre che tu muri / con la gracile mano, / nel sepolcreto sembrano / chiudere i tuoi fratelli / tutti; con tre suggelli, / tutto il genere umano.
Solo la bianca Morte / chiude così le porte, / che non riaprirà!
Oh! le tue mani tremano! / Dove sarai tu, quando / un secol nuovo, orando, / toglierà le tre pietre?
Dove anche noi. Le candide / culle ch’or vanno e stanno / tra un canto pio, saranno / tombe immobili e tetre.
Avanti quella Porta / chiusa non c’è che morta / gente; un’ombrìa che va. /
O vecchio, è vecchio, al nascere, / del suo morir futuro / anche il bambino, puro / là tra i puri suoi bissi.
Tutti i fratelli tremano / seguendo te che tremi, / come su gli orli estremi / d’invisibili abissi.
Vecchio che in noi t’immilli, / lasciaci udir gli squilli / dell’immortalità!
Di là, di là, risuonano / chiare le argentee trombe / che spezzano le tombe / d’inconcusso granito!
Di là, di là, risuonano / canti or soavi or gravi; / ché c’è di là, con gli avi, / qualche bimbo smarrito!
Tutto il di noi che vive / è ciò che a noi sorvive: / tutto è per noi di là!
Non ci lasciar nell’atrio / del viver nostro, avanti / la Porta chiusa, erranti / come vane parole;
ad aspettar che l’ultima / gelida e fosca aurora / chiuda alle genti ancora / la gran porta del Sole;

quando la Terra nera / girerà vuota, e ch’era / Terra, s’ignorerà.

giovedì 24 settembre 2015

domenica 30 agosto 2015

Al "libertarismo" preferisco il grido del "libertario"



Mio articolo apparso oggi sulle pagine culturali del quotidiano "il Garantista"

Luciano Lanna

Dovendo scrivere di un –ismo ma collocandomi personalmente all’opposto di qualsiasi ideologia (e quindi di qualsiasi –ismo) proverei a evocare l’orientamento che secondo me corrisponde alla fuoriuscita da qualsiasi interpretazione ideologica e che potremmo farlo coincidere, necessariamente, con quello “libertario”. Preferisco ovviamente l’aggettivo in questione al sostantivo “libertarismo” che di per sé potrebbe condurre a fare, magari inconsapevolmente, un’ideologia anche della stessa opzione anti-ideologica. Non a caso, storicamente si è parlato di libertarismo, nell’Ottocento, per l’anarchismo di Stirner, Bakunin e Kropotkin, in cui a prevalere era una precisa e definita ideologia (“né Dio né Stato né servi né padroni”) e la cui traduzione coincideva o nell’organizzazione (di per sé una contraddizione in termini) di gruppi, gruppuscoli e progetti di cospirazione o nel gesto violento dettato dall’esasperazione e dalla follia. E, più avanti, nel Novecento, si è parlato sempre di libertarismo (“libertarianism”), ma in termini astratti ed esclusivi di filosofia politica e di costruzioni intellettuali, per alcune scuole di pensiero statunitensi orientate verso l’antistatalismo e l’assunzione del mercato come  criterio fondativo (e assoluto) delle relazioni umane. Ma vale su questo quanto affermato da Daniel Cohn-Bendit: “Il mio essere libertario definisce la mia scelta a favore della libertà ma, sia chiaro, non quella delle multinazionali, per le quali continuo a chiedere controlli e regole”. Sia ben chiaro: è indiscutibile che presupposti, pulsioni, aspirazioni sia dell’anarchismo ottocentesco che del libertarianism americano siano a tutti gli effetti di matrice libertaria e che molto di quanto da loro prodotto sia utile per l’elaborazione di un background di riferimento per il libertarismo postmoderno.
Ma è comunque ovvio che l’orientamento libertario che stiamo cercando di delineare (e che propone un nuovo e diverso libertarismo, adeguato al ventunesimo secolo) fuoriesce completamente da qualsiasi prospettiva sistematica e ideologica e si pone in termini esistenziali più che politologici. Si tratta più di una postura esistenziale che di una sistemazione teorica. Da un punto di vista culturale, ad esempio, esso infatti è anzitutto il portato di un attraversamento del Novecento in direzione della libertà così come testimoniato da figure come Albert  Camus, Charles Péguy e Simone Weil, Bruce Chatwin e Hannah Arendt. E alle quali si possono senz’altro accostare anche autori come Ernst Jünger, Arthur Koestler, Ignazio Silone, Bertrand Russell, André Malraux, George Orwell... Personalità del secolo scorso che si sono contraddistinte per il fatto di aver “attraversato” integralmente e criticamente il Novecento, essersi pure in molti casi inizialmente abbeverati alle sue passioni incandescenti, ma che a un certo punto sono riuscite a prendere le distanze da quelle tempeste a cui essi stessi avevano partecipato o che addirittura avevano contribuito a mettere in campo. Jünger, ad esempio, lo dimostrò arrivando a scrivere un romanzo-metafora contro la degenerazione totalitaria di quel nazionalismo che lo aveva visto entusiasta da adolescente come Sulle scogliere di marmo, partecipando al fallito putsch contro Hitler e lavorando teoricamente, nel secondo dopoguerra, per un libertarismo spiritualista. Allo stesso modo di Camus, Koestler, Silone, Malraux e Orwell, che ribaltarono gli entusiasmi giovanili per il comunismo nel più coerente impegno intellettuale libertario e antitotalitario. «L’importante per me resta il Singolo», spiegherà proprio Jünger, già ultracentenario,  intervistato da Gnoli e Volpi ne I prossimi titani (Adelphi). E proprio in nome del Singolo e contro il dilagare di tutte le burocrazie autoritarie spersonalizzanti si espresse quasi tutta la sua produzione a partire dall’apologo anti-totalitario del 1939 sino alla sua teorizzazione della figura libertaria per antonomasia, l’anarca, nel romanzo Eumeswil del 1977.
Chiariamoci subito. Quello che caratterizza la sensibilità libertaria cui facciamo riferimento è innanzitutto il suo porsi ad di fuori e oltre qualsiasi logica di “militanza”, di inquadramento, di aggregazione (nel senso etimologico di formazione di un gregge).  