martedì 30 aprile 2013

Quando Giorgio Chinaglia (da supereroe) è stato più che un “grido di battaglia”



Luciano Lanna


I supereroi non muoiono e, quando ci si identifica con loro, possono anche aiutare a guarire. Lo sa bene, tanto per dire, Donald, quindici anni, ribelle per definizione e vocazione, piantagrane per scelta – il protagonista del romanzo di Antony McCarten Death of a Superhero (“Morte di un supereroe”) pubblicato in Italia da Salani – e che in realtà è un ragazzo malato di leucemia allo stato avanzato. Donald infatti passa il suo tempo seguendo, identificandosi, e disegnando le storie del suo supereroe preferito. Per il ragazzo, come per il suo supereroe, ogni giornata presenta risvolti imprevisti e affrontarli insieme riesce più facile e accettabile. Una storia intrigante da cui è stato anche tratto il film omonimo diretto dall’irlandese Ian Fitz Gibbon. Del resto, psicologi come James Hillman o studiosi come Joseph Campbell, hanno spiegato in alcuni loro libri l’efficacia terapeutica dell’identificazione del malato con la figura di un eroe dell’immaginario popolare, reale o di fantasia…
Il recente romanzo italiano Il talento della malattia. Giorgio Chinaglia e la storia di un campione (Avagliano editore, pp. 208, euro 15,00), fornisce una variante sportiva e realistica di questo preciso processo psicologico e mitopoietico. L’autore, Alessandro Moscé, oggi giornalista e studioso di letteratura, racconta la vicenda che lo coinvolse personalmente quando lui era bambino e viveva ad Ancona. “Ogni bambino – scrive Moscè – ha il suo eroe. Si tratta, di solito di un personaggio dei fumetti o d’avventura. Capitan America, Batman, Superman, Goldrake, Mazinga Z e l’Uomo Ragno sono stati i più ricorrenti per la generazione nata tra gli anni Sessanta e Settanta. Ma quando un eroe esiste in carne e ossa, allora diventa facilmente un mito, specie per chi racconta lo sport e coglie le gesta dell’uomo…”.


Alessandro era un bambino solitario: “Mio padre lavorava a Roma, e prima di ammalarmi sono stato un bambino solo. E la solitudine di chi aspettava nei corridoi della scuola con le mattonelle bianche e nere il ritorno della madre, la condividevo, dialogandoci sottovoce con Giorgio Chinaglia. Perché non leggevo i giornalini, ma i quotidiani. Da Gianni Brera e Mimmo De Grandis ho appreso che lo sport si può raccontare…”. Quel ragazzino di sei-sette anni s’ innamora di Long John: “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia, urlava la curva della Lazio. Ingombrante, viziato, sentimentale, fascistoide, lo hanno descritto. Lui, Giorgio Chinaglia, che ha vinto lo scudetto del 12 maggio 1974 strappandolo dal petto della Juventus del plenipotenziario Gianni Agnelli”. Un giorno il piccolo Alessandro confessa a un suo conoscente di tifare Lazio. “Male, ragazzo, avrai – gli fa quello – molte delusioni. Tifa semmai per la Juventus, non per i poveracci. Che ci fai con la Lazio?”. E la replica di Alessandro dice tutto della sua sensibilità: “Troppo facile vincere sempre, sì sono in controtendenza..”.



Poi, una mattina di giugno del 1983 – aveva quattordici anni – Alessandro viene ricoverato d’urgenza e si scopre che ha una gravissima malattia, poche sono le speranze. Ma lui non molla, chiede Il Corriere dello Sport, legge continuamente di Chinaglia. E il bambino vincerà la sua battaglia personale, il dolore diverrà l’occasione per riaffermare la vita. E quando uno come Alessandro – trent’anni dopo – è ormai un uomo e anche un giornalista non può esimersi dal raccontarsi. Soprattutto quando il suo caso è quasi unico, è uno dei pochissimi guariti dal suo male rarissimo, tanto da diventare un caso clinico studiato persino negli Stati Uniti. Nel libro Moscè descrive tutto questo davvero bene, ambientando e rappresentando nel suo romanzo gli archetipi profondi e più autentici dell’esistenza umana: la nascita, la morte, il senso di finitudine, la perdita, il dolore e la sofferenza, la fede. Ma anche il ruolo del mito e dell’eroe. Prima della sua guarigione Alessandro scrisse infatti  a Chinaglia.  “Se Chinaglia ha mandato a quel paese l’allenatore della nazionale italiana – scrive oggi Moscè – io ho mandato a quel paese la morte, ho pensato a quattordici anni. Gli ho scritto una lettera che non ha mai letto. Una lettera accorata. Una lettera disperata. Una lettera commovente...”. Comunque, tre anni dopo, Giorgione sta nella Marche e Alessandro va allo stadio col padre e lo incontra: “Lui firma un autografo. Mi fa una carezza e torna al centro del campo con il suo passo dinoccolato. ‘Vinci per me’ gli urlo. Si gira e il dito è puntato in alto, come quella volta sotto la curva della Roma dopo aver segnato. La gente applaude e si alza un coro, il mio stesso sentimento: Giorgio Chinaglia / è il grido di battaglia”.


lunedì 29 aprile 2013

La folla è "brutta"? Ma i benpensanti a volte sono anche peggio...





Annalisa Terranova

Tra le conseguenze delle larghe intese ce n’è una che non va sottovalutata: la fine del mito della “base” a sinistra e la marginalizzazione della “folla” o della “piazza” come soggetto politico. Ora, se in un paese le cose vanno molto male, il fatto che i principali partiti si mettano d’accordo non è necessariamente una sciagura. Si tratta anzi di una soluzione ragionevole anche se si pagheranno alcuni prezzi politici: la sinistra dovrà rinunciare ad alcuni cavalli di battaglia dell’antiberlusconismo (conflitto di interessi e norme severe contro la corruzione) e la destra dovrà frenare su tutte quelle riforme che storicamente infastidiscono i progressisti e i sindacati (la Costituzione non si tocca e le norme sul lavoro nemmeno). La fase che si è aperta però sul piano puramente politico comporterà anche ciò che si diceva all’inizio: basta con gli indignati, con quelli che gridano sempre no, sana diffidenza contro la folla, recupero di credibilità delle classi dirigenti a scapito di quella che un tempo si chiamava, appunto, la “base”. I capi, anche se non legittimati dalle primarie, ricominceranno a decidere. I partiti, anche se  sui social network soffia il venticello della protesta, si riprenderanno il loro spazio, la rottamazione diventerà un concetto cui dà risposte l’anagrafe e non una vera selezione degli eletti. La “casta” respinge così ogni delegittimazione e non perché intenda perpetuare i propri privilegi ma perché torna ad occupare lo spazio della politica ricacciando nell’angolo del tumulto inconcludente lo strillonaggio popolare che tanta fortuna ha portato finora al Movimento dei grillini.
Alcuni articoli degni di riflessione negli ultimi giorni hanno mostrato che la rotta che si vorrebbe seguire è proprio questa. Uno lo ha scritto Ritanna Armeni, giornalista vicina a personaggi come Vendola e Bertinotti, e il titolo già dice tutto: “Quella base brutta gente”. Non le è andato giù quello che lei chiama “assalto” a Dario Franceschini. Oggi – scrive Armeni – la base “appare grillinizzata, come qualche mese fa appariva dipietrizzata, vogliosa di galera, sconvolta, imbarbarita, livorosa”. Armeni denuncia un cambiamento antropologico della base della sinistra che non si sente di assecondare. Opporre Rodotà a Napolitano, afferma, dimostra scarsa preparazione. Una tigna ingiustificabile e ingiustificata. L’altro articolo è di Pietrangelo Buttafuoco ed è ancora più impietoso contro la folla, che “è femmina e cerca il bastone”. Non si va lontano, scrive Buttafuoco, con l’arroganza della plebe. E pare qui di intravedere quella sfiducia abissale nelle masse che famosi pensatori di destra, da Evola a Spengler, hanno predicato mettendo in guardia contro l’elemento demoniaco e irrazionale delle moltitudini in movimento.
Ora tutti sappiamo però che i partiti senza una “base” sono solo apparati e agglomerati di interesse. E quando la base contesta i vertici non necessariamente è un brutto segnale: di cos’altro vivono i partiti se non della dialettica tra i militanti e i capi? La base è quella cui si chiede l’adesione fideistica in campagna elettorale e che poi si ripudia quando viene il momento delle decisioni importanti. Allora non ci si lamenti del disimpegno, del voto di scambio, del prosperare delle clientele a svantaggio dei militanti, della supremazia del carrierismo, dei riciclati e degli sgomitoni che non hanno alcuna storia alle spalle. La base sarà anche brutta, ma serve o dovrebbe servire come antidoto alle degenerazioni che tutti i partiti stanno vivendo.
E veniamo alla folla. La plebaglia urlante è una azzeccata metafora ma poco c’entra con le manifestazioni di protesta, cui prendono parte ormai persone alfabetizzate, informate, che leggono e si appassionano di politica. Non c’è il demos che assalta la Bastiglia. Non ci sono le orde di sbandati carichi di odio che vogliono mettere la testa di Napolitano sulla picca e issarla come trofeo davanti al Quirinale. Non è il caso di dare l’impressione che la democrazia sia riconducibile alla ferrea e crudele legge dei numeri. La maggioranza ha ragione e la minoranza ha torto. Guai se fosse così. E’ più civile, più consolatoria, più moderna la teoria di Tocqueville secondo cui la democrazia è riuscire ad abbassare il proprio punto di vista alla pari con quello degli altri. La democrazia è anche condivisione, non si fa solo con l’addizione e non si legittima solo con la quantità. E poi, un paese dove nessuno più sente il bisogno di manifestare, che paese sarebbe? Non si può chiedere a tutti, proprio a tutti, di accontentarsi  di una politica dove la partecipazione si riduce a mettere una croce su un simbolo di partito. Facciamo in modo che al bipolarismo muscolare che è stata la cifra italiana per tanto tempo non si sostituisca un’altra assurda dicotomia, quella tra la folla malpensante e i benpensanti rassegnati. Tra la plebe urlante e la nostalgia di Bava Beccaris dovrà pur esserci una via di mezzo. 

