giovedì 11 aprile 2013

Orwell guardava avanti (e a noi) quando invitava a saper stare “nel ventre della balena”




Luciano Lanna

Sta nei segni dei tempi e nell’immaginario maggioritario e condiviso dei nostri anni la riscoperta improvvisa di autori novecenteschi irregolari e di frontiera che nel secolo scorso apparvero forse solo come profeti inascoltati e fuori tempo (anche se in realtà stavano solo avanti…). Ci riferiamo a figure come quelle di Albert Camus e Hannah Arendt, di Simone Weil e di Dino Buzzati, di Ignazio Silone e Ernst Jünger, di Cesare Pavese e di Céline… Intellettuali che, come a rilevato Simonetta Fiori su Micromega, consentono sostanzialmente di “rileggere in chiave libertaria la cultura della crisi del Novecento”. Tra questi autori, accanto ai nomi citati spicca, insieme ad André Malraux e Arthur Koestler, quello di George Orwell, lo scrittore britannico scomparso a soli quarantasette anni nel gennaio del 1950. Della sua lezione e della sua traiettoria annotava, già nel 1951, Geno Pampaloni: “Orwell è uno scrittore imbarazzante. I letterati in genere lo hanno in sospetto, e sono disposti a accettare se mai ad accettare di lui solo La fattoria degli animali perché somiglia ad un classico. I suoi connazionali non lo amano perché irregolare, i comunisti lo odiano e anche morto ne parlano come di uno spione. I socialisti hanno parecchie riserve da fare e comunque non lo sentono uno di loro, perché non marxista ma liberale. Gli anarchici lo ammirano e gli vogliono bene ma pensano che non fosse uno di loro. I credenti gli rimproverano la mancanza di fede, i laici il suo riserbo costante e il suo sentimento dell’apocalisse…”.
Lo ricordiamo perché, finalmente, arriva nelle librerie italiane Nel ventre della balena (Bompiani, pp. 376, euro 10,50), un’antologia della sua vasta produzione saggistica che, secondo il curatore Silvio Perrella, costituisce “la spina dorsale della sua intera opera”. Orwell era infatti uno scrittore politico, un autore che voleva capire il suo tempo, comprendere lo stato reale della vita delle persone, delle singole persone, nel Novecento. “E’ un individuo – annota ancora Perrella – a cui stanno a cuore altri individui”. Soprattutto in un’epoca in cui gli individui, le persone, vengono ingoiate, annullate, in categorie più ampie, astratte, disumanizzanti, siano esse la ragion di Stato, la nazione, la Storia, il Partito, la razza, la Civiltà, lo sviluppo la crescita, l’Occidente, lo stesso futuro… Cosa era infatti la sua metafora del Graande Fratello, se non la minaccia della massima entità spersonalizzante e negatrice della dimensione individuale.
C’è ancora spazio per uno sguardo solitario, si chiedeva infatti Orwell? E per rispondere fu anche pronto a gettarsi nella mischia, a verificare, and andare nella guerra di Spagna. Ma nel suo “impegnarsi” sa portare con sé anche le ragioni di che non si lascia andare alle passioni del tempo. Qui Orwell, un po’ come lo Jünger della “ritirata nella foresta” e dell’anarca, riesce a far suo anche il punto di vista di un uomo che sa come il processo storico sia qualcosa di complesso e che sfugge alle sue possibilità di intervento e controllo, e che allora si pone al di là del desiderio di controllarlo. Si pone in questa chiave la metafora dello “stare nel ventre della balena”, che lui ricava da un’espressione di Henry Miller, l’autore di Tropico del cancro. “Conobbi Miller – racconta Orwell – alla fine del 1936, mentre passavo per Parigi diretto in Spagna. Ciò che più mi colpì in lui fu l’assoluta mancanza d’interesse per la guerra di Spagna: si limitò a dirmi in termini piuttosto energici che andare in Spagna in quel momento significava essere un idiota. Egli poteva capire che ci si andasse per motivi estetici, per curiosità, per esempio, ma ficcarsi in quel pasticcio in omaggio a un senso di responsabilità gli appariva un’idiozia…”.
Miller, sostiene allora Orwell, aveva scelto di stare a Parigi come Giona “nel ventre della balena”, come uno scrittore che non desiderava identificarsi con la tendenza del momento storico, e che si poneva oltre, cercando di difendere il suo spazio individuale… Quando “progresso e reazione si rivelano entrambi un inganno, conclude Orwell, non rimane che spogliare la realtà dei suoi fantasmi, delle sue illusioni, dei suoi stessi terrori, accettandola ma ponendosene oltre: ammettere insomma che si è nel ventre della balena, perche ci si sta, ovviamente anche quando si finge di non starci attraverso la finzione retorica e rassicurante di dominare la realtà.
Orwell propone quindi, sulla scorta dello spengleriano Henry Miller, un atteggiamento esistenziale di resistenza libertaria e dalla parte del singolo assai prossimo a quanto suggerivano negli stessi anni Albert Camus o Ernst Jünger, scrittori ambigui, allora si disse. L’uomo “nel ventre della balena di Orwell, il soggetto esistenzialmente “in rivolta” e mai preso dalla rivoluzione spersonalizzante di Camus, l’anarca che si sa alla macchia di Jünger si pongono invece oggi come le migliori metafore in difesa delle persone di fronte alle nuove dimensioni postmoderne della spersonalizzazione globale. Che la profezia orwelliana del 1984 si rivolgesse allora proprio a noi uomini del terzo millennio?

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