La singola persona, per i libertari, è un valore in sé, la sua tensione esistenziale non può e non deve mai essere annullata o strumentalizzata da logiche superiori, siano esse la Ragion di Stato, la disciplina di partito, l’ortodossia ideologica. Si tratta semmai di ribaltare esistenzialmente tutte le logiche del potere, quelle logiche che connotano tutte le organizzazioni spersonalizzanti e che non possono essere superate rovesciando politicamente la forma assunta dagli assetti di potere vigenti ma impostando le proprie vite sul rifiuto di esercitare e subire ogni forma di dominio e di potere. Vale quanto annota Lucilio Santoni – uno dei più acuti intellettuali e poeti libertari italiani contemporanei – nel suo libro Cristiani e anarchici. Viaggio millenario nella Storia tradita verso un futuro possibile (pp. 140, euro 12,00, edizioni Infinito): “Noi che viviamo ai margini dei grandi giochi di potere abbiamo il dovere di tentare di capirci qualcosa, abbiamo il compito di non essere superficiali nella lettura dei fatti e degli accadimenti, soprattutto per evitare di essere usati come pedine”. Interessante nel libro il percorso di autori che mettono in luce questo orientamento libertario: ci sono, senz’altro, Proudhon e Malatesta, ma anche Tolstoj e Ivan Illich, Pasolini e Bonhoeffer, Camus e Shelley, Leo Ferré e Garcia Lorca e – a sorpresa – don Helder Camara, madre Teresa di Calcutta, monsignor Oscar Romero, don Lorenzo Milani, don Luigi Giussani e papa Francesco… Nel suo essere non ideologico e anti-ideologico l’orientamento libertario più autentico non ha dogmi o punti fissi e non può infatti non essere aperto anche al contributo dei cristiani, di chi – coerentemente, così come ha scritto il poeta Davide Rondoni – “ha patroni in cielo, non padroni in terra. La religiosità, infatti, nel momento stesso in cui riconosce un’autorità ne indica il limite e la radice altrove che nella propria affermazione”.  Precisa ulteriormente Rondoni: “Il desiderio, benzina d’ogni avventura di ricerca del senso, d’ogni avventura religiosa autentica, è anche la freccia che attraversa e supera ogni realizzazione presunta di ciò che presume di rispondergli e di soddisfarlo. La freccia che rompe gli idoli, ogni idolo del potere. Dentro e fuori ogni organismo che per vivere si organizza anche in forma di potere e di autorità”. E questa è un’ulteriore indicazione di una sensibilità libertaria post-ideologica, in quanto tale aperta e mai chiusa in una sistemazione intellettualistica. Non è un caso che, e non paradossalmente, lo stesso Vittorio Messori, lo scrittore cattolico intervistatore di due Papi, quando deve spiegare il suo orientamento politico-culturale a sorpresa ammette: “Sono un libertario, naturalmente senza utopie o illusioni. Mi trovo a mio agio in una open society, una società aperta come la chiamava Karl R. Popper, questa società sempre più meticcia e sempre più complessa. Amo la libertà annunciata dal Cristo e dal suo Vangelo da proporre e mai da imporre... Mi piace la vita come avventura, dive santi e mascalzoni si intersecano, dove si confrontano il bene e il male. Amo le metropoli, le giungle d’asfalto, ben più del controllo sociale del villaggio, amo il ribollire delle grandi città, dove la storia si costruisce attraverso la trama infinita dei liberi rapporti umani…”.
La postura esistenziale libertaria, insomma, non coincide con nessuna chiusura ideologica. Il libertarismo post-militante e post-ideologico fuoriesce, alla luce di quello che abbiamo detto, decisamente da qualsiasi identità culturale scontata e vecchia, sia essa di derivazione laicista o illuminista. Così come la nuova fenomenologia libertaria non si identifica affatto, come vorrebbe la pigrizia del linguaggio da luogo comune, con l’indifferentismo etico, con un facile permissivismo, con l’allontanamento da qualsiasi senso del limite umano ed estetico. Piuttosto, la vera postura libertaria mette in campo un atteggiamento esistenziale istintivamente refrattario a qualsiasi incasellamento, sfuggente a qualsiasi chiusura o censura, caratterizzato da un’opzione contraria a qualsiasi forma di autoritarismo, di razzismo, di militarismo, di burocraticismo, di discriminazione…
Nell’emersione storica di questa sensibilità libertaria post-ideologica ci sarebbe l’intuizione che stava al centro di un bestseller della cultura giovanile a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta e che, apparso negli Stati Uniti nel 1974 e proposto in Italia nel 1981, si impose improvvisamente col passaparola, senza nessuna sponsorizzazione mediatica: Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig. Nel quale si legge: “Non voglio più entusiasmarmi per i grandi programmi di pianificazione sociale che coinvolgono le vaste masse e che trascurano la qualità individuale. E penso che sia venuto il momento di ricostituire questa risorsa… Abbiamo davvero bisogno di riacquistare l’integrità individuale, la fiducia in noi stessi e l’enthousiasmos…”.
D’altronde è un dato storico che negli anni Sessanta, alla vigilia di quella contestazione studentesca di Berkeley che anticipò il nostro Sessantotto, gli universitari statunitensi tenevano sul comodino due livre de chevet: Sulla rivoluzione di Hannah Arendt e L’uomo in rivolta di Albert Camus. In quel fermento studentesco anglosassone, lontano dal marxismo-leninismo e da vecchie matrici ideologiche e spinto soprattutto sul fronte dei diritti civili, della lotta contro la segregazione razziale e del libertarismo, Camus, l’autore di romanzi come Lo straniero e La peste, il premio Nobel nel 1957, veniva letto come uno scrittore “politico” tout court.




