lunedì 25 marzo 2013

Che c'è in fondo a destra? Il libro di Polito è la storia di un'eclisse





Annalisa Terranova

Bisogna leggere il libro del giornalista Antonio Polito In fondo a destra. Cent’anni di fallimenti politici (Rizzoli) per capire quali e quanti ostacoli ci sono sul cammino della destra italiana e quanti errori alle sue spalle. Un pamphlet lucido, a volte anche un po’ ripetitivo, che ha un grande difetto (voluto): non prende proprio in considerazione la destra di derivazione missina, cioè tutto quel mondo che dal 1945 in poi in quello spazio si è trovato a militare, un mondo che poi ha ingrossato le file di An e che infine si è trovato, assai spaesato, in quelle berlusconiane. Quest’area, per l'autore (editorialista del Corriere e già direttore de Il Riformista) , è di derivazione fascista, nostalgica e non è dunque utile alla costruzione di una destra liberale e conservatrice, una di quelle destre normali che ci sono in altri paesi europei. Polito non degna poi di considerazione il tentativo di Fini di dare vita a una destra diversa da quella berlusconiana. Non riconosce a questa operazione alcuna dignità, non ne parla, e considera la vicenda alla stregua di una lite interna al Pdl che ha condotto all’uscita di scena dello stesso Fini.
Ma, detto questo (che è poi il solo, anche se non piccolo) limite del libro, le pagine rappresentano una riflessione ineludibile per capire come mai destra e berlusconismo siano un mix che produce una politica anomala, come mai ciò che Berlusconi ha fatto (e ciò che non ha voluto fare) indebolisca alla radice il progetto stesso di una destra normale. E si badi che dalla prosa di Polito traspare per Berlusconi una certa ammirazione. Dunque siamo dinanzi a un libro che non demonizza il leader del Pdl, anzi lo studia come fenomeno imprescindibile della politica italiana al di là e oltre gli infantilismi di chi vorrebbe liquidarlo per via giudiziaria.
E’ fisiologico che nelle democrazie si alternino destra e sinistra (lo stesso autore confessa di aver voluto almeno una volta votare a destra, pur avendo dato il primo voto al Pci nel 1975). Perché però in Italia il bipolarismo non funziona? Andando indietro nel tempo, all’Italia post-unitaria, si rintraccia la tendenza a costruire un’area di legittimità che coincide con le classi dirigenti liberal-costituzionali e taglia fuori le estreme. Dopo la “catastrofe bellica” escono indeboliti i capisaldi della destra (Polito non considera, giustamente, il fascismo un fenomeno di destra) a cominciare dal nazionalismo e dall’idea di Patria. La Dc fa da punto di riferimento dell’area liberale e da anomalo polo di “destra” rispetto al Pci. I fascisti sono lasciati ai margini, privi di legittimazione nonostante proprio in quel mondo (anche se Polito non lo dice) per tutto il dopoguerra si coltivano temi e spunti culturali imprescindibili per qualunque destra e che poi saranno spazzati via dal berlusconismo in versione bling bling (dal rumore del tintinnare di gioielli, emblema di una destra cafona e arrogante che non legge libri ma ostenta ricchezza). Invece un capitolo è dedicato (ahinoi!) alla destra occulta, quella eversiva e segreta disposta anche all’uso della violenza per fermare il pericolo comunista. Secondo Polito queste frange sarebbero state alimentate dall’emarginazione del Msi e dall’inesistenza di una vera destra democratica e conservatrice: la nostra tesi è invece che proprio il Msi fece da tappo a queste pulsioni eversive senza riuscire però a mantenere sempre distanze nette con personaggi ambigui e manifestamente manovrati dai Servizi.