Luca Goldoni: divenni giornalista dopo le ripetizioni di italiano alle elementari…


Alberto Pezzini


Lo raggiungo al telefono. Ha la voce gentile. Sceglie le parole con cura, quasi con un’ombra di ricercatezza. Frutto del lavoro svolto per una vita e che continua a fare. E conseguenza anche di quello studio appassionato sui sinonimi e su quanti modi esistano nella lingua italiana per dire la stessa cosa. Per farmi un esempio mi dice che il termine bicchiere possiede molteplici vocaboli con cui indicarlo, come coppa o calice, ma soltanto uno calza ad una situazione ben precisa. Lui è Luca Goldoni, classe 1928, uno dei giornalisti più brillanti che siano usciti dalla Gazzetta di Parma per approdare al Corriere della Sera e fare fortuna con migliaia di copie vendute dei suoi libri. Soltanto con È gradito l’abito scuro, la prima raccolta dei suoi articoli un poco aggiustati per l’uso, fece un botto da 300mila copie. Quei libri li volle Mondadori perché intuirono che probabilmente una penna come quella di Goldoni avrebbe scalato le classifiche. Ha scritto di tutto, dall’Africa al mare, dagli animali ai luoghi comuni del tipo Non ho parole o Cioè, quando tanti parlavano come i personaggi di Verdone, con i pantaloni a zampa di elefante: ha saputo chiacchierare con migliaia di italiani in modo leggero, facendosi leggere mentre eri in treno oppure aspettavi dal dentista il tuo turno.


Quando gli chiedo come è iniziato per lui il virus del giornalismo, mi risponde che si è trattato di una specie di civetteria: “Pensa che alle elementari – mi risponde – scrivevo malissimo. Avevo scritto un tema sulle impressioni di una giornata in campagna. Ero andato fuori traccia del tutto. L’avevo interpretata come se avessi dovuto raccontare una specie di forte impressione su di me: ne venne fuori un racconto alla grand guignol, con un incidente e un tizio col cervello che usciva a fiotti dalla scatola cranica. Una tragedia. Presi quattro.  Mia madre mi mandò allora a prendere ripetizioni: diventai un asso nell’analisi logica. Cominciai da lì a studiare le parole italiane in tutte le loro sfumature. Il giornalismo venne di seguito. In classe, in prima ginnasio a Parma, avevo come compagno di classe un certo Baldassarre Molossi, figlio del direttore della Gazzetta di Parma e nipote del proprietario dello stesso giornale. Fu lui a costringermi a scrivere per il giornalino della nostra classe, L’eco della B, la nostra sezione. Fu il mio personale laboratorio di scrittura…”.
L’arrivo al giornalismo vero e proprio coincide però con il caso, anzi con una alluvione. Il Po aveva tracimato nel novembre del 1951 allagando tutti i paesi della Bassa. Luca Goldoni – che comincia a lavorare per il Resto del Carlino redazione di Parma – viene pagato con la tessera per entrare gratis al cinema. Per fare invece il distributore dei giornali in quei paesi lo pagano 5mila  lire. Compra una Lambretta a rate, e tutte le mattine, per un anno tondo che piova o ci sia il sole, parte all’alba con i giornali sotto la maglia e gli occhiali da aviatore di biplano. Ogni mattina si intrufola in quei bar di paese dove la nebbia sta fuori e dentro si gioca a scopa bevendo grappini. Conosce i paesi come le sue tasche e le persone pure.Quando l’alluvione inghiotte la Bassa, si scapicolla dove era di casa, proprio là l’acqua era dilagata come un’armata bastarda.
“Scrivo un pezzo – racconta  direttamente dall’epicentro dell’alluvione In prima persona, palpitante. Va a finire in prima pagina sul Resto del Carlino, un pezzo di vita documentato all’ultimo respiro. Mi chiama Vittorio Zincone, allora direttore del Carlino, e mi dice che da quel momento sarei diventato giornalista, da giornalaio che ero…”.
Ma il racconto di Goldoni prosegue: “L’altro uomo che mi aiutò e fece di me chi sono diventato fu Giovanni Spadolini. Era attratto da me perché ero campione italiano di go-kart dei giornalisti e me la cavavo a scrivere. Lui sapeva tutto di Chiesa cattolica e di scismi. Mi chiamò al Corriere della Sera dove, credetemi, non ci volevo andare. Gli dissi che i miei articoli andavano bene per gente della Bassa. Mi disse, non dire sciocchezze. Vieni a Milano che farai successo…”. Ebbe ragione.




sabato 27 aprile 2013

Se Dante trionfa in tv ma anche alle fraschette dei Castelli romani


Giuseppe Mammetti

Roberto Benigni è un vero opinion leader. Uno di quelli bravi, capaci di pilotare l’attenzione della massa anche su argomenti difficili o di nicchia, tradizionalmente lontani dal raggio di interessi del grande pubblico. Tra i suoi lavori ricorrenti, specie negli ultimi anni, uno ha assunto un’importanza particolare. È divenuto un suo cavallo di battaglia, ma soprattutto ha finito col diventare un must dell’intrattenimento culturale, rioccupando un posto che gli spettava di diritto per storia e tradizione: le Lecturae Dantis. Da quando Benigni ha iniziato il suo Tutto Dante, lo spettatore medio, quello prettamente televisivo, affiliato al prime time e alle atmosfere da stadio, ha riscoperto Dante, anche nei teatri e nelle biblioteche. E non è un’esagerazione.Se oggi vi capita di frequentare una delle tante letture, e non è difficile, perché Roma o altre città offrono almeno un paio di appuntamenti quotidiani, scoprirete un pubblico di appassionati praticamente inedito, inimmaginabile fino a qualche anno fa. Un pubblico composto da dopolavoristi, telespettatori affezionati, fan di Mara Venier o seguaci di Renzo Arbore, che ascoltano la “lectio” accanto ai filologi di professione e ai sottili conoscitori. Sempre più spesso c’è anche un pubblico “didattico”, fatto da studenti, che alla “lezioncina” a scuola o al seminario dell’università preferiscono l’immersione diretta nelle atmosfere dantesche. E non mancano mai, di solito seduti nelle ultime file, i tiepidi, quelli che hanno la faccia di chi è capitato per caso o per sbaglio, ma che tutto sommato sembrano gradire. E il più delle volte, inaspettatamente, tornano.Per effetto di un’intuizione che è divenuta una moda, ma vero, funziona. Produce cultura, ma anche spettacolo. Sempre o quasi sempre finisce col creare sottili alchimie, complicità ed amicizie, soprattutto tra i novizi. Questa rinnovato interesse, per non dire rinascita, sorto intorno al protagonista più importante della nostra cultura nazionale, lo dobbiamo ad una particolare categoria di studiosi: i dantisti. Quelli che per il principe dello stilnovo nutrono una vera vocazione. E che lo sanno far rivivere in ogni contesto, davanti alla platea gremita di un teatro o nella sala semivuota di una parrocchia, senza spettacolarismi o forzature. Raccontando il Dante della vita quotidiana e quello delle opere maggiori, semplicemente per ciò che sono stati, svelandone l’essenza, ma evitando il ricorso alle invenzioni da fantathriller. Nonostante le apparenze, quelli davvero bravi sono pochissimi. Io ne conosco uno. Forse il più bravo di tutti: Aldo Onorati. E vi racconto chi è. Onorati è un simpatico signore sulla settantina, ma ne dimostra almeno una decina in meno, che ha il pregio o il limite d’essere un signore della nostra letteratura.