Una sensibilità questa che, comunque, scaturisce da una lunga tradizione, letteraria e non solo, che va da Walt Whitman a Henry David Thoreau e Ralph Waldo Emerson, da Jack Kerouac e Allen Ginsberg a Gary Snyder e Lawrence Ferlinghetti, da Louis-Ferdinand Céline a Henry Miller, da Leonard Cohen e Bob Dylan a Georges Brassens agli italiani Giorgio Gaber, Fabrizio De André e Francesco Guccini… Quello stesso Guccini che, definendosi libertario, ha sempre rifiutato la definizione di cantautore politico: “Le mie canzoni sono esistenziali – ha ammesso – e attraverso di esse ho cercato di raccontare il mio punto di vista sul mondo. Ricordo ancora la polemica del dopoguerra sugli intellettuali organici, quando Elio Vittorini dichiarò che non voleva fare il pifferaio della rivoluzione…”.
Ecco su questo punto, quello del rifiuto della logica dell’inquadramento e della militanza, tutti i libertari sono naturalmente concordi. “Nel maggio del ’68 – ha ricordato lo scrittore Jean-Pierre Chabrol – io rimproveravo a Georges Brassens ciò che chiamavo la sua passività, il suo distacco. Cantautori e intellettuali facevano comizi e barricate, si buttavano nella mischia. Lui restava a casa. Lui, che solo facendosi vedere, avrebbe potuto diventare il profeta o il guru dei sessantottini. Ma ciò che si proclamava alla Sorbona o nelle piazze in fondo era già da molto tempo nelle sue strofe”. E lo spiegherà bene lo stesso Brassens: “In realtà sono uno dei cantautori più impegnati. Solo che normalmente si intende per impegno l’adesione a un partito e si dà il caso che io non riconosco a nessun partito il diritto di avermi…”. E non sarà un caso che Simone Weil, la filosofa libertaria, arriverà alle estreme conseguenze e stilerà il Manifesto per la soppressione dei partiti politici, ipotizzando una democrazia senza il filtro di organizzazioni spersonalizzanti.  Così come Lucilio Santoni, da libertario e intellettuale impegnato, scrive testualmente: “Io non amo la piazza, le manifestazioni e le rivendicazioni..”. Un modo come un altro per dire che il libertario non abbocca più all’amo, nessuno gliela dà a bere, nessuna prospettiva di potere riesce a sedurlo o a ingannarlo, nessuno potrà mai aggregarlo in un progetto eterodiretto, neanche quelli di una piccola politica alienante in mano ad apprendisti stregoni cooptati, ambiziosi amministratori da condominio catapultati ai piani alti del potere o piccoli tribuni della plebe. Il libertario scende in campo, in quanto singola persona, solo quando sente che la libertà è minacciata.

L’esempio migliore resta, a nostro avviso, quello dell’impulso libertario di Camus, il quale non si è mai crogiolato nella santificazione di un comodo individualismo narcisista. «Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione – scrisse – impariamo a vivere il tempo della rivolta». Anche per questo Massimo Fini ha annotato: «Il Sartre che cercava di coniugare esistenzialismo e marxismo non ci finì mai di convincere. Albert Camus, che ebbe la fortuna di morire presto, invece lo amammo sempre. Tutto…». Lo confermava anche il filosofo Bernard-Henry Levy, ribadendo l’attualità del suo libertarismo rispetto all’impegno ideologico organico alla politica: “Storicamente Camus ha avuto ragione su Sartre. E non si dirà, non si ripeterà mai abbastanza, quanto lui ebbe ragione”.

giovedì 20 agosto 2015

Il desiderio di essere inutile: geniale Hugo Pratt



Articolo pubblicato sul quotidiano "il Garantista" giovedì 20 agosto 2015

Luciano Lanna

Pochi autori del Novecento italiano hanno avuto più tributi e omaggi postumi di Hugo Pratt, ormai non considerato solo come un fumettista ma come un artista di levatura internazionale, uno scrittore di particolare qualità, un intellettuale coraggioso e irregolare. A vent’anni dalla sua morte – il 20 agosto del 1995 a Grandvaux, in Svizzera, dove si era ritirato da qualche anno – la sua opera, grafica ma anche scritta, così come il personaggio più famoso scaturito dalla sua fantasia, il marinaio Corto Maltese, godono di una presenza nell’immaginario universale davvero senza precedenti. Solo a contare i siti, le pagine Facebook, i fan club, le mostre, le citazioni, i poster, i capi d’abbigliamento, i gadget basati sui suoi disegni si resta a bocca aperta.
Pratt non è stato infatti solo uno dei più famosi rappresentanti del fumetto internazionale ma è stato un intellettuale a tutto tondo, è riuscito a essere attivo nelle più disparate aree dell’immagine con illustrazioni, raccolte di disegni, acquerelli, port-folio, serigrafie, manifesti, opere pubblicitarie e altro ancora. Così come è stato romanziere e saggista, autore di teatro, musicista e autore di testi musicali, persino attore in quattro film… Non solo esistono in tutto il mondo centinaia di opere a lui dedicate ma negli anni si sono susseguite generazioni di autori, appassionati di fumetto o semplici fan che hanno voluto tributare a Pratt o a Corto Maltese un omaggio, sia quando Pratt era ancora in vita sia dopo la sua morte. Tra questi Le avventure di Giuseppe Bergman, scritte e disegnate da Milo Manara , grande amico e, per sua stessa affermazione, allievo di Prat. Qui, il protagonista Giuseppe Bergman viene istruito all’avventura da un creatore di avventure di nome HP, uguale in tutto e per tutto al Maestro veneziano. E non sono mancati gli omaggi di scrittori e giornalisti come Dino Battaglia e Andrea Pazienza, Vittorio Giardino e Vincenzo Mollica, Umberto Eco e Christian Kracht. Il grande Frank Miller gli dedicò una storia di Sin City dal titolo Notte silenziosa, e anni prima aveva chiamato Corto Maltese un’isola nella miniserie, citazione che è stata ripresa anche nel film Batman del 1989 di Tim Burton. Hugo Pratt in quanto tale è poi il protagonista del libro Un romanzo d’avventura del suo amico narratore Alberto Ongaro. Infine, nel 2014 la casa editrice Sellerio ha mandato in libreria Il Corvo di pietra, un romanzo direttamente ispirato alla sua opera e che racconta la giovinezza del marinaio Corto Maltese. L’autore conobbe Pratt alla fine degli anni ’80 in una maniera molto particolare: era il suo nuovo dentista e parlando di lui di viaggi, di letteratura, di cinema e avventure divenne suo grande amico al punto che il grande Hugo inventò per lui lo pseudonimo di Marco Steiner.  “Avevamo letto – ricorda l’autore del Corvo di pietra – gli stessi libri: da Kenneth Roberts, Stevenson a Jack London, da Conrad, Melville fino a Bruce Chatwin…”.
Perché, infatti, se c’è una cosa da cui partire è che Pratt era un uomo di una cultura sterminata. Con i suoi fumetti era pervenuto, togliendo linee alla vignetta, a un’evoluzione grafica senza precedenti e spinta verso l’essenzialità dei segni. Ma si trattava del frutto di un serio e duro lavoro partito da molto lontano, un percorso difficile e complesso, perché “disegnare in quel modo”, diceva, “è difficile e costa fatica”. Lui era sì veloce nel disegnare, “ma ciò non significa nulla – precisava – perché quando io creo una storia il disegno non è tutto da solo non basta. A me per documentarmi su ciò che vado a raccontare mi occorre molto tempo: devo leggere molti libri, effettuare ricerche, spesso andare sui posti di persona”. Pratt era infatti un lettore instancabile, come racconta Antonio Carboni nel libro-catalogo – una vera e propria enciclopedia prattiana – Hugo Pratt. Tuttifumetti (dalla straordinaria collezione di Fabio Baudino): “Lui, attento, critico, immagazzinava con estrema facilità ciò che leggeva. Possedeva una biblioteca vastissima composta da più di 25mila volumi. Saggistica, poesia, filosofia, storia, geografia, i grandi classici del passato, testi antichi, tomi rari e preziosi. Ma anche romanzi, libri di viaggi, cinema, avventura. Nelle lingue più disparate, ne conosceva cinque-sei, ne masticava altre due-tre…”. Italiano all’anagrafe, ma cosmopolita nel Dna, aveva l’avventura, il viaggio, lo spirito di libertà nel sangue. I suoi miti letterari di gioventù gli erano sempre rimasti dentro: Stevenson, Conrad, Melville, Kipling, London, Haggard, Yeats e Rimbaud. Ma anche i meno conosciuti Zane Grey, James F. Cooper, Frederick Rolfe, Somerset Maugham, “anche se oggi nessuno più li legge”, ripeteva. Tra questi autori, anche Henry de Monfreid, l’avventuriero francese che durante la guerra d’Etiopia si era schierato con gli italiani, morto a 95 anni nel ’74, che Pratt conobbe (e che secondo alcuni ispirò alcuni tratti della figura di Corto Maltese) e di cui Hugo illustrerà le copertine di tre romanzi per l’editore Grasset.


D’altronde la vita stessa di Pratt coincise con l’avventura. I Pratt erano d’origine anglo-normanna, scampati alla rivoluzione del 1688, mentre la famiglia materna era d’origine toledana, ebreo-sefardita, e la moglie del nonno era una Azim turca diventata veneziana. Lui nacque a Rimini durante una vacanza dei genitori il 15 giugno del 1927. Figlio di Rolando, un militare di carriera che aveva lavorato anche alla Bonifica pontina, morto nel 1942 in un campo di concentramento francese dopo essere stato preso prigioniero, e di Evelina Genero, a sua volta figlia del poeta popolare veneziano di origini marrane Eugenio Genero, il fondatori dei Fasci di combattimento a Venezia. La sua vita si sviluppò soprattutto intorno alla città di Venezia; qui sono ambientati ben due suoi fumettiL’angelo della finestra d’oriente e Favola di Venezia.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale la famiglia di Pratt si trovava in Etiopia, dove il padre era stato arruolato nella Polizia coloniale. Nel 1941 la famiglia Pratt fu internata in campo di concentramento a Dire Daua dove il padre morì nel 1942. Un anno dopo Pratt poté rientrare in Italia grazie all’intervento a favore dei prigionieri della Croce Rossa e a Città di Castello frequentò fino a settembre un collegio militare fascista. Nel 1943, torna a Venezia e fu per breve tempo marò della Decima Mas militando nel Battaglione Lupo finché la nonna lo costrinse a ritornare a casa. Nell’autunno del ’44, invaghitosi di una bella ausiliaria germanica,  rischiò invece di essere fucilato dalle SS, che temevano fosse una spia sudafricana. Nel febbraio 1945, comunque, Hugo passa la linea del fronte. Prima si imbatte nei partigiani, tra i quali incontra alcuni suoi vecchi amici: “Ma – ha raccontato nel romanzo autobiografico Le pulci penetranti – non ci ho resistito molto tempo, nemmeno una settimana: facevano finta di fare maledettamente sul serio”.   Poi arriva a indossare la divisa degli alleati, facilitato dalla sua perfetta conoscenza della lingua inglese. Il 24 aprile entra a Venezia inquadrato e vestito come giovale militare scozzese, poi, ancora per spirito goliardico e avventuroso, indossa una divisa con la mostrina irregolare su cui spiccano le fantasiose iniziali I.S., “individual soldier”. Una divisa che gli servì, come ha raccontato, soprattutto per rimorchiare ragazze…
Dal 1950 in poi, i suoi spostamenti: prima l’Argentina, quindi Londra, di nuovo l’Italia, tra Milano e Genova, quindi Parigi, di nuovo Venezia e, infine, la Svizzera. E i suoi tanti, tantissimi viaggi, in tutto il mondo. E le sue stsorie a fumetti, apparse, negli anni, su Sgt. Kirk, sul Corriere dei Piccoli, su Linus, sul Corriere dei Ragazzi, su Pif Gadget, su Pilot, su L’Eternauta, su Corto Maltese… E i suoi libri, di letteratura e scrittura: Le pulci penetranti, Aspettando Corto, Avevo un appuntamento, Il romanzo di Criss Kenton, Jesuit Joe, oltre alle versioni narrative (pubblicate e ripubblicate sino alle definitive edizioni Einaudi) delle principali storie di Corto Maltese, Una ballata del mare salato e Corte Sconta detta Arcana, sino alla affascinate autobiografia Il desiderio di essere inutile.
Tra i tanti che ne hanno parlato, il cantautore Bruno Lauzi ha raccontato di quando, nella Pasqua del ’75, lo incontra all’aeroporto di Linate. Aveva una lunga sciarpa rossa e l’aria bonaria. Lo guarda e gli fa in veneziano: “Lu l’è il Lausi”, con la esse. E il musicista: “E lei è Pratt. Io sono un suo ammiratore dai tempi dell’Asso di Picche”. Ne viene fuori un invito a pranzo a Saint-Germain-en-Laye, da lui. E finisce che Hugo disegna un Corto per festeggiare l’incontro: “Mentre lui disegna – rievocava Lauzi – gli registro un samba improvvisato che intitolo Samba per Corto. Quel suo disegno ha sempre vegliato su di noi sulle parti della mia casa, moderno Lare…”.
Del grande Hugo resta infine da precisare il particolare orientamento libertario, che lo ha sempre caratterizzato. Tanto che, paradossalmente negli anni ’70, quando vennero messi al bando gli scrittori d’avventura che avevano alimentato i “sogni di libertà” della sua generazione, finì per venire accusato – contemporaneamente – di “libertarismo” e di “fascismo”. Ricordava lo stesso Pratt che in quegli anni si era quasi costretti “a rispolverare Marx ed Engels, autori – annotava – che dovetti frequentare ma che mi annoiarono immediatamente. Visitai anche Marcuse e qualche altro ma tornai ai classici dell’avventura. Venni allora accusato di infantilismo di edonismo e di fascismo”. Critiche che si ribaltarono in fastidi e rappresaglie. Dopo infatti un anno di lavoro alla rivista di fumetti francese Pif Gadget, Pratt venne licenziato perché l’editore, vicino al partito comunista di Francia e tutto preso da storie di impegno e militanza, giudicava eccessivo il libertarismo che anima i fumetti di Corto Maltese.



In un’intervista a Vincenzo Mollica sarà comunque lo stesso Hugo a chiarire il suo pensiero e il fatto che l’arte è un terreno di per sé irregolare e sfuggente a qualsiasi inquadramento militante: “Il fatto che io sia un libertario, e spero che questo traspaia dalle mie storie, non m’impedisce di leggere Kipling. Ci sono molti che dicono che non leggeranno mai Ezra Pound perché era fascista e perché non appartiene a quella cultura che tendenzialmente è marxista e leninista ma io non credo che Ezra Pound debba per forza essere identificato”. E la sua memoria correva dritta ai vecchi ricordi del poeta americano, che Hugo incontrava per le calli della sua Venezia: “Una volta mi ha guardato, fisso a lungo, si è fermato, poi ha fatto un segno. Come per dire: ‘Ci conosciamo’…”.

Anticonformista nelle idee e nella vita, Pratt avrà in Corto i segni della sua stessa biografia: dall’infanzia tra Venezia e l’Africa ai lunghi anni argentini, dal Brasile a Cordoba, dall’amicizia con profughi tedeschi o russi alla passione non militarista per le divise sino a quella per le donne che gli farà mettere al mondo sei figli da quattro madri diverse. Tutto incuriosiva Hugo: “La mia vita – diceva – è colma di sorprese e di piaceri. Le mie numerose ricerche in ogni campo mi hanno permesso di meglio comprendere il mondo e me stesso”. Ma, sempre, senza mai prendersi troppo sul serio: “Quando ripenso a coloro – sentenziò – che mi accusano di essere inutile, e a quello che giudicano utile, allora, a loro confronto, non solo provo piacere a essere inutile, ma ne sento il desiderio”.