Ma arriviamo al 1994: può esistere una destra che non abbia senso dello Stato e delle istituzioni? No, secondo Polito e secondo tutti i politologi. Ebbene quella berlusconiana è invece proprio una destra che non ha alcun senso delle istituzioni (lo prova il fatto che Berlusconi non ci pensa proprio a liberarsi del conflitto di interessi) e che tradisce anche le radici nazionaliste del pensiero di destra agganciando l’elettorato separatista del Nord. Secondo Polito l’adesione all’antifascismo, in questa chiave, va letta come recupero del racconto fondante della Repubblica, passo imprescindibile per la legittimazione: un passo che Fini compie prima di Berlusconi il quale attende il 2009 per pronunciare a Onna queste parole: “La Resistenza è uno dei valori fondanti della nostra nazione, un ritorno alla tradizione di libertà. Il nostro Paese ha un debito inestinguibile verso quei tanti giovani che sacrificarono la vita per riscattare l’onore della Patria”. Il tema della Resistenza e dell’antifascismo meritava un approfondimento maggiore, perché è vero che si tratta del racconto fondativo di questa Repubblica ma bisognerebbe indagare quanto questo racconto sia sentito e vissuto davvero dal paese reale e quanto vi sia di ideologico, di forzato e di astratto in quella narrazione.  E’ semmai la Lega, con la messa in discussione dello Stato unitario e del processo di nation-building che ne è alla base, a mettersi fuori dal recinto ideale che deve comprendere una destra e una sinistra normali. Anche sul populismo il discorso è complesso: il berlusconismo ritiene che il potere venga legittimato dall’elettorato ma allo stesso tempo nella pratica di potere il centrodestra ha ceduto a lobby e gruppi di interesse ingessando la struttura sociale e vanificando le ragioni che pure stanno alla base di ogni sano populismo: il rispetto dei meno abbienti e la speranza anche per loro di riscatto sociale. Anche il rapporto con i cattolici è stato fallimentare per il centrodestra, impostato sull’idea che uno scambio di favori potesse sostituire la mancata adesione ai valori da parte dei capi e dei quadri intermedi. Uno dei connotati della destra avrebbe dovuto essere il presidenzialismo (peraltro proposto per decenni e in solitudine solo dal Msi). Ebbene qua Polito fa benissimo a chiarire che fu proprio Berlusconi, nel 2007, a far fallire la Bicamerale presieduta da D’Alema che era giunta a prevedere l’elezione diretta del capo dello Stato con legge elettorale a doppio turno. A Berlusconi interessava di più limitare i poteri della magistratura e tutto andò a gambe all’aria.


Sul modello partito del Pdl si è molto scritto. È un partito carismatico, il cui leader si fida solo di coloro che ha a libro paga. Non solo non è possibile un dissenso organizzato ma neanche una qualche forma di partecipazione (si veda com’è finita la storia delle primarie). Perché? perché nel partito-contorno gli elettori subiscono le decisioni del vertice e le assecondano attraverso la “mobilitazione”. Non è riconosciuta loro l’autonomia necessaria a mettere in moto un processo di attiva partecipazione.
Ma è nel capitolo sulla “catastrofe culturale” della destra che possiamo leggere alcune verità inconfutabili: un’opera di rilancio culturale – dice Polito – non è stata mai neanche tentata pensando “di poter dominare la scena politica per decenni con la pura gestione del potere, senza combattere la battaglia delle idee”. Emblematico l’episodio di Antonio Martino che propone a Berlusconi una collana per Mondadori di saggi del pensiero politico liberale e si sente rispondere dal capo che lui avrebbe fatto con cinque minuti in tv più di un’intera collana di libri. Il vuoto culturale a destra  dovrebbe essere riempito dal fiorire di think tank che nasconde però in verità solo la nascita di correnti mascherate. Il punto più basso si tocca negli ultimi anni: all’inizio c’erano i professori come Vertone, Melograni e Pera. Alla fine c’è Alfonso Signorini con “Chi”. Scrive Polito: “Il capo della destra italiana non vuole valori, vuole voti. Con la cultura non investe, commercia”. Giuliano Ferrara si ingegna a consigliare il “principe” con analisi a volte più o meno lucide e più o meno fondate ma è fatica sprecata.  Lui si diverte di più a fare il satrapo e non vuole consiglieri ma più che altro cortigiani. Così cala il sipario sull’eclisse di una destra che non ha neanche mai provato a essere tale: un po’ per colpa dei difetti di Silvio Berlusconi (bravissimo a prender voti ma meno bravo nell’incarnare progetti politici degni di questo nome) un po’ perché la destra marginale che già esisteva, tolta dal ghetto dagli elettori, ha inseguito quello che ha individuato come nuovo  padrone colta da un’ansia senza fine di legittimazione e non ha mai voluto essere destra normale (quando Fini ci ha provato era così tardi che nemmeno i suoi ex fedelissimi lo hanno voluto seguire). La destra del ghetto aa oscillato tra l’essere destra nostalgica (per non perdere la risorsa di voti che venivano dal Msi) e destra ingorda (pretendendo un posto alla tavola della grande abbuffata). Il risultato è che, quando uno come Polito scrive un libro sulla destra, gli eredi del Msi, per la figura mediocre che hanno incarnato, non hanno neanche un capitolo riservato. Cancellati. Ininfluenti. E questo vorrà pur dire qualcosa. 

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