Le sue poesie sono tradotte in venti lingue e i suoi romanzi, quasi tutti long seller, si ripubblicano a distanza di decenni, spesso con nuovi editori. Su Dante può raccontarti qualsiasi cosa. Lo ha studiato a fondo e gli ha dedicato diverse di pubblicazioni, anche di saggistica letteraria. Ma se gli chiedi dov’è che ha acquisito tutto questo, quando se ne è innamorato, lui ti risponde sinceramente: “all’osteria di mio padre, ad Albano, sui Castelli Romani”. E non scherza. In una delle tante “fraschette” della campagna laziale, non nelle aule del liceo o all’università, Aldo ha coltivato questo amore. Ascoltando i contadini o i pastori dell’agro, spesso in transito, quasi totalmente analfabeti, che ne recitavano l’opera a memoria e che si sfidavano ogni sera a colpi terzine, seduti ad un tavolo di osteria con la pancia semivuota ed il bicchiere pieno. Persone semplici, che neppure immaginavano cosa fosse un’esegesi. Che non sapevano leggere, ma capivano l’importanza della vera poesia. E cedevano al fascino di un’opera d’arte nel più genuino dei modi, appropriandosene. Impossessandosi di qualcosa che la storia aveva reso eterno, nell’unica maniera possibile, imprimendola nella memoria. Con uno spirito contemplativo, ma anche furbo. Tipico di chi va al Louvre e pensa di poter rubare la GiocondaA Onorati, in decenni di onorato servizio “dantesco”, si devono decine di intuizioni. L’ultima, questa volta in veste di studioso-talent scout e non di autore, è la promozione di un saggio di Louis Marcello La Favia, di cui Aldo ha curato la postfazione. Il libro si chiama Chanzona ddante (Angelo Longo Editore) e racconta con rigore filologico il ritrovamento di un poema ascrivibile a Dante, fatta da Luis Marcello La Favia, docente a Washington DC. La Favia, quasi istantaneamente, ha individuato in un poema semisconosciuto del Trecento, erroneamente attribuito ad un minore, Bindo Bonichi, i caratteri inequivocabili della creazione “dantesca”, e nella dimostrazione del teorema ha speso i suoi ultimi anni. 


La storia dell’intuizione di La Favia, comune a molte grandi scoperte della storia della letteratura. è un concentrato di dedizione, fortuna e talento, che nasce, come in decine di circostanze simili, dal caso. E parte da lontano. Per l’esattezza dal 1987. Quando in un manoscritto trecentesco della British Library di Londra, il “Codex Harley 3459”, espressamente dedicato al poeta fiorentino, lo studioso scopre un poema semi-sconosciuto, di origine incerta e di assoluta bellezza, incomprensibilmente mai menzionato prima di allora. Per lo studioso è un mistero, inizialmente irrisolvibile, che prende forma poco a poco, nel tempo. E si chiarisce solo dopo studi e ricerche rigorose, che portano ad un’affermazione sconvolgente: il poema, quasi senza possibilità di errore, è attribuibile a Dante.La tesi di La Favia, lo si scopre durante la lettura, poggia su solide basi storico-critiche, espresse con una sicurezza e una padronanza della materia, che fanno di questo piccolo trattato un capolavoro di filologia. Un testo molto rigoroso, ma accessibile anche ai lettori meno esperti, scritto abbastanza bene da risultare avvincente a chiunque si sia mai interessato a Dante. Ma non solo. A rendere affascinante questo libro, al di là dell’aspetto scientifico, concorre un altro fattore: un aneddoto, che suscita istantanea simpatia e aiuta a comprendere quanto acume e dedizione richieda il mestiere dello studioso, spesso, per la verità quasi sempre, sottostimato.Louis Marcello La Favia, causa la malattia e l’incedere dell’età, non concluse mai il suo lavoro, che s’interruppe del 2008, anno della morte. Per come lo vediamo oggi, il libro è nato dall’impegno del fratello minore, Giuseppe Angelo, che ha portato a termine l’opera raccogliendone l’eredità. Giuseppe Angelo non è uno studioso, ma ha creduto nell’impresa, anteponendola alle sue normali occupazioni. Divenendo a sua volta un dantista, un esperto del sommo poeta. Uno di quelli preparati, che regalano a chi li legge e a chi li ascolta il piacere della grande letteratura, nella sua dimensione più naturale. Che è quella dei racconti in pubblico. Dove un piacere personale diventa un interesse condiviso. E si trasforma, se la serata è quella giusta, in un’esperienza indimenticabile.

Green Hill, un anno dopo: in piazza per un nuovo modello di ricerca scientifica



Francesco Pullia

I vivisettori, o sperimentatori che dir si voglia, con la sponda politica dei vari Ignazio Marino e di qualche, per fortuna ex, parlamentare radicale rivendicano il diritto di sacrificare ignobilmente animali sull’altare della non-scienza. Sostengono, poverini, che l'iniziativa nonviolenta dei cinque attivisti animalisti che il 20 aprile scorso sono riusciti a liberare centinaia di ratti e conigli (“mantenuti – ma pensa un po’  con la massima cura") dallo stabulario della Facoltà di Farmacologia dell’Università degli Studi di Milano abbia procurato "un danno di centinaia di migliaia di euro" mandando in fumo “ricerche” (le chiamano così) "finanziate da enti pubblici ma anche da fondazioni onlus” (Telethon, AIRC, AISM, ANLAIDS, ecc.), "approvate dagli uffici competenti del ministero della Ricerca, condotte secondo tutte le norme nazionali e internazionali sul trattamento degli animali da esperimento" (leggasi cioè dettate, imposte, dalla potente lobby delle multinazionali chimiche e farmaceutiche e dai baroni universitari). Peccato che non dicano che il 92% dei farmaci che supera le prove sugli animali viene successivamente scartato quando i prodotti sono clinicamente testati sull’uomo (Food and Drug Administration, USA) e che in molti casi le ditte sono state costrette a ritirare dal commercio i loro farmaci in seguito alla segnalazione di episodi di grave tossicità se non addirittura di decessi (Van Meer PJ et al. “The ability of animal studies to detect serious post marketing adverse events is limited”). Sulla fallacia della sperimentazione animale e sulla maggiore affidabilità fornita dai nuovi metodi di ricerca è possibile leggere rapporti di organismi prestigiosi come l’Accademia delle scienze statunitense o saggi pubblicati da autorevoli riviste come Nature, Science, British Medical Journal, Scientific American. Per non parlare delle relazioni di scienziati come Thomas Hartung, o Claude Reiss, direttore di ricerca del CNRS di Parigi. Il rapporto della citata Accademia delle scienze statunitense, intitolato “Crolla il valore scientifico del topo come modello per alcune malattie letali nell’uomo” e riportato l’11 febbraio dal New York Times dimostra, ad esempio, chiaramente che il topo è un modello fuorviante per almeno tre tipi di patologie mortali: sepsi (infezione dell’intero organismo dovuta all'invasione di tessuti, fluidi o cavità corporee normalmente sterili da parte di microrganismi patogeni e principale causa di morte nelle unità di terapia intensiva), traumi e ustioni (ma esistono forti dubbi anche per le patologie che riguardano il sistema immunitario, inclusi cancro e disturbi cardiaci). Ciò aiuta a comprendere perché siano risultati inefficaci circa 150 farmaci testati (con enorme dispendio di denaro e di vite di animali) su topi. Già nel 2004 il British Medical Journal aveva pubblicato un articolo che spiegava come nel caso della sclerosi multipla le sperimentazioni sui topi avevano portato del tutto fuori strada. Quattro anni dopo, la prestigiosa rivista Nature (2008) ha ospitato un saggio di Jim Schnabel intitolato “Neuroscienze, modello standard: i quesiti sollevati dall’uso dei topi SLA hanno causato un vasto ripensamento sull’utilizzo del modello murino per le malattie neurodegenerative”. Le tante sperimentazioni fatte sui topi non sono state di alcuna utilità e persino la loro modifica genetica non ha ottenuto il risultato desiderato. La visione meccanicista che vede la possibilità di rendere la cavia “più somigliante all’uomo” con il trasferimento di qualche gene si basa, infatti, su una visione errata della genetica. Una migliore utilizzazione delle informazioni e dei dati che sconfessano la sperimentazione animale avrebbe giovato a risparmiare vite e investimenti di assoluta inutilità per i cittadini. Gli animali utilizzati come cavie sono tenuti perennemente in gabbia, in uno stato di continuo terrore. Sono manipolati geneticamente in modo da farli nascere con più o meno menomazioni, sottoposti a iniezioni o a inalazioni di sostanze chimiche, fatti ammalare dei mali peggiori. Soffrono in continuazione e infine vengono uccisi. Ogni anno 12 milioni di animali vengono utilizzati nei laboratori di ricerca di tutta Europa non solo per la farmaceutica o la chimica ma anche per la cosmetica e persino per l'industria bellica. Solo nel nostro paese nel triennio 2007-2009 (dati pubblicati sulla G.U. n.53 del 3 marzo 2010 ai sensi del decreto legislativo 116/92) sono stati 2.603.671 gli animali uccisi per “fini sperimentali”, un numero ancora troppo alto, considerato sia il quadro scientifico e legislativo europeo che prevede la promozione dei metodi alternativi alla sperimentazione animale sia la netta contrarietà dell’opinione pubblica alla vivisezione, ma anche, purtroppo, fortemente sottostimato visto che non rientrano nelle statistiche invertebrati, embrioni, feti e animali utilizzati già soppressi. Le regioni italiane con il maggior numero di procedure autorizzate in deroga sono state il Lazio, l’Emilia Romagna, la Toscana, la Lombardia e il Veneto. Soltanto in Emilia Romagna sono stati eseguiti 60 esperimenti. In Lombardia risultano 136 stabilimenti autorizzati. In Italia sono, in tutto, 609 i laboratori che portano avanti la ricerca basata sulla sperimentazione sugli animali. I più tartassati continuano ad essere topi (1648314) e ratti (682925), seguiti da uccelli (97248), altri roditori e conigli (73362) e pesci (59881), tutti largamente impiegati a causa del loro basso costo e perché facilmente maneggiabili.In aumento anche il ricorso alle scimmie (sia ceboidea che cercopothecoidea) nonostante le restrizioni poste dal decreto legislativo in vigore. Primati non umani, come i cani, sono, poi, utilizzati per esperimenti invasivi, che comportano alti e prolungati livelli di dolore, riguardanti cancro e malattie nervose e mentali. Eppure non c’è bisogno di essere luminari della scienza per sapere che ogni specie animale è unica per caratteristiche bio-chimiche, morfologia e fisiologia, patrimonio genetico, reazioni a virus, batteri, sostanze. Pertanto non può esistere una specie che possa essere considerata modello sperimentale per un'altra. Gli “animali da laboratorio” spesso frutto di selezioni e manipolazioni genetiche, differiscono perfino dai loro simili in libertà. E anche le malattie indotte a fini sperimentali sono diverse dalle patologie che si manifestano naturalmente. Affermare, inoltre, come in malafede si vorrebbe far credere, che ci sia differenza tra vivisezione e ricerca di base volta alla scoperta di terapie per malattie ancora incurabili e gravemente invalidanti che affliggono la nostra società è falso e ignobile. La realtà è la stessa ed è tragica sia per gli animali non umani che per gli umani. Per dire no a questa vergogna e affermare una nuovo modello di ricerca è importante partecipare domani, domenica 28, alla manifestazione nazionale indetta a Roma da Animal Amnesty e dal Coordinamento antispecista. L’appuntamento è alle 14 in piazza della Repubblica.


“Benché più volte si sia dimostrato scientificamente che il modello animale non sia predittivo per gli umani – ha affermato Candida Nastrucci, biologo molecolare e biochimico clinico formatasi alla University of Oxford e docente all’Università di Tor Vergata – viene ancora usato e finanziato, mentre per la ricerca sulle alternative sostitutive i fondi in Italia sono inconsistenti, né la legge ne predispone. Negli USA sono stati di recente stanziati due miliardi di dollari per il progetto ToxCast che ricerca modelli cellulari più predittivi e rapidi nella valutazione delle proprietà tossicologiche sull’uomo, visto che i modelli animali attualmente in uso si sono rivelati inefficaci. Da noi, invece, i metodi di ricerca avanzati per sostituire l’uso di animali non vengono nemmeno insegnati nei corsi di laurea.”Il prossimo 10 dicembre, intanto, saranno processati i tredici militanti animalisti che il 28 aprile dello scorso anno, al termine della manifestazione nazionale svoltasi a Montichiari (BS) contro la vivisezione e il lager Green Hill, riuscirono a fare breccia nelle recinzioni liberando una trentina di cani beagle. Caduta per tutti l'accusa di resistenza a pubblico ufficiale, i tredici restano, a vario titolo, imputati di reati che vanno dalla rapina, al furto, al danneggiamento. Qualche mese dopo il gesto di disobbedienza attuato dagli attivisti animalisti, precisamente nel luglio del 2012, grazie a quell’azione e alle denunce di associazioni animaliste come la Lav, scattarono ispezioni e indagini da parte della magistratura per maltrattamento ed uccisione di animali commesse in quel vero e proprio lager dei nostri giorni (cinque ettari di terreno e quattro capannoni) di proprietà della multinazionale Marshall.

venerdì 26 aprile 2013

“Il grande freddo”, quel film di trent’anni fa che fu subito una metafora

Marco Iacona

In parte ha ragione lui, Jeff Goldblum. Cioè Michael, il giornalista. Uno degli otto protagonisti del film Il grande freddo, pellicola culto uscita giusto trent’anni fa e il cui titolo divenne una metafora degli interi anni Ottanta. Tutto finisce col sesso, dice a un certo punto Michael, pratico fino al cinismo. Chiave di lettura originale, ma non molto dibattuta, di scuola freudiana e in linea con quanto si pensava nei bei dì passati. Cioè negli anni Sessanta, quando il sesso più o meno libero era una delle più alte forme di libertà. Di vera libertà. Questo film, bello non agli eccessi, è però un labirinto. Sette ex giovani di cultura sessantottina si rincontrano dopo un po’ di tempo – giusto lo spazio di una generazione – per ritrovarsi uguali ma profondamente diversi. Alex protagonista occulto si è tagliato le vene, nessuno sa perché, neppure la sua amante Sarah (Glenn Close) lo sa, neppure la giovane compagna Chloe, vuota in apparenza, sa dare risposte precise. Cominciamo da qui: la morte di Alex è la sconfitta di quegli ideali nei quali credevano i giovani. Sconfitta senza ragioni apparenti, orfana di quei nemici sui quali addossare ogni responsabilità: Il grande freddo non è un film politico e come tutti i lavori che bypassano i temi politici alla fine lo diventa più degli altri.


Eppure quando gli ex compagni d’università si ritrovano, a nessuno viene voglia di metter su un processo: non c’è spazio né tempo né voglia. Il privato si è preso le sue rivincite: anche le piccole ferite sanguinano, eccome. Harold (Kevin Kline) e Sarah formano una coppia quasi perfetta. Ma lei ha i sensi di colpa per averlo tradito e lo spinge tra le braccia di Karen, avvocato ma soprattutto donna insoddisfatta alla ricerca di un volontario che le faccia avere un figlio. La terza donna del gruppo è Meg con un matrimonio alla frutta, che ritroverà due spasimanti Sam (Tom Berenger) e Nick (William Hurt). Due tipi poco normali. Il primo è un attore di successo, una specie di 007 americano, che non sa quel che vuole e che alla fine cederà alle avances di Meg; il secondo è un depresso cocainomane, reduce dal Vietnam, che ha fatto lo psicologo radiofonico e che deciderà di restare con la compagna del defunto. La cornice è shakespeariana, la tela apparentemente crepuscolare. Insoddisfazioni, abitudini, lavoro, danaro, sentimenti repressi e sesso. Dialoghi serrati ma senza un filo conduttore. È il banale quotidiano di un pugno di ex sognatori, passati dalla parentesi ribelle a un trantran (un po’ orgoglioso) medio/borghese che non transita per il giardino dell’assurdo. Passaggio tipico, quasi obbligatorio (quasi), per gli irriducibili in disarmo.
Lawrence Kasdan regista e sceneggiatore (Il ritorno dello Jedi e Guardia del corpo), poco più che trentenne, coglie l’attimo nel quale sogni, amarezze, speranze e delusioni si combinano tra loro, lasciando spazio a qualsiasi soluzione. È questo il vero labirinto del film. Non le relazioni tra i personaggi – attori tutti bravi e lì lì per iniziare una carriera ricca di successi, compreso Kevin Costner che interpreta Alex anche se non si vede mai – ma la realtà che si muove alle loro spalle. Il cambiamento: quel “grande freddo” che si suppone sia il contesto nel quale gli otto si muovono con tatto e paura. 
Tre esempi, come minuscole chiavi di lettura. Harold, padrone di casa della villa che ospita i protagonisti. Harold, amico del poliziotto che insegue Nick. Harold, che considera le forze dell’ordine degli angeli custodi a difesa della proprietà privata. Michael, disincantato giornalista che rileggendo un vecchio articolo, da narciso e carrierista commenta a voce alta lo stile e l’incisività. Sam, attore certamente sopravvalutato che per imitare la scena di un vecchio telefilm si ferisce al braccio. Ecco: tre esempi di un mondo, quello degli Ottanta, popolato da antieroi. Da personaggi che quindici anni prima avrebbero visto il loro futuro popolato da eroi. Cioè da loro stessi. Il film però è originale, perché non indugia nella facile lamentela né nell’analisi della sconfitta e dei torti di una generazione. L’elemento che permette di equilibrare il sistema è uno e soltanto uno: l’amicizia. Il grande freddo è prima di tutto un film sull’amicizia. Sul peso e sul ruolo insostituibile dell’amicizia. Di quel legame impossibile da spezzare – che coinvolge i protagonisti, e che al di là degli episodi unisce il presente al futuro. L’amicizia è quel calore capace di bilanciare il grande freddo che viene dall’esterno. È l’amicizia a recare conforto ai deboli.
I protagonisti sono inconcludenti, insoddisfatti, disadattati, depressi, insicuri. Alcuni così diversi da essere incompatibili con gli altri. La generazione del grande rifiuto non ha dato quel che prometteva. La generazione Woodstock, quella che immaginava che visioni e stili di vita fossero materia di una stessa forma, quella che pensò di essere figlia di un’arte che ribaltava certezze secolari (e nel film di musica anni Sessanta ne abbiamo a sufficienza: da Marvin Gaye ai Procol Harum con l’indimenticabile e nostalgica A Whiter Shade of Pale, la Senza luce dei nostri Dik Dik), quella che sognò a occhi aperti più di qualunque altra generazione, si ritrova adesso attorno a un tavolo, nel salotto di una villa americana con una sola certezza. Il valore degli affetti. Ma è una lezione senza tempo: l’amicizia è un potente farmaco contro le sconfitte, le frustrazioni e i fallimenti. Non vince la morte, ma educa ad accettarla. La morte di un amico, la morte di un sogno. La morte di un’avventura che si pensava eterna. Buon compleanno “Grande freddo”: trent’anni ma non dimostrarli affatto.




Senza un processo “costituente” la politica muore. Qui s’è dimenticato il costituzionalismo



Luciano Lanna

La discussione sulla formazione del possibile nuovo “governo di convergenza” (tra forze idealmente e programmaticamente contrapposte) così come anche quella che precedette il varo dell’ultimo esecutivo tecnico esprimono con chiarezza che in Italia si sta manifestando con drammaticità un evidente deficit di politica tout court. Sulla scena pubblica sembra prevalere più che altro la logica elementare dell’emergenza, si opera attraverso commissariamenti (sia pur necessari, imposti dall’urgenza, imprescindibili dato il contesto) e quadrature del cerchio d’ordine numerico, si punta – un po’ come storicamente fu con i governi “tecnici” del periodo 1943-45 – soprattutto a salvare il salvabile, a mantenere un riferimento istituzionale per le relazioni internazionali e a tenere in ordine i conti pubblici. Ciò che è scomparso dall’orizzonte, almeno dal nostro personale punto di vista,  è soprattutto il riferimento alla natura “costituente” (e partecipata e propositiva) dell’attività politica. È come se non si riuscisse oggettivamente a mettere in forma il “nuovo” per aver forse dimenticato che non c’è politica senza l’ancoraggio teorico e pratico a una cultura costituente e costituzionale. Da questo punto di vista, l’impressione è come se si fosse perduta – e da tempo – la guerra delle parole e degli stessi princìpi…


Soprattutto in Italia, d’altronde, in particolare a partire dagli anni Settanta, sul termine “costituzione” aleggia una confusione che ha progressivamente trasformato il suo significato in una specie di feticcio ideologico teso a proporre come immutabile e addirittura irriformabile l’assetto politico-istituzionale scaturito dal processo costituente del periodo 1946-1948. Quasi nessuno ha infatti rilevato, come si sarebbe dovuto fare, che qualsiasi costituzione è soprattutto l’enunciazione di principi che salvaguardano la libertà dei cittadini più che un assetto dato come indiscutibile una volta per tutte. L’ultimo paradosso è che, nello scenario dei nostri giorni, se alcune forze politiche – quelle per lo più di centrosinistra (ma non solo) oppure quelle caratterizzate da un giacobinismo di fondo – si appellano al testo della costituzione repubblicana concependolo come una sorta di riferimento assoluto e indiscutibile rispetto alla presunta impossibilità di cambiare alcunché, dal centrodestra Berlusconi e i suoi, a intermittenza, reclamano invece la necessità di una ri-scrittura della Costituzione al fine di fornire maggiore potere all’esecutivo, tradendo così anche loro quel presupposto di qualsiasi processo costituzionale che è poi la limitazione di qualsiasi eccesso (e abuso) di potere.
Per rimettere i puntini sulle “i”, riferiamoci, correttamente, alla sfera della teoria politica e citiamo allora Giovanni Sartori: “Il termine costituzione, che pertiene al costituzionalismo, è – sostiene il decano dei nostro politologi – esclusivamente moderno, e deve essere inteso in un preciso significato garantistico”. Siamo d’accordo, ma nel corso del Novecento il positivismo giuridico e una concezione “formale” di costituzione ne hanno via via deformato il significato e distrutta addirittura la ragion d’essere originaria del principio.


Cerchiamo quindi di capire questo concetto attraverso un evidente paradosso politologico: la patria del costituzionalismo, l’Inghilterra, è il paese che non ha e non ha mai avuto una costituzione scritta e cristallizzata. Eppure, come è stato più volte sottolineato da tutti gli studiosi, nonostante la Gran Bretagna non abbia una costituzione scritta essa è sin dal Medio Evo il luogo politico in cui è stata sancita teoricamente e prevista praticamente  la protezione integrale dei diritti fondamentali di libertà dei cittadini. Certo, storicamente, i britannici hanno di volta in volta fatto anche ricorso a documenti scritti che hanno definito rigorosamente i diritti di libertà dei cittadini: le Petizioni dei Diritti del 1610-1628, l’Habeas Corpus Act del 1679, il Bill of Rights e il Toleration Act del 1689. Ma il fatto che questi atti solenni non siano mai stati fusi in un singolo testo scritto e organico non significa affatto che nella prassi politica concreta gli stessi non abbiano definito e inverato una costituzione materiale efficace e operativa.
La parola “costituzione” d’altronde viene dal latino constitutio, che a sua volta deriva dal verbo constituere: istituire, fondare, iniziare, cominciare… Che, stando almeno a Machiavelli, coincide con l’avvio, con l’originarsi della stessa prassi politica. Va detto che nell’età di Oliver Cromwell – che sono, va ricordato, gli anni della dittatura del Lord Protettore – in Gran Bretagna si verificarono pure tentativi (non riusciti) di formulare una carta fondamentale scritta, eppure nonostante ciò nessuno dei documenti in questione venne mai chiamato costituzione, semmai covenant, instrument, agreement. Ma quando più avanti si cominciò a parlare di costituzione nel contesto del costituzionalismo teorico , non ci si riferì mai, comunque, alla necessità di un “testo feticcio”.



Chi cerca le origini del costituzionalismo deve infatti rifarsi alla Magna Charta del 1215 e alle dinamiche scaturite dai suoi principi in senso di costituzione materiale. Quando nell’Ottocento si diffuse ovunque il movimento d’opinione che chiedeva “la costituzione”, questo non significava altro che la richiesta di un assetto il quale, come nella consuetudine inglese, garantiva “libertà protette” per ogni singolo cittadino, ovvero un “sistema costituzionale”. Vale la pena leggere ancora Sartori: “Sia come sia, una costituzione tutta codificata in un unico documento è soltanto un mezzo. Ciò che realmente importa è il fine, il telos, lo scopo originario del costituzionalismo. E questo scopo comune potrebbe essere espresso e sintetizzato da una sola parola: garantismo”. Ovvero, definire una serie di principi costituenti per i quali si delimita qualsiasi tentazione di arbitrarietà del potere e si assicura un governo limitato e controllato: “S’intende che le tecniche del garantismo sono diverse (carte dei diritti o no, controllo giudiziario o meno, separazione dei poteri), ma in ogni caso l’intento e la ragion d’essere sono di assicurare che i cittadini siano protetti e garantiti dall’abuso di potere”.
D’altronde, è vero: nel corso del Novecento, come abbiamo già accennato, si opera un processo di deriva e confusione ideologica e ideologizzante. Dal costituzionalismo quale contenuto “costituzionale” di garanzie di libertà e di limitazione del potere s’è passati all’idea di costituzione intesa come un qualsiasi ordine istituzionale e statuale dato. Soprattutto in Italia, il significato formale e derivato ha via via fagocitato l’originaria ed essenziale dimensione garantistica di qualsiasi processo costituzionale e costituente. Lo ripetiamo: in senso proprio e politologicamente corretto, una “costituzione” non è altro che un assetto della società politica tale da essere organizzato tramite e mediante la legge, allo scopo di limitare qualsiasi arbitrarietà del potere e di sottometterlo alla sua divisione (o tripartizione) e al primato del diritto.



A Berlusconi e a quelli che la pensano come lui va ricordato, a proposito della polemica sui limiti di una costituzione fissa e rigida, che da sempre è stato l’inevitabile (e spesso automatico) cadere in desuetudine di taluni disposti costituzionali a causa del loro anacronismo oppure il caso di certe norme che non sono mai state attuate per carenza di volontà, o inerzia, del potere legislativo o di quello esecutivo. Che è – sia ben chiaro – altra cosa da sollecitare una riscrittura strumentale tesa a forzare sul primato dell’esecutivo sul legislativo (col rischio di far saltare l’equilibro dei tre poteri, di montesquieuiana memoria, che è l’essenza di un assetto libero). Oltretutto, in quasi tutti i contesti che – a differenza della Gran Bretagna, dove come abbiamo rilevato un testo costituzionale scritto non esiste – registrano casi di incompleta applicazione della costituzione. Certo, è anche vero che molte costituzioni scritte e troppo articolate hanno storicamente reso troppo macchinoso e complicato il funzionamento del meccanismo di governo per consentire a un esecutivo di funzionare. E in queste condizioni, la non applicazione, è stata spesso un rimedio all’inapplicabilità. Ma, come osserva Sartori, “sarebbe controproducente o comunque poco sensato accettare in tutti i casi il punto di vista strettamente giuridico secondo il quale tutta la costituzione deve essere applicata a qualunque costo. Personalmente ritengo che dovremmo sempre accertare se la non applicazione investe il funzionamento del governo in ordine agli scopi fondamentali del costituzionalismo, oppure no. E comunque i casi sono due: o il termine costituzione viene usato nel suo specifico e originario significato garantista e di limitazione del potere, oppure è diventato un doppione inutile (e ingannevole) di termini come organizzazione, struttura, forma o sistema politico”.  Ma chi difende, oggi in Italia, le prerogative più profonde e originarie, del costituzionalismo? E chi propone nella sfera pubblica e nel quadro politico una prassi autenticamente ispirata a una cultura politica che sia costituente e costituzionalista ad un tempo? Perché senza questa presenza e questa proposta rischiamo di restare ancora molto a lungo nell’impasse e nello stallo che caratterizzano l’attuale fase di paralisi politica succeduta, oltretutto, all’appello a quell’inutile “transizione” stancamente e retoricamente evocata per oltre un ventennio. Perché la risoluzione del “caso italiano” oggi non passa tanto nella capacità di fare o reggere un governo ma in quella, decisiva, di avviare un nuovo, vasto, entusiasmante, partecipato, “processo costituente”. Oltre le leadership, oltre i limiti delle classi dirigenti possibili, oltre gli stessi partiti.





Il fascino intramontabile dei perdenti





Annalisa Terranova

Nella storia il fascino del declino è innegabile. Come è innegabile che meritino il ricordo dei posteri non solo i trionfatori ma anche i grandi sconfitti. E lo stesso declino può essere visto come forma decadente di una civiltà (si pensi alle pagine spengleriane sul tramonto dell'Occidente) oppure può incarnarsi in un personaggio. E proprio una sfilata di “perdenti” è quella presentata da Domenico Quirico nel suo ultimo libro, Gli ultimi, la magnifica storia dei vinti (Neri Pozza). Una galleria di ritratti che si apre con Atahualpa, ultimo re degli Inca ucciso dagli spagnoli nel XVI secolo, e si chiude con Benedetto XVI, il Papa che ha dato le inattese dimissioni lasciando ad altri il compito di rigenerare una Chiesa sull'orlo del baratro. Spaziando da un secolo all'altro, da un luogo all'altro, Quirico si lascia attrarre dai personaggi che hanno chiuso un'epoca: l'ultimo imperatore romano Romolo Augustolo, l'ultimo sovrano dell'Impero cinese, Aisin Gioro Pu Yi, l'ultimo comunista Gorbaciov. Sono quelli che devono cedere il passo a epoche nuove. Sono quelli che hanno cuore e anima lacerati tra passato e futuro. Di loro non resterebbe traccia senza il senso romantico del fascino che promana da ciò che sta andando in rovina. Un sentimento largamente diffuso in Europa, fin da quando nel Medioevo si diffusero le miniature della ruota della fortuna, monito ai potenti e ai superbi rappresentati ora al vertice e ora repentinamente precipitati in basso. Un sentimento destinato ad appannarsi parallelamente alla marcia trionfale del progressismo. 
Ma non solo in Europa è radicato il senso del rispetto da tributare ai perdenti. In un famoso libro, La nobiltà della sconfitta, l'orientalista Ivan Morris spiegava il trasporto della cultura giapponese verso la caducità delle fortune umane. Basti citare un famoso adagio giapponese, riportato nel libro di Morris, per comprendere di cosa si parla: “I rintocchi delle campane del tempio di Jetavana scandiscono la caducità di tutte le cose terrene; il colore dei fiori sugli alberi sàla conferma la massima che tutti coloro che fioriscono devono inevitabilmente cadere. In questo mondo i superbi durano solo un istante, come il sogno di una notte di primavera”. (I superbi Tiara durano un istante). C'è una molle dolcezza in questo assecondare le alterne vicende della vita. E c'è consapevolezza della nobiltà di un sacrificio senza risultati pratici nella canzone dei kamikaze citata ancora da Morris: “Mai pensare di vincere! I pensieri di vittoria portano soltanto alla sconfitta. Quando perdiamo, avanti, sempre avanti”. 

mercoledì 24 aprile 2013

L’oro di Cipro che fa gola ai mercati. E Berlino gongola



Francesco De Palo

Quando il leader dell’Eurogruppo aveva detto (e poi smentito) che il “modello Cipro” era esportabile anche ad altri paesi in crisi, subito la gran parte della stampa aveva incensato l'una tantum cipriota. Evidenziando come il prelievo forzoso nell'isola occupata da 50mila militari turchi fosse stato solo un episodio. Non ripetibile in altre assise e soprattutto non fotocopiabile anche nei dibattiti internazionali. Peccato che invece il ministro delle finanze tedesco Scaheuble ieri abbia detto esattamente il contrario, notizia passate in secondo piano nell'Italia monopolizzata dal nuovo governo targato Letta jr. Significa che i soloni di Bruxelles potrebbero essere autorizzati a fare pagare ai correntisti i buchi contratti dalla singola banca in questione.
Le parole provenenti da Berlino, pesanti come macigni, si aggiungono a quelle provenienti da Cipro, che al momento smentiscono , l'affare oro. La Banca Centrale di Cipro dice che il fatto non sussiste, ma la Reuters la batte per prima e viene confermata da fonti ministeriali di Nicosia. Cipro mette in vendita il suo oro, stimato nel valore di oltre 400 milioni di euro, per finanziare una parte dei prestiti e salvare l’economia, all’interno del progetto di valutazione delle esigenze di finanziamento istituito dalla Commissione Europea. Infatti il memorandum della troika prevede che, se da un lato Bruxelles si impegna a finanziare dieci miliardi di euro, al contempo chiede a Nicosia di trovarne tredici. E l’oro diventa un attore protagonista di questa scomoda e difficile partita, dove le variabili sono infinite.Il portavoce della Banca centrale di Cipro, Aliki Stylianou, ha affermato che tale decisione spetterebbe esclusivamente al Consiglio di Amministrazione della Banca. Una possibilità, ha aggiunto, che non è stata discussa e dibattuta in questo momento, pur sottolineando che non vi sono problemi in materia di finanza-credito, nonostante i riverberi delle misure siano già visibili tra i settecentomila residenti. Con immobili di proprietà ipotecati che prendono la via delle banche, con investitori preoccupati per imprese e liquidità andate in fumo.Una notizia è che però nella scorsa settimana il prezzo dell’oro ha registrato il calo più sensibile dal mese di novembre. Secondo Bloomberg, lo stato del metallo sarebbe pesantemente influenzato dalle notizie che vogliono Cipro pronta a vendere il suo oro per rastrellare il più possibile denaro contante.twitter@FDepalo

Tutti a scuola da Teodoro




Annalisa Terranova

E dunque è morto Teodoro Buontempo. Una notizia per tutti inaspettata perché l’immagine di Teodoro è appunto, per tutti, legata alla vitalità di quelli che non invecchiano male. Di quelli sempre in gamba. E a pensarci ora stupisce il fatto che alla sua enorme popolarità, anche tra gli avversari, non abbia corrisposto nell’ambiente di provenienza un ruolo adeguato. Teodoro non era un colonnello (e meno male) pur essendosi guadagnato sul campo il curriculum per poter aspirare a entrare nel gotha di quelli che avrebbero distrutto la destra (una medaglia che per fortuna non è a lui ascrivibile).
Comincio allora con un ricordo personale, non posso farne a meno, visto che mi torna in mente da quando mi hanno detto che se ne stava andando. Era il 1979 e Teodoro, con Ruggero Bianchi e con la moglie Marina portava avanti il sogno di Radio Alternativa. Io fui cacciata dalla mia sezione, Colle Oppio, perché avevo osato vendere con altri ragazzini la rivista Linea in via Frattina. A nulla servì dire che lo avevamo fatto solo per procurarci i soldi della colla per i manifesti, a nulla servì spiegare che Pino Rauti a malapena sapevamo chi fosse. La sezione, ci dissero, era di fedeltà almirantiana. Fuori tutti. Così andai a bussare alla radio di Teodoro. Gli raccontai tutto e poi con la disarmante sincerità che solo i ragazzini sanno avere gli chiesi: “Non ho più la mia sezione, non so dove andare, posso stare qui?”. Certo non potevo fare la speaker. Avevo 17 anni. Teodoro non si perse d’animo e mi affidò l’archivio, dove io passai parecchi polverosi pomeriggi ascoltando i conduttori che si alternavano ai microfoni a parlare di disagio sociale, di nuove povertà, di ecologia, di politica femminile.
Ma Teodoro non era solo aneddotica personale. E' stato, e più di altri, personaggio che ha fatto la storia, anche a livello d’immaginario, del mondo neofascista o di destra o come lo volete chiamare. Un pezzo di storia da studiare più di altri perché su Teodoro, da Teodoro, non è possibile estrarre alcuna icona caricaturale, non è possibile fare ironia, non è permesso parlare di destra rozza e incolta. Pure, è stato attivista generoso. Consapevole tuttavia che il massacro generazionale era da evitare. Pure, è stato un missino irriducibile. Pure, se ne è andato alla fine con la Destra di Storace, formazione oscillante a mio giudizio tra nostalgia e lepenismo. Però Teodoro aveva una cosa che lo rendeva in qualche modo speciale, e cioè una sensibilità sincera per i problemi degli ultimi, la caratteristica migliore di un’anima sociale che il Msi avrebbe a poco a poco soffocato e che era destinata a scomparire del tutto nel calderone della destra berlusconiana. Lo dimostra la preoccupazione con cui la sinistra accolse la notizia, nel 1997, della sua candidatura a vicesindaco di Roma in coppia con quel bellimbusto inutile di Pierluigi Borghini. Ho notizie dirette di quest’ansia: il Pds era allarmatissimo perché, dicevano i dirigenti romani di quel partito, Buontempo è il “fascio” che prende i voti nelle borgate, Buontempo è il “fascio” che ci ricorda che la sinistra deve stare nelle periferie e non nei salotti. Si tentò di disegnare su Teodoro l’immagine del razzista che non vuole i campi Rom. Ma nei dibattiti se la cavava benissimo: era informato, non usava slogan, cercava con pacatezza di spiegare che i campi di grandi dimensioni determinano le condizioni per una guerra tra poveri che canalizza energie cattive sul territorio. Non vibravano in quei suoi discorsi accenti di intolleranza ma di umanità.
Teodoro amava il Movimento sociale e solo lì si sentiva a suo agio. Quello è stato, secondo me, il suo unico e vero partito. Era contrario allo scioglimento del Msi e alla fondazione di An. Al congresso di Fiuggi, ma anche successivamente, ripeteva una tesi troppo presto dimenticata: nel 1993 l’exploit del Msi alle comunali (a Roma con Fini e a Napoli con Alessandra Mussolini) era dovuto al fatto che la destra era apparsa durante la prima Repubblica come forza antisistema e antipartitocratica. Non c’era bisogno di diventare qualcosa di diverso, diceva. Non c’entrava nulla lo sdoganamento di Berlusconi, diceva. Anche per quella sua convinzione, il suo ricordo mi è caro. Alla fine si piegò come tutti al diktat del vertice. An nacque senza la possibilità dell’esistenza di una corrente di opposizione interna. Una scelta di Gianfranco Fini ma garantita anche da quelli che poi avrebbero con lui governato il partito, i colonnelli sopra citati, garanti di un patto che avrebbe condotto An all’inerzia, alla pigrizia più impolitica e infine all’abbraccio con il Cavaliere.
Teodoro concepiva i partiti alla vecchia maniera: c’era la base, c’era la classe dirigente, c’era la formazione, c’erano le iniziative parallele. Negli anni Settanta segretario romano del Fronte, si oppose alle inutili e distruttive derive estremiste. Non approvava la cooptazione dei portaborse e neanche il silenzio compiacente verso il leader. Questa la sua lezione più importante. Non libri, non discorsi memorabili (ne ho ascoltati così tanti, ne abbiamo ascoltati così tanti), ma presenza, presenza assidua, presenza costante. E generosa. E coraggiosa. E quel suo essere uomo libero, cui infatti va il rispetto degli avversari oltre i luoghi comuni. E quel suo essere destra vera ma presentabilissima (mentre oggi in giro di presentabili ce ne sono davvero pochi, e se ne vantano pure). Ora l’auspicio è che il suo mondo ricambi degnamente l’impegno di Teodoro, che anziché farne un’icona da commemorare si approfondiscano le tante cose che Teodoro è stato, tra cui l'appoggio alla moglie Marina che organizzò i gruppi femminili delle Api (storia che quasi nessuno ricorda più) di modo che se non può più accogliere ragazzini sbandati nella “sua” radio possa per loro rappresentare quella scuola di politica che né il web né l’ambizione né il carrierismo possono sostituire. 

martedì 23 aprile 2013

Contro la barbarie delle vivisezione: domenica la manifestazione dalla parte degli animali


Francesco Pullia


Domenica 28 aprile chi crede in un nuovo modello di ricerca scientifica antitetico alla barbarie nei confronti degli animali si ritroverà a Roma per manifestare e dare voce a quegli esseri - gatti, cani, scimmie o topi… -  che, segregati in stabulari, sono vittime di atrocità per l’esclusivo interesse non della nostra salute ma dei profitti delle multinazionali farmaceutiche e per il tornaconto di una cerchia di baroni universitari che ricorrono alla sperimentazione animale per ricevere finanziamenti. La data scelta non è casuale. Il 28 aprile dell’anno scorso, infatti, alla fine di una manifestazione nazionale a Montichiari (BS) contro il “lager” di Green Hill un gruppetto di attivisti riuscì a sottrarre a quell’inferno diversi beagle destinati a finire nei laboratori di mezza Europa, alla mercé dei vivisettori. Le immagini di cuccioli liberati e passati attraverso il filo spinato sono diventate rapidamente vere e proprie icone. Nel luglio dello stesso anno il Corpo Forestale dello Stato sequestrò l’intera struttura di proprietà della Marshall Farm Inc. Fu l’inizio di un iter giudiziario conclusosi, grazie all’impegno di organizzazioni come Occupy Green Hill e la Lav, con la liberazione dei cani, prevalentemente cuccioli, tenuti in condizioni aberranti.
L’11 aprile di quest’anno è stata depositata la sentenza con cui la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha annullato, con rinvio, il provvedimento del Tribunale del Riesame di Brescia che aveva disposto il dissequestro dei 2639 beagle destinati alla vivisezione. Si tratta, come ci tiene a mettere in evidenza la Lav, di una tappa fondamentale. I cani infatti erano stato posti sotto sequestro preventivo su richiesta della Procura di Brescia, per evitare il protrarsi dei delitti di maltrattamento e uccisione di animali. I principi stabiliti dalla Suprema Corte sono numerosi e di grande importanza: primo fra tutti quello secondo cui se vengono travalicati i confini della normativa speciale, che disciplina anche l’attività di vivisezione, si rientra nell’alveo del maltrattamento di animali. Il 28 aprile è diventato, quindi, un giorno altamente simbolico, significativo, per chi lotta per un mondo migliore, nonviolento, basato sul riconoscimento dell’interdipendenza tra tutte le specie presenti nel pianeta (e tra questi e il mondo naturale) e per una scienza non truffaldina ma meritevole di questo nome, a misura, oseremmo dire, del vivente. 
«Possiamo affermare con certezza – afferma Marco Mamone Capria, docente universitario, da lungo tempo impegnato sul fronte scientifico antivivisezionista – non solo che l'ideologia vivisezionista è falsa, ma che addirittura è vero l'opposto di quanto sostiene: e cioè che le ricerche su animali servono solo a fare da base...ad altre ricerche su animali. La più recente aggiunta a una già copiosa letteratura è l'importante articolo di J. Seoka e dei suoi collaboratori, “Genomic responses in mouse models poorly mimic human inflammatory diseases”, apparso sulla prestigiosa rivista americana PNAS, Proceedings of the National Academy of Sciences, l’11 febbraio di quest’anno».



Sabato scorso, intanto, cinque attivisti del Coordinamento Fermare Green Hill hanno dato vita ad un’eclatante azione nonviolenta barricandosi al quarto piano del Dipartimento di Farmacologia dell’Università degli Studi di Milano, in via Vanvitelli, documentando quanto più possibile, e riuscendo, dopo quasi dieci ore di occupazione, a mettere in salvo, portandoli via in decine di scatole, circa 200 topi e 17 conigli. Sono state, tra l’altro, scambiatele documentazioni relative alle singole gabbie, rendendo quindi 'inservibili' gli animali. Altri 800 dovrebbero essere salvati nei prossimi giorni. Certo, scatteranno le denunce per i coraggiosi militanti, ma quello che è stato fatto è encomiabile. 
“La medicina – secondo Stefano Cagno, medico chirurgo da sempre in prima fila nella lotta alla vivisezione - non riesce a progredire come si vorrebbe perché la ricerca è basata in gran parte su un metodo non scientifico: la sperimentazione animale. Nel tentativo di comprendere i meccanismi biologici che determinano l’insorgenza di una malattia, molti ricercatori inducono artificialmente negli animali condizioni simili, ma mai uguali, a quelle che si riscontrano negli esseri umani.  Analogamente, quando deve essere studiata una nuova sostanza che si ritiene possa avere proprietà terapeutiche, prima di essere somministrata ai nostri simili, viene data agli animali, per valutarne le capacità terapeutiche e l’eventuale tossicità. Ogni specie animale, però, possiede differenti caratteristiche anatomiche, genetiche, biochimiche, fisiologiche, patogenetiche e, quindi, ogni risultato ottenuto su una determinata specie non può valere per un’altra. La sperimentazione animale è un grave errore che storicamente ha provocato alla salute umana taciuti fino ad un recente passato dai mezzi di comunicazione di massa”.
“Ci si dovrebbe chiedere – incalza Marco Mamone Capria – come mai i vivisettori sono così restii a fare riprese nei loro laboratori e perché la documentazione disponibile è quasi interamente scaturita da incursioni di attivisti. Si guardi la puntata “Uomini e topi” di Report mandata in onda nell’ottobre 2004 per rendersi conto di quanto accada là dentro”.
Solo nel triennio 2007-2009 (dati pubblicati sulla G.U. n.53 del 03.03.2010 ai sensi del decreto legislativo 116/92) sono stati uccisi per “fini sperimentali” 2.603.671 animali.
La scrittrice e psicoterapeuta Annamaria Manzoni è, dal suo punto di vista, ancora più netta: “anche noi, come Martin Luther King, abbiamo un sogno e anche il nostro è di giustizia, di riscatto, di trasformazione epocale, che urge verso la sua necessaria realizzazione. Il nostro è il sogno di vivere in un mondo dove ogni essere vivente abbia diritto al rispetto, di spezzare, per conto degli animali, l’ultimo anello della catena in cui il più forte abusa del più debole”. Appuntamento, dunque, domenica 28 aprile a Roma per una grande marcia organizzata da Animal Amnesty. L’intento, tra l’altro, è di far sì che la data diventi per tutti la “Giornata della liberazione animale”. Il corteo partirà alle 14 circa da P.za Della Repubblica e attraverserà via Terme di Diocleziano, via Amendola, via Cavour , piazza dell’Esquilino, via Liberiano , piazza S. Maria Maggiore, via Merulana, largo Brancaccio, via Merulana, viale Manzoni, via E. Filiberto, per concludersi in piazza di Porta San Giovanni (vicino alla statua di San Francesco).