venerdì 26 aprile 2013

Senza un processo “costituente” la politica muore. Qui s’è dimenticato il costituzionalismo



Luciano Lanna

La discussione sulla formazione del possibile nuovo “governo di convergenza” (tra forze idealmente e programmaticamente contrapposte) così come anche quella che precedette il varo dell’ultimo esecutivo tecnico esprimono con chiarezza che in Italia si sta manifestando con drammaticità un evidente deficit di politica tout court. Sulla scena pubblica sembra prevalere più che altro la logica elementare dell’emergenza, si opera attraverso commissariamenti (sia pur necessari, imposti dall’urgenza, imprescindibili dato il contesto) e quadrature del cerchio d’ordine numerico, si punta – un po’ come storicamente fu con i governi “tecnici” del periodo 1943-45 – soprattutto a salvare il salvabile, a mantenere un riferimento istituzionale per le relazioni internazionali e a tenere in ordine i conti pubblici. Ciò che è scomparso dall’orizzonte, almeno dal nostro personale punto di vista,  è soprattutto il riferimento alla natura “costituente” (e partecipata e propositiva) dell’attività politica. È come se non si riuscisse oggettivamente a mettere in forma il “nuovo” per aver forse dimenticato che non c’è politica senza l’ancoraggio teorico e pratico a una cultura costituente e costituzionale. Da questo punto di vista, l’impressione è come se si fosse perduta – e da tempo – la guerra delle parole e degli stessi princìpi…


Soprattutto in Italia, d’altronde, in particolare a partire dagli anni Settanta, sul termine “costituzione” aleggia una confusione che ha progressivamente trasformato il suo significato in una specie di feticcio ideologico teso a proporre come immutabile e addirittura irriformabile l’assetto politico-istituzionale scaturito dal processo costituente del periodo 1946-1948. Quasi nessuno ha infatti rilevato, come si sarebbe dovuto fare, che qualsiasi costituzione è soprattutto l’enunciazione di principi che salvaguardano la libertà dei cittadini più che un assetto dato come indiscutibile una volta per tutte. L’ultimo paradosso è che, nello scenario dei nostri giorni, se alcune forