sabato 30 marzo 2013

Ripartiamo dalla storia (e dalla politica) per capire cosa è la mafia



Pier Paolo Segneri
Che cos’è la mafia? Il significato etimologico della parola “mafia” sarebbe innanzitutto quello di “baldanza”, “orgoglio”, “eccellenza”. Secondo i dizionari attuali, il termine indica l’organizzazione criminale originaria della Sicilia occidentale, sorta nell’Ottocento, sotto il governo borbonico e diffusasi dopo l’Unità d’Italia, fino ad espandersi in gran parte del territorio nazionale e ad assumere - negli anni Trenta del secolo scorso – rilievo internazionale.
Moltissimi sono i riferimenti cinematografici che possono venire in mente se si pensa, per esempio, proprio agli anni ’20 e ’30 e al diffondersi della mafia negli Stati Uniti d’America: Nemico pubblico, A qualcuno piace caldo, Il Padrino, Gli intoccabili, C’era una volta in America. Tante sono le pellicole che raccontano e narrano quel periodo e quel fenomeno, in Italia come altrove. Si pensi, per quanto riguarda i film e le produzioni italiane a titoli come In nome della legge di Pietro Germi o Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. Ciascuno di noi, infatti, ha in sé un proprio immaginario cinematografico che si sovrappone e si confonde, a tratti, con quello della cronaca, della storia, delle immagini in bianco e nero pubblicate sulla stampa.
Ma che cos’è la mafia? Anche il miglior film, che ci potrebbe aiutare a capire, in realtà, non riesce a spiegarci come stanno veramente le cose. In questo caso, possono essere indispensabili alcuni buoni libri sull’argomento come, ad esempio, Cose di Cosa nostra scritto da Giovanni Falcone. E non basta: è necessario, anche qui, rileggere Leonardo Sciascia, ricorrere alla letteratura italiana, ai romanzi. Eppure, anche queste letture non sono sufficienti. Sono, però, letture necessarie per capire. Certo, lo sappiamo, non saranno mai letture sufficienti per comprendere davvero la complessità del fenomeno. Quello che appare chiaro è che la mafia esercita un controllo parassitario su attività economiche e produttive come gli appalti edilizi o sui traffici illeciti come quello degli stupefacenti. Ma non basta. E’ necessario andare alla radice, guardare alle origini, approfondire la realtà storica in cui la mafia si è prima formata e, poi, prosperato. In tal senso, lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia sosteneva di aver trovato “nell’elenco dei riconciliati dell’Atto di Fede celebrato a Palermo nel 1658, la parola ‘Maffia’ come soprannome di una fattucchiera: Catarina la Licatisa nomata ancor Maffia”. Secondo gli studiosi della lingua, il temine dovrebbe essere apparso la prima volta nel 1863 nella commedia “I Mafiusi della Vicaria di Palermo”, dove un personaggio innominato, con le sembianze di un garibaldino, attua la redenzione dei malviventi rinchiusi nelle carceri palermitane. Il vocabolo “mafia” esisteva già prima della spedizione dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi. Lo stesso Leonardo Sciascia accenna al proclama che i mafiosi di Vicaria fecero nel 1860 dalle prigioni in cui erano detenuti raccomandando agli amici liberi di “comportarsi bene” e “che non commettessero furti, rapine e omicidi” affinché i Borboni non avessero modo di utilizzare eventuali atti criminali come scusa per incolpare la rivoluzione garibaldina di tali delitti. Insomma, l’origine della mafia è assai antica, ma il fenomeno si radicò in Sicilia soprattutto a partire dall’Unità d’Italia. Nel 1875, lo storico Villari, studiando il rapporto tra mafia, classi sociali, città e campagna, dichiarò che “il maggior numero dei delitti si commette da abitanti dei dintorni di Palermo”. Il fenomeno si sviluppò, quindi, prima nelle zone più ricche. La mafia, in altre parole, ebbe origine non in zone caratterizzate d’arretratezza, ma in luoghi in cui c’erano più possibilità di sviluppo, di commercio, di denaro. Sfatiamo, allora, un luogo comune. E tanti altri sarebbero i luoghi comuni da sfatare e che ci impediscono di capire che cosa sia la mafia al di là degli stereotipi. Si dovrebbe ripartire dalla filologia, dalle origini, dalla storia. Per arrivare, poi, alla cronaca. Oppure viceversa: partire dalla cronaca per arrivare, andando a ritroso, fino alla radice più nascosta del problema.

giovedì 28 marzo 2013

Destra e divise: quando non è possibile dire "arrivano i nostri"




Il vergognoso sit in dei sindacati di polizia sotto l’ufficio della madre di Aldrovandi avrebbe meritato un’immediata dissociazione di tutte le forze politiche associabili alla destra a cui la manifestazione viene attribuita, anche grazie alla penosa partecipazione dell’on. Potito Salatto (solo per avere nelle proprie file un campione di questo genere Fli avrebbe meritato non lo 0,5, ma lo zero e basta). Ripropongo perciò un articolo sull’argomento che riguarda i vizi della destra d’ordine quando sono le divise a trovarsi dalla parte del torto. Questo articolo (pubblicato sul Secolo delle nefandezze, cioè quello diretto da Perina-Lanna) mi valse l’invito a una trasmissione su La7. Lo dico perché circola la tesi idiota (riproposta in un libro per fortuna non molto diffuso sulla storia di quel giornale) secondo cui all’epoca i salotti televisivi si occupavano della destra solo se essa scimmiottava la sinistra. Bene io penso che difendere un poliziotto che delinque non sia di destra, sia semplicemente ingiusto. E ritengo di avere, con l’articolo in questione, dato voce a una destra normale, civile, presentabile, cui i sit in sotto l’ufficio di una madre che ha perso un figlio fanno prepotentemente schifo

Annalisa Terranova

Non è un Paese normale, né civile, quello in cui se a compiere un delitto è un uomo in divisa scatta una sorta di rete di protezione, una cortina fumogena di mistificazione, che si conclude con una pena irrisoria nei confronti del singolo che ha infranto la legge. Non è un Paese normale né civile perché in questo tipo di Paese chi ha una divisa ha la missione di tutelare le persone e non di offenderle, di prevaricarle, di ucciderle. Fatta questa premessa essenziale, occorre dire che questa riflessione dev’essere approfondita soprattutto da parte di quella destra che dinanzi a una carica dei carabinieri o degli agenti di polizia pensa meccanicamente: «Ecco, arrivano i nostri!». Ma sono i «nostri» davvero? O non si dovrebbe recuperare un giudizio più distaccato? Nel recente passato, prima dello sciagurato omicidio di Gabriele Sandri, non sono mancati purtroppo casi in cui giovani vittime di uomini in divisa non hanno avuto giustizia, casi che hanno infranto in modo clamoroso il principio-cardine dello Stato di diritto secondo cui tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. L’elenco è penoso, ma occorre farlo. Partiamo da Giorgiana Masiuccisa durante una manifestazione dei radicali il 12 maggio del 1977. Aveva diciannove anni. L’età, per dirla con Lucio Battisti, in cui si hanno nel cuore “prati verdi che nessuno ha ancora calpestato”. C’erano agenti in borghese armati infiltrati tra i manifestanti, ma l’omertà non consentì di arrivare a individuare un responsabile dell’assassinio. Poi ci sono due ragazzi che riguardano da vicino il mondo della destra. I loro volti li conosciamo bene, così come le loro storie. Stefano Recchioni, 19 anni, centrato in pieno volto da un proiettile dopo che aveva sparato il capitano dei carabinieri Edoardo Sivori. Anche in quel caso, si tentò il depistaggio d’ordinanza: furono casualmente rinvenuti proiettili nelle tasche dei pantaloni di Stefano. Ce l’avevano messi per dimostrare che era un facinoroso accorso ad Acca Larenzia per fomentare disordini. Vi era accorso scioccato, come tutti noi, per la morte di due che erano davvero “dei nostri”. L’altro ragazzo è Alberto Giaquinto, ucciso con un colpo alla schiena dall’agente in borghese Alessio Speranza. Come vogliamo definire queste morti? Omicidi di Stato? In ogni caso gli esecutori materiali dei delitti non hanno fatto nemmeno un giorno di carcere. Poi ci sono i fatti del G8 di Genova del 2001: disastrosa gestione dell’ordine pubblico e non solo per colpa dei black bloc. Un ragazzo morto: Carlo Giuliani. Dice: stava tirando un estintore contro la jeep da dove sparò il carabiniere Placanica. Vero, ma colpisce di più il fatto che avesse vent’anni. Colpisce il fatto che il Defender assaltato passò due volte sul corpo di Giuliani. Colpisce che non gli spararono alle gambe. Dice: l’agente Placanica era sotto choc, c’era un clima di tensione altissima. Ma perché mandare giovani agenti impreparati in quell’inferno? In ogni caso, alle forze dell’ordine non dovrebbe appartenere il concetto di vendetta che ci fu e che fu messa in pratica nella caserma Bolzaneto, dove venivano portati i manifestanti fermati, picchiati e umiliati, insultati e costretti ad abbaiare o stare in piedi su una gamba sola. E vendetta ci fu con l’irruzione della polizia alla scuola Diaz, di notte, dove dormivano i militanti del Genoa Social Forum. Scene da “macelleria messicana” ebbe a dire un poliziotto, Michelangelo Fournier, che all’epoca dirigeva la missione punitiva in seguito ripudiata. Ovviamente furono trovate molotov, peccato che ce le avessero portate gli agenti stessi, per giustificare la mattanza. Il tragico cerchio di errori, di eccessi, di deviazioni da quello che dovrebbe essere il normale comportamento degli uomini in divisa, addestrati per tutelare i diritti dei cittadini e non per violarli, si chiude con il caso Sandri. La pena irrisoria inflitta all’agente Spaccarotella dimostra ancora una volta che la giustizia diviene magicamente strabica quando si tratta di punire il responsabile di un delitto se quel responsabile si fregia dell’appellativo di membro delle forze dell’ordine. Si replicherà: una mela marcia non pregiudica la bontà dell’intero frutteto. Ma se il contadino anziché buttarla via la spaccia come buona e genuina, su tutta la merce grava il sospetto di avaria.


mercoledì 27 marzo 2013

Abbiamo strappato l'anima al Mediterraneo





Gennaro Malgieri  

Ho cercato di guardare al Mediterraneo sempre con gli occhi dell’uomo del passato. E mi sono finto – dallo scoglio di Malta, alle rive del Peloponneso, dalle nere spiagge siciliane, dalle isole egee, alle insenature turche ai golfi africani – viaggiatore nello spazio liquido alla ricerca di rotte antiche sulle quali indirizzare il mio percorso sentimentale, convinto che è il Mediterraneo il grembo nel quale sono stato concepito. Perciò è mare dell’amore, sacro come ciò che dà la vita e la vita si riprende alla fine. Che poi io sia occidentale, europeo, greco, romano e cristiano poco importa. Potrei essere orientale, asiatico, politeista o islamico. Oppure scuro di carnagione, dionisiaco d’indole, levantino di costumi. Resterei sempre mediterraneo: l’identità indiscutibile di culture e civiltà che l’uomo del passato percepiva non conflittuali guardando il suo mare, come vorrei percepirle io quando mi affaccio sullo stesso mare, anzi mi getto in esso e da esso mi faccio possedere. 
E vorrei perdermi, con l’antico osservatore, tra i flutti o nelle burrasche; riemergere con lui tra nuove avventure sacrificando all’unico Dio senza dimenticare le divinità ancestrali dei padri che indirizzarono le vele verso porti sicuri. E poi vorrei ritrovarmi tra rovine amate come dentro casa mia, in compagnia di cantastorie egizi, fenici, anatolici, africani, ispanici, greci, dove le pietre scaldano come le religioni che custodiscono. 
Da Creta alla Sicilia alle Baleari vorrei navigare in linea retta come i fenici, raccogliendo le inquietudini del Mediterraneo, ma senza soffermarmi, con il rischio di perdermi e congedarmi dalla mia stessa anima, come Ulisse nei porti della virtù e del vizio. Per quanto, da antico abitante marino, dovrei rendere omaggio all’eroe che l’ha solcato, primo ed ultimo danzatore sulle onde tra guerre ed amori. Nessuno di noi, dopo di lui, tramontata l’età dell’oro, è stato una cosa sola con il Mediterraneo. L’alba è durata millenni e non s’è mai visto un altro veleggiare sostenuto da venti e da Dèi. Soltanto nel 1571, il 7 ottobre,  l’Unico spinse la Verità alla vittoria, servito da don Giovanni d'Austria, da quel giorno Signore di Lepanto e difensore della Cristianità, mettendo fine alla più cruenta guerra civile mediterranea, quella tra le religioni, le civiltà, le culture figlie dello stesso mare. Sei anni prima, gli usurpatori aggressori dell'Europa si erano arenati davanti a Malta, difesa da un manipolo di cavalieri con la croce sul petto. 
Oggi si raccolgono frantumi sulla superficie liquida della nostra storia. E le parole di Fernand Braudel acuiscono la nostalgia per ciò che non c’è più o che non riconosco più: “Che cos’è il Mediterraneo?  Mille cose al tempo stesso. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare ma una successione di mari. Non una civiltà ma più civiltà ammassate l’una sull’altra. Il Mediterraneo è un antico crocevia. Da millenni tutto è confluito verso questo mare, scompigliando e arricchendo la sua storia”. 
Nel 1540 Carlo V giunse davanti ad Algeri, il mare in tempesta fece scontrare due delle sue navi: l’imperatore abbandonò, presago di un disastro più grande se si fosse ostinato nel tenere la rotta che si era prefisso. È il disastro che vedo, cinque secoli dopo, affacciandomi, come spesso mi capita, sulle alture che dominano la baia d’Algeri: evitato allora, coltivato con maniacale perfidia oggi. Il sangue lo vedo scorrere sull'acqua sporca del mare come  dove cinquant'anni fa galleggiavano  gioie e dolori nel sogno di una liberazione che è stata l’anticamera della tragedia: meglio i popoli vivi che quelli uccisi dall’odio. 
Dalla baia d’Algeri a Beirut, da un capo all’altro del Mediterraneo, lambendo le coste italiche ed ispaniche, l’inquietudine si tocca con mano, sfiorando il pelo dell’acqua. Le civiltà non si riconoscono più. Anzi, si detestano. Ed i popoli si offrono alla considerazione dell’uomo antico che li osserva come soggetti insoddisfatti. Nel Mediterraneo si addensano parole e crimini: i fiori dell’amore e della musica e della poesia che pure ingentilivano le crudeltà imperiali, papali o musulmane e lo Stupore del mondo benediceva l’arte come Adriano il conquistatore, sono scomparsi perfino nei recessi della memoria. 
L’identità del Mare Nostro è indecifrabile, forse non c’è più. Al suo posto rileviamo un lungo lamento che ci fa capire come la storia sia finita da un pezzo; la storia di un porto senz’anima dove s’incrociano traffici indifferenti ai popoli che sulle sue rive s’affacciano e vivono nel disinteresse dei padroni del mondo. E’ stato detto che oggi i Paesi del Mediterraneo non hanno altro in comune che l’insoddisfazione di chi li popola. Forse si dovrebbe aggiungere che esso è il contenitore di conflitti i cui rumori con difficoltà la vecchia Europa, rassicurata dal fatuo e pericolante benessere che produce, percepisce in maniera non adeguata. Eppure dalle sue sponde risuonano grida che il Mediterraneo ha già conosciuto nelle molte età del ferro che l’hanno attraversato. Ma a differenza del passato, oggi non riesce a trovare un “centro ordinatore” in grado di indirizzare la convivenza tra i popoli nel senso della pace “non indifferente”, ma consapevole, fondata cioè sulla convivenza nella quale le culture abbiano riconoscimento e la vitalità di ogni etnia si armonizzi in un contesto di tolleranza. Difficile, naturalmente.
Ma da uomo del passato che ne ha viste tante, so che se l’Unione europea si sviluppa senza tener conto della sua “culla” mediterranea diventa perfino impossibile immaginare un destino diverso per il nostro mare, considerato come una vera e propria “linea di faglia” da abbattere per omologare genti, costumi, tradizioni, linguaggi - la sua ricchezza seducente – secondo stereotipi culturali e prepolitici estranei al modo d’essere dei popoli mediterranei. Manca, insomma, un principio ordinatore in grado di far diventare il Mediterraneo un “progetto”. Per quanto ben ispirate, le numerose convenzioni stipulate negli ultimi anni non hanno sortito gli effetti sperati. La ragione è che nessun governo ha mai considerato il Mediterraneo per quello che è, vale a dire il “luogo” dell’incontro dove Oriente e Occidente, Cristianità e Islam, Sud e Nord del mondo, avventure dello spirito e disavventure dell’intelligenza incrociano le loro differenze e le loro speranze.  
Si può dire che soltanto Roma abbia compreso la “crucialità” del Mediterraneo. Ma Roma non è più da molto tempo “principio ordinatore”. Da essa non passa la Storia. E all’ombra delle immagini del passato non sboccia neppure un’idea che sia in grado di esercitare attrazione per quanti cercano occasione di pacificazione. Chi può dispiegare quel “potere che trattiene”, come diceva San Paolo, il potere che impedisce il disordine totale? 
Torno sui miei scogli. Inquieto. Come i miei contemporanei. Si sta male nel cuore di un mare che non si può solcare. Ascolto Bach, talvolta, interpretato da una grande pianista turca scoperta in una freddissima notte ad Ankara. Le “Fughe”sono europee, lo spirito è orientale. Come gli strumenti che l’accompagnano. L’effetto è sublime. Si chiama Anjelika Akbar. L’incontro è possibile, allora. 

martedì 26 marzo 2013

Perché si deve tornare a leggere Sciascia




di Pier Paolo Segneri
I suoi libri ci parlano ancora. Siciliano di Racalmuto, cioè di un piccolo paese sperduto nella vastità di una regione separata, non solo geograficamente, dal resto dello stivale e dal “continente”, Leonardo Sciascia non abbandonò mai la sua dimensione provinciale, di “uomo di lettere” semplice e intelligente, acuto e provocatorio, raffinatissimo e profondo. Ma egli – ecco la novità rispetto ai tanti altri scrittori “provinciali” – sulla “scienza certa” delle proprie origini, delle proprie tradizioni e cultura, seppe innestare la grande lezione dei pensatori francesi del XVIII secolo, il genio di Borges e lo stile del libellista Paul-Louis Courier, autore “che sapeva dare colpi di penna che erano come colpi di spada”. Non a caso, Sciascia aveva scelto una frase di Georges Bernanos come guida del suo essere scrittore: “Preferisco perdere la fiducia dei miei lettori, piuttosto che ingannarli”. Questa regola gli derivava anche dalla convinzione che il fare e il leggere libri fossero “buone azioni”.
E così, come una voce dall’aldilà, il suo suggerimento arriva fino a noi con tutta la forza delle cose semplici, che soltanto la scrittura, la parola e le buone azioni sanno donare. Leggere, dunque, e scrivere “per null’altro che per amore della verità”. Per non ingannare se stessi e gli altri. Per non cadere nella sfiducia di un mondo che va al rovescio e travasa l’essenziale fuori dal senso d’umanità, così tanto sperso e sparso da far seccare la nostra coscienza. Nasce, allora, in Sciascia, e dovrebbe rinascere in noi, il rifiuto del pessimismo rassegnato, la necessità di riscoprire la poesia e l’arte, il teatro e il cinema, la musica e la pittura per nutrire di vita la nostra umanità e renderla migliore, più consapevole, meno assoggettata e meno schiava. Questo è, forse, il suo principale insegnamento per il nostro tempo di crisi.
La letteratura, la poesia e l’arte sono divenute, oggi più di ieri, in questa fase di mutamenti, l’unica forza propulsiva attraverso cui il cambiamento umano può prendere la strada della libertà e della fantasia invece che quella della costrizione, del possesso, dell’autoritarismo. E’ giunto il momento, insomma, di cogliere l’atto rivoluzionario di Leonardo Sciascia, cioè la capacità critica di saper discernere, ascoltare, comprendere, domandare, accrescere la propria attenzione verso gli altri, verso l’alterità, verso il prossimo. E leggere. E scrivere. E compiere “buone azioni”. Anche con il rischio di perdere la fiducia degli altri: sempre meglio questo che perdersi nell’inganno! Il suo metodo, infatti, era quello della ricerca. Una ricerca costante e incessante della e delle verità. Il suo obiettivo letterario, di conseguenza, stava nello svelare al lettore il volto che viene nascosto dietro le mille maschere della menzogna. E la letteratura diventa il viatico per conoscere le verità. In questo senso, Sciascia ha un debito con l’imperitura presenza, spesso ingombrante, dell’altro grande scrittore siciliano: Luigi Pirandello.

Quelli che "si dimettono" dalla Chiesa di Francesco




Luciano Lanna
Non ci piace la logica del dire “abbiamo avuto ragione” o “avevamo visto giusto noi”. Ma la tentazione c’è comunque stata di fronte alla notizia – lanciata sulla prima pagina del berlusconiano Giornale – delle “dimissioni” dal cattolicesimo di Magdi Allam. Uno sbattere la porta come se una fede fosse un taxi o un autobus sul quale si sale e si scende a seconda dell’interesse strategico del momento. Eppure lui, l’ex giornalista italo-egiziano di Repubblica e poi passato improvvisamente alla vicedirezione del Corriere, spiega che considera “conclusa” la sua conversione, quella sua adesione al cattolicesimo  “orgogliosamente” connessa, come ha precisato, a una visione del cristianesimo come “civiltà”. Un’accezione della fede che sa tanto – noi lo scriviamo e denunciamo da un decennio – di riproposizione di quella tentazione maurrasiana condannata a suo tempo dalla Santa Sede quale eresia essenzialmente atea e anticristiana. Non a caso Magdi Allam è, dal suo punto di vista, esplicito sia su questo punto spiegando di concepire l’identità cristiana come una realtà legata a fattori come la Nazione e la Civiltà: “La Chiesa – scrive nel suo commiato via Giornale – da sempre accoglie nel suo seno un’infinità di comunità, congregazioni, ideologie, interessi materiali che si traducono nel mettere insieme tutto e il contrario di tutto. Così come la Chiesa è fisiologicamente globalista fondandosi sulla comunione dei cattolici in tutto il mondo, come emerge chiaramente dal Conclave. Ciò fa sì che la Chiesa assume posizioni ideologicamente contrari alla Nazione come identità e Civiltà da preservare, predicando di fatto il superamento delle frontiere nazionali…”. Lo ripetiamo, perché lo denunciammo personalmente nell’ottobre del 2005 nel convegno viterbese “Volo di notte”: questa modalità di presentare il cattolicesimo come strumento politico, riproponeva nei primi anni Duemila le tesi nazionaliste e di estrema destra di Charles Maurras e del suo movimento politico Action française, tesi che presentavano l’identità cristiana come sovrastruttura di unificazione politica e di civiltà. Tesi che però già negli anni Trenta del Novecento erano state condannate ufficialmente e sanzionate dalla Chiesa. Preparata già dal 1913 da papa Pio X – con l’esplicito rimprovero di subordinare la religione alla politica e al nazionalismo – la condanna arrivò infatti il 29 dicembre 1926: papa Pio XI metteva all’indice i libri di Maurras per decreto del Sant’Uffizio e l’8 marzo del 1927 agli iscritti all’Action française venivano addirittura interdetti i sacramenti.
Nonostante ciò, tali tesi tornano di moda quasi un secolo dopo, soprattutto dopo l’11 settembre 2001. Vittorio Messori, l’intellettuale cattolico che è stato l’intervistatore ufficiale di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, ha da subito invitato a diffidare di chi, anche sull’onda della seconda presidenza di Bush jr, sollecitava “un uso della fede cristiana in funzione di copertura a battaglie politiche insieme al riferimento retorico alle radici cristiane ridotto a puro slogan da parte di coloro che non sono interessati alla vita reale di queste radici, ma a manifesti ideologici per giustificare scontri di civiltà o magari carriere politiche…”.
Eppure dal 2002 al 2006 è stato un crescendo di prese di posizione e manifestazioni ispirate a un neo-maurrasismo giustificato in nome della battaglia al relativismo e alla diffusione in Europa e in Occidente dell’Islam. Da destra, ma anche da parte di un certo occidentalismo già progressista e passato ad auspicare e delineare una nuova destra liberal-conservatrice.
Così, nel 2006 fu l’allora presidente del Senato Marcello Pera a lanciare una fondazione, Magna Charta, con l’obiettivo di salvare l’Occidente in nome dei presunti valori della cristianità. Per l’esattezza, con un manifesto, firmato da sessantasette esponenti della politica, della cultura e delle associazioni, Pera si diede il compito di preservare le tradizioni (citate quattro volte nel testo),”l’identita”, “i principi universali”, i “costumi millenari” e il “primato cristiano” di una civiltà “minata dall'interno da una crisi morale, culturale e spirituale”. Era quello il momento dell’emersione di tutta una serie di neo-convertiti al cattolicesimo da posizioni ultralaiciste di qualche anno prima. In prima fila al convegno indetto da Pera c’erano infatti gli ex comunisti Sandro Bondi e Ferdinando Adornato e l’ex radicale Gaetano Quagliariello (poi si aggiungerà dalle stesse file Eugenia Roccella), e non mancavano i “destri” Gianni Alemanno e Alfredo Mantovano. Ma seduti c’erano anche i giornalisti Fiamma Nirenstein e, appunto, Magdi Allam. Commentava giustamente su Repubblica Filippo Ceccarelli: “Mettere in agenda nientemeno che la crisi della civiltà occidentale rischia più che altro di mettere a nudo vanità, tornaconti, velleità e inadeguatezze. E poi: ammesso che questa crisi ci sia davvero, e che sul serio sia proprio il relativismo, come dice Pera, il veleno che attraversa la civiltà occidentale, ecco, il sospetto è che a questo esito non siano del tutto estranei molti di quelli che hanno firmato la magna charta del presidente del Senato”.
Sullo sfondo c’era, evidente, il tentativo di strumentalizzare il pontificato di un papa teologo come Ratzinger, sottacendo la sua attività al tempo del Concilio Vaticano II come i suoi scritti sulla bellezza delle fede o sul pensiero di Agostino. E su questo scenario arriva la “conversione” al cattolicesimo di Magdi Allam, avvenuta per mano di Benedetto XVI nella notte della Veglia Pasquale il 22 marzo 2008, preparata da un cattolico pidiellino come Maurizio Lupi. Anche se qualcuno, va ricordato, aveva comunque espresso qualche dubbio. Come il vaticanista de La Stampa Andrea Tornielli: “Dopo aver letto la lettera con la quale Magdi Cristiano Allam ha raccontato la sua conversione ho visto approfondirsi e acuirsi il mio dubbio. Mi è sembrato fuori luogo il fatto che a poche ore dal battesimo ricevuto (un dono di grazia) Allam abbia pubblicato una sorta di manifesto antimusulmano dicendo che ‘la radice del male è insita in un Islam che è fisiologicamente...”. Tornielli, intanto, ricordava come Magdi Allam in precedenza non fosse stato un musulmano professante ma un egiziano laico. “Mi rallegro – aggiungeva Tornielli – per l’approdo a cui il giornalista è giunto dopo un cammino interiore e degli incontri significativi. Non discuto in alcun modo la scelta di celebrare il battesimo in San Pietro. Discuto, invece, il significato anti-islamico che Allam ha voluto dare fornendo la mattina di Pasqua l’interpretazione del gesto del Papa. Interpretazione battagliera, che non mi risulta poi così condivisa Oltretevere. Vorrei ricordare, perché è importante farlo, che dopo il discorso di Ratisbona 138 intellettuali musulmani hanno scritto al Papa e si sono gettate le basi per il dialogo”. Magdi Allam, in un articolo intitolato “La doppiezza del terrore”, aveva invece espresso critiche durissime ai 138, bollando tra l’altro come ingenue le reazioni del cardinale Angelo Scola (patriarca di Venezia) e Jean Luis Tauran (presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso). “Allam – proseguiva Tornielli ­– ha inoltre sostenuto fino in fondo la guerra anglo-americana contro l’Iraq, osteggiata da Giovanni Paolo II e realisticamente descritta come catastrofica da Benedetto XVI”.
L’atteggiamento dei cristiani verso l’Islam d’altronde è quello ufficialmente sancito dal Concilio Vaticano II e ribadito più volte da Papa Benedetto XVI, il quale 25 settembre del 2006, nonostante del tesi dell’allora neo-convertito Magi Allam, dirà: “In un mondo segnato dal relativismo, e che troppo spesso esclude la trascendenza dall’universalità della ragione, abbiamo assolutamente bisogno d’un dialogo autentico tra le religioni e tra le culture, un dialogo in grado di aiutarci a superare insieme tutte le tensioni in uno spirito di proficua intesa. In continuità con l’opera intrapresa dal mio predecessore, il Papa Giovanni Paolo II, auspico dunque vivamente che i rapporti ispirati a fiducia, che si sono instaurati da diversi anni fra cristiani e musulmani, non solo proseguano, ma si sviluppino in uno spirito di dialogo sincero e rispettoso, un dialogo fondato su una conoscenza reciproca sempre più autentica che, con gioia, riconosce i valori religiosi comuni...”. 
Ecco, adesso, cinque anni dopo, e sempre in prossimità della Santa Pasqua, Magdi Allam esce, se ne va, sbatte la porta. “E’ vacillata la mia fede nella Chiesa”, dice. E spiega questo suo distacco soprattutto per la legittimazione cattolica dell’Islam come vera religione accomunata a quella di Roma dalla fede nell’unico Dio creatore, del Corano come testo sacro e religioso, delle moschee come luogo di culto: “E’ una autentica follia suicida – sostiene, giudicando anche i Papi – il fatto che Giovanni Paolo II si spinse fino a baciare il Corano il 14 maggio 1999, che Benedetto XVI pose la mano sul Corano pregando in direzione della Mecca all'interno della Moschea Blu di Istanbul il 30 novembre 2006, e che Francesco I ha esordito esaltando i musulmani che adorano Dio unico, vivente e misericordioso”.
Insomma, adesso è tutto chiaro. Le “dimissioni” di Ratzinger e l’arrivo di Bergoglio hanno fatto saltare il tappo. Nessuno può più pensare di imprigionare la Chiesa nei suoi schemi umani, troppo umani. Di disinnescarne la carica di misericordia e speranza. Il cristianesimo torna prepotentemente a riproporsi come salvezza e redenzione, come lo stupore di un incontro con qualcuno che ti stava aspettando. Non moralismo, non adesione intellettuale a un sistema, non ritualità fine a se stessa, non copertura a presunti progetti di civiltà. Ci pensino bene tutti coloro che ancora pensano di “usare” la Chiesa e i cattolici per lanciare le battaglie dai toni da crociata unicamente in difesa di valori cosiddetti non negoziabili. La speranza e la salvezza sono qualcosa di molto più reale e di molto più importante dei valori. Andassero a rileggersi la polemica anti-pelagiana di Sant’Agostino.

lunedì 25 marzo 2013

La lezione di Adriano Romualdi



E' stato ripubblicato dalle Edizioni Settimo Sigillo il libro di Adriano Romualdi, nel quarantesimo anniversario della sua tragica e prematura scomparsa, Una cultura per l'Europa. Si compone di due saggi, scritti in tempi diversi, pubblicati insieme per la prima volta nel 1986 a cura di Gennaro Malgieri della cui nuova prefazione proponiamo qui di seguito ampi stralci.






MEMORIA DI ADRIANO



Gennaro Malgieri

A quarant'anni dalla improvvisa e prematura scomparsa, Adriano Romualdi (1940-1973) è ancora vivo nella memoria di chi era suo coetaneo o, come si disse all'epoca, suo "fratello minore". Per quanto possa risultare strano, la visione complessiva della cultura politica della destra elaborata "prodigiosamente" in considerazione della sua giovane età da Romualdi, è ancora fonte di suggestioni, stimoli e spunti di riflessione. Per quanto i tempi si siano fatti lividi, quel che rimane di una esperienza di scavo nelle ragioni profonde di una parte politica come la destra italiana è ancora racchiuso in tante intuizioni dello studioso che se ne andò come mai avrebbe immaginato: tra le ferraglie della sua macchina fuori strada alla vigilia di un torrido ferragosto, mentre indifferenti per tutta una notte gli passavano accanto automobilisti distratti che non si accorsero di un uomo che stava morendo.
Fu una perdita enorme ed anche chi intellettualmente lo avversava ne riconobbe il grande valore che Rodolfo Sideri, studioso attento ed appassionato, sottolinea nel suo Adriano Romualdi. L'uomo, l'opera e il suo tempo (Edizioni Settimo Sigillo), nel quale passa in rassegna la vasta produzione romualdiana situandola nel dibattito politico-culturale che si sviluppò a destra tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta. Dibattito del quale i saggi che qui si ripropongono, ripubblicati insieme per la prima volta nel 1986, forniscono non solo un'idea del clima di aspettative che stavano maturando, ma anche le indicazioni  ad una destra che stava per uscire dallo stato di minorità e doveva attrezzarsi a "cavalcare la tigre" dell'antagonismo politico-culturale con la consapevolezza di chi sa che la buona battaglia è soltanto quella che si combatte con "la forza delle idee senza parole", come ammoniva Oswald Spengler.
A quell'epoca, quando Adriano scriveva e "consigliava" percorsi di interventismo intellettuale dalle pagine della rivista "L'Italiano", diretta da suo padre Pino e sulla quale tanti di noi ci andavano formando come giornalisti, scrittori e politici, per quanto giovanissimo era già "qualcuno" e non soltanto perché ricercatore universitario a Roma, per volere di Renzo De Felice e Rosario Romeo che quasi clandestinamente, visto il nome che portava, lo laurearono in Storia contemporanea, o per il fatto di essere poi diventato assistente nell'Ateneo di Palermo dell'indimenticabile altrettanto giovane maestro Pippo Tricoli, ma per l'innata attitudine a pensare la politica e la cultura insieme, non ravvisando tra di esse nessuna frattura come purtroppo a destra, e non soltanto, si era portati a ritenere.
Nel panorama di allora della cosiddetta nuova cultura coincidente, grosso modo, con quella che, dopo le affermazioni elettorali del Movimento Sociale Italiano, veniva definita in maniera approssimativa larea della cultura di destra emersa, sviluppatasi ed in una certa misura affermatasi (soprattutto presso alcuni ambienti intellettuali, anche di sinistra), Romualdi occupava, per quanto ancora apparentemente "acerbo", un posto preminente come testimoniano i suoi scritti, i suoi interventi giornalistici, la sua prodigiosa attività di pensatore e di storico teso a dimostrare, come avrebbe scritto Giorgio Galli che "la cultura di destra  e le sue proposte politiche non sono un'escrescenza anomala sul corpo socio-culturale dell'Occidente". Prescindere, dunque, dalla sua riflessione storico-politica, per quanto il tempo trascorso abbia modificato sostanzialmente i connotati di una destra destra che di fatto è talmente evanescente dal punto di vista politico da essere perfino irrilevante culturalmente, è senzaltro pregiudizievole ai fini di unadeguata comprensione di una destra "diffusa", essa sì reale e viva più di quanto si sia portati a credere,  arcipelago quanto mai frastagliato nel quale compaiono paesaggi radicali, tradizionali e innovativi i cui confini non sempre sono netti e definibili proprio in ragione del medesimo terreno di coltura sul quale, nel tempo, e non sempre per ragioni puramente ideologiche, sono avvenute diversificazioni e differenziazioni tattico/strategiche. Insomma, un pensiero di destra - declinato in chiave conservatrice soprattutto, almeno nell'accezione di Arthur Moeller van den Bruck ("Essere conservatori non significa dipendere da ciò che è stato ieri, ma vivere di ciò che è eterno") - esiste ancora per quanto non codificato in neessuna scuola, nè tantomeno, purtroppo, in nessuna formazione politica. Da questo punto di vista le speranze di Romualdi, ma anche di tutto un mondo a lui coevo e perfino successivo, si sono rivelate assolutamente inconsistenti per ragioni che sarebbe improprio indagare qui. Basta soltanto dire che chi avrebbe dovuto incarnare la destra, soprattutto una volta al potere, ha dimostrato di non aver assimilato nulla di quella cultura e di aver  gettato alle ortiche la storia dalla quale discendeva per calcoli sui quali si discuterà a lungo quando la riflessione  sul ventennio 1992-2012 sarà possibile, al di là delle passioni che ne impediscono un sereno approccio.
Lopera di Adriano Romualdi, comunque la si voglia considerare e  sia  pur valutata in parte legata al suo tempo e suscettibile essa stessa di riconsiderazione alla luce di esperienze ed approfondimenti successivi che egli stesso avrebbe considerato "naturali",  è certamente uno dei motivi conduttori di maggiore interesse della destra culturale a prescindere dalle passioni di parte e dalle valutazioni della stessa ascrivibili alle sensibilità diverse che ciascuno legittimamente può nutrire. Resta tuttavia integro, come osserva Sideri nel saggio citato, "la necessità di raccogliere l'invito romualdiano ad elaborare una massa critica di produzione culturale che renda egemone, nelle coscienze prima che nelle urne, la cultura politica di destra".
Già, il problema dell'egemonia. Romualdi ne era consapevole forse più di ogni altro anche quando venne di moda parlare di "cultura di destra", mettendola magari nelle mani di chi veniva da sinistra ed in fondo legato al materialismo storico era rimasto. Ma questa è un'altra storia che coincide con la vitalità, negata dagli avversari ed da decenni ignorata dagli storici, di una destra che voleva riformarsi senza abdicare ai principi. A quella destra in particolare si rivolgeva Romualdi non sempre compreso, anzi il più delle volte avversato tanto dagli apparati partitici missini che da quelli collaterali.
Nonostante tutto - ed è ciò che più conta -   pur nella poliedricità degli interessi coltivati, in Romualdi è comunque possibile individuare un pensiero unitario teso allelaborazione di una nuova cultura quale supporto teorico di una grande politica da praticare nel tempo della fine delle illusioni edonistiche (quanto mai attuale la sua diagnosi della società unidimensionale e determinista) e scandito dal rifiuto della politica, motivato dal disgusto per lastrattismo partitico, dallindifferenza per una logica di potere estranea agli interessi reali, dalla mancanza di qualsiasi ideale di rinascita europea da parte delle classi dirigenti non solo italiane. Insomma, il tempo della Grande Crisi nel quale siamo totalmente immersi in cui insensate e fittizie sollecitazioni estetiche acuiscono la corsa verso i nuovi bisogni sempre più difficili da soddisfare, alimentando le sacche di depressione morale che costituiscono la riserva migliore allampliamento degli scenari della rinuncia, apocalitticamente colorati, sui quali si staglia lazione corrosiva dei giganti egemoni della nostra epoca: i mercati finanziari che hanno sostituito in pratica i giganti del tempo in cui si esercitava la critica romualdiana contro il mondo moderno, vale a dire lAmerica e lUnione Sovietica. La vittoria di questi soggetti ieri e della finanziarizzazione dell'economia oggi dipende solo dalla rassegnazione europea. E quanti sono oggi i non rassegnati? E per loro quale orizzonte di impegno civile è ipotizzabile? Può essere la scelta europea, la riappropriazione della politica, il tentativo di creare ed imporre nuove egemonie l'impegno di di chi non è venuto meno alladerenza ai valori oggettivi nel tempo della trasmutazione del senso e del bene comune? Lopera complessiva di Romualdi è la risposta affermativa a questo interrogativo cruciale. Risposta che a fronte di quanto sta accadendo nel mondo, ma soprattutto in Europa, ci sembra la più pertinente e la più attuale.(...)
La riflessione storica e politica di Adriano Romualdi è certamente un punto di riferimento per chi cerca delle risposte radicali nel contemporaneo movimento delle idee, caratterizzato da una malsana indulgenza verso un certo rifiuto nichilistico a cui Romualdi ha inteso reagire respingendo la logica compromissoria dellegualitarismo e della massificazione, la mercificazione dellanima e della mente, lo scempio della nostra Europa, la profanazione della Tradizione, la dissacrazione della memoria storica dei vinti, la negazione delle più intime ragioni della vita delluomo, nel più complessivo intento di adeguare i valori di sempre alla mutevole realtà.
È questo il patrimonio ideale che unintera generazione ha fatto suo; quella generazione nata agli inizi degli anni Cinquanta che ha considerato Adriano Romualdi un fratello maggiore, orfana di padri nobili; e per tale generazione, il 12 agosto 1973 non è soltanto il giorno in cui è morto un amato giovane studioso, bensì la data dellinizio di un cammino fuor di tutela che avrebbe visto le idee di Romualdi percorrere itinerari diversissimi con le gambe di giovani intellettuali che comunque la sua lezione non hanno dimenticato.
Il problema delle radici, delle origini, connesso alla ricerca di unidentità unitaria degli europei è stato il grande assillo e la grande passione di Romualdi. Pensando per grandi spazi e forte di una concezione geopolitica che superava gli angusti limiti del nazionalismo, Romualdi riconnetteva alla questione dellunità europea unimportanza primaria. Si trattava, a suo giudizio, di dare un senso compiuto allidea dellEuropa riscoprendo le ragioni e gli elementi remoti del suo essere e proiettandoli nel presente e nellavvenire in modo tale da dare il senso di una comunità compiuta sotto il profilo culturale, storico e politico.
Compito non facile dal momento che Romualdi stesso non si nascondeva che per taluni la tradizione europea si identifica con il razionalismo, mentre per altri con il cristianesimo e per altri ancora con la classicità. Tutti aspetti, comunque li si voglia considerare, limitati e particolari. Molto più indietro si deve risalire, secondo Romualdi, per ricavare dallintero complesso della storia spirituale europea il senso di una tradizione. Romualdi indica nel mondo indoeuropeo il principio unificatore dei popoli del Vecchio Continente. Un mondo caratterizzato da un ordine spirituale che si fonda sullineguaglianza e sugli elementi aggregativi naturali: la famiglia, la comunità di appartenenza, lo Stato, la religione, il diritto. A questordine indoeuropeo osserva Romualdi collaborano sia lo spirito delluomo, sia le più alte potenze. Lintelligenza umana non è contraddetta, ma completata, dalla presenza di una intelligenza della natura e delluniverso. Di qui limperativo che spinge questa razionalità umana a farsi azione, unificando nella sua lotta i motivi dellordine umano e di quello divino.
Siamo in presenza, com’è facile notare, di una concezione sacrale dellesistenza. Concezione che scandiva, nei cosiddetti tempi tradizionali, il corso dellanno, le celebrazioni, le regole morali e spirituali, perfino la coltivazione dei campi e la cura delle case: un ordine cosmico nel quale luomo viveva come membro di una  aggregazione consapevole di avere un differenziato destino dalle altre comunità.
Lordine indoeuropeo ha conosciuto aurore e tramonti, riapparizioni fugaci ed oblii persistenti, latitanze di secoli e sprazzi di luce. Comunque la sua vena sottile non è mai morta del tutto. Anche oggi, in mezzo a noi, quellordine metafisico vive nella costante possibilità della rinascita: bisogna saperlo riconoscere nelle forme mutate e, se possibile, adeguare la prassi politica alla metapolitica dei comportamenti.
Anche la considerazione che Romualdi aveva dei movimenti nazionali europei sorti e sviluppatisi tra le due guerre rimanda allo schema di valori primari tipici della civiltà europea ed in questo senso egli ha affrontato la critica alle ideologie egualitarie ed illuministiche. Nel saggio Il fascismo come fenomeno europeo scrive: Il fascismo non fu solo una dottrina espansionistica. In esso sincarnò la nostalgia delle origini in un momento in cui si manifestavano delle tendenze livellatrici di ogni struttura organica e spirituale. Cioè a dire il fascismo fu la reazione di una civiltà moderna che rischiava di perire proprio per eccesso di modernità. È contro la indisciplina liberale, il materialismo marxista, legualitarismo livellatore che si leva il grido reclamante nuovi legami, nuova spiritualità, una nuova fedeltà al sangue. Questo stadio 'romantico' di una cultura è il momento in cui si sviluppa il fascismo.
La fine del fascismo, comunque, non ha mai costituito un valido motivo per Romualdi per piegarlo all'accettazione della storiografia della disfatta, né per fargli considerare il fascismo una parentesi nella storia europea.
Lo studioso ha piuttosto contemplato la decadenza con lo spirito militante della rinascita, con lattitudine di chi sa che oltre il buio del presente vi sono orizzonti che vanno scorti, costi quel che costi. Lorizzonte della rinascita europea per Romualdi non poteva che essere la ripresa di un mito, di una grande politica quale espressione di una volontà di potenza.
Ecco perché lo schema di aurore e tramonti, caratterizzante la storia europea, e del quale Romualdi aveva piena coscienza, non ha mai determinato in lui laccettazione del nichilismo come condizione ineluttabile delluomo europeo. Nietzscheanamente fedele alla visione ciclica della storia, Romualdi ha sempre creduto negli eventi storici rigeneratori della coscienza e della vita dei popoli. La stessa considerazione dellavvento dei movimenti fascisti è il sintomo più evidente dellapplicazione di un metodo nietzscheano allanalisi dei grandi avvenimenti. E così pure, derivata da Nietzsche, in Romualdi è la concezione di una grande politica a cui frequentemente, agli inzi degli anni Settanta, richiamò la destra italiana. Dagli scritti di Romualdi ed in maniera particolare da quelli che qui di seguito riproponiamo emerge in maniera evidente che la sua milizia culturale e civile si è interamente proiettata nel dare pratica attuazione ad un progetto ideale ed esistenziale: la formulazione non di una teoria, di una dottrina, di una ideologia, bensì di una visione del mondo e della vita.
I Leitbilder, le immagini conduttrici che Romualdi ha inseguito nel suo itinerario intellettuale sono state tutte parte di una Weltanschauung da lanciare non soltanto come sfida al nostro tempo, ma anche quale proposta attiva e concreta di rinascita spirituale. La visione del mondo è lo spartiacque ultimo e necessario di fronte alla babele, linguistica e concettuale che domina la nostra epoca. Non si tratta con questo di evitare la comprensione delle lacerazioni esistenti in altre appartenenze, di aprirsi al mondo, di giocare su medesimi tavoli partite culturali e politiche. Riaffermare la validità e la persistenza della visione del mondo quale discrimine di differenti identità è piuttosto un modo per riconoscersi, per sapere dove si vuole andare e con chi costruire. Visione del mondo può e deve essere sinonimo di aggregazione. Al contrario tutto sarà più difficile; la prospettiva nichilistica è sotto i nostri occhi.
Cosa sono mai la nuova cultura e la grande politica se non lattuazione di una visione del mondo che contiene in sé pur nella mutabilità delle condizioni operative le chiavi di una progettualità culturale e civile? A cosa si riduce laffanno nella precisazione di nuove essenze della politica se manca lo scenario ultimo nel quale poterle far vivere? Il démone dellintellettualismo che da due secoli contamina lOccidente sembra aver attecchito anche là dove nessuno avrebbe immaginato: è una vittoria della civilizzazione borghese, scaturita dal razionalismo illuministico, che ha sostituito la dittatura dei philosophes alla tensione spirituale con tutto quello che questa parola significa. Una volta il pensiero era Dio, poi divenne uomo, ora si è fatto plebe" , scriveva Nietzsche.
La metafora nietzscheana rende efficacemente il clima ed il contesto odierno. Un mondo di assenze è intorno a noi. Ma è difficile, impossibile, abituarsi a convivere con il nulla. Soprattutto per quanti, come ritiene Adriano Romualdi, alla perennità dei valori della civiltà europea non cesseranno di credere.
Lopera romualdiana, sia pure incompiuta, è tutta intrisa delle tematiche accennate. In maniera quanto mai efficace lo sono i due scritti che ripubblichiamo: La Destra e la crisi del nazionalismo e Idee per una cultura di destra. Il primo ha visto la luce nel 1973, pochi mesi prima della scomparsa dellautore. Il secondo si compone di due saggi, uno pubblicato nel 1965 come documento del Fuan che ebbe una prima diffusione ciclostilata. Successivamente riapparve su Pagine libere (settembre 1966) e sull’“Italiano (luglio-agosto 1970). Laltro, scritto nel 1973, nellintento di Romualdi voleva essere un'analisi degli autori e degli orientamenti della cosiddetta nuova cultura di destra, per scorgere in essa quanto vi fosse di effettivamente valido e quanto invece rispondesse a mere esigenze di réclame (il caso-Plebe). (...)
Entrambi i saggi chiariscono in una certa misura quali possono e devono essere gli elementi supportanti una nuova cultura ed una grande politica. Essi vanno letti in prospettiva, naturalmente. E soprattutto tenendo conto che la destra italiana, nelle sue componenti  più colte e dinamiche ha  abbandonato il bagaglio nostalgico-ritualistico, il vuoto e viscerale (oltre che sterile ed alibistico) anticomunismo, la discutibile forma mentis vittimistica riscoprendo seriamente le proprie radici, superando le tentazioni di chiusura e di diffidenza, aprendosi ad una nuova concezione dellEuropa, dei blocchi e del Terzo Mondo. Marco Revelli, studioso della cosiddetta Destra radicale, osservò una trentina d'anni fa, quando la destra era molto diversa da quella attuale e soprattutto "visibile", non senza ragione: Allora (al tempo della contestazione, n.d.a.), alla domanda sul perché’ la massa in rivolta degli studenti, la spontanea effervescenza sociale si fosse espressa così massicciamente e radicalmente a sinistra, Adriano Romualdi aveva risposto: Perché dallaltra parte non esisteva più nulla; ora, questa destra sembra intravedere la possibilità di ripresa di un contatto positivo con strati ancora indifferenziati e ideologicamente vergini di società, con nuove identità generazionali (quella che potremmo definire la generazione post-rivoluzionaria) ed intende giungere allappuntamento ideologicamente attrezzata (La cultura della destra radicale, Angeli, 1985, p. 34).
Anche il riconoscimento di un osservatore avversario testimonia che molte cose erano cambiate nellambito della destra intellettuale nel decennio post-contestazione. Quegli elementi culturali e politici indicati da Romualdi come sostanzianti una destra possibile (al riguardo sarebbe bene rileggere i molti articoli dedicati da lui alla politica del Msi apparsi fra il 1970 ed il 1972 sull’“Italiano) oggi non appaiono più come eresie; c’è stata una maturazione ed una consapevolezza che hanno portato da un lato allapprofondimento teorico, dallaltro ad una apertura al mondo. Concetti che agli inizi  degli anni Settanta, quando Romualdi era ancora vivo,  venivano aprioristicamente condannati,  non soltanto sono stati poi accettati dalle aree politico-culturali sideralmente lontane dalla destra, ma dibattuti, studiati, affrontati senza prevenzioni manichee. Quello che continua a mancare è una strategia culturale omogenea.
Nel 1986, premettendo a questi saggi romualdiani considerazioni che in parte ho qui ripreso, sottolineavo come molti distinguo si frapponevano nellambito della destra impedendo laffermazione della nuova cultura come naturale supporto ad una auspicabile grande politica. E oggi? Desolatamente concludo che non esistendo più la destra, come l'abbiamo conosciuta nel passato recente, paradossalmente i richiami di Adriano Romualdi, liberi di rivolgersi a chiunque e di posarsi dove trovano opportunità di considerazione, rivestono unimportanza indiscutibile in un tempo come il nostro caratterizzato da lacerazioni terribili ed ancor più tremendi abbandoni (contrabbandati per effervescenze vitali) nel più disperato nichilismo. La riconquista dei valori può essere il solo progetto unificante che sta davanti a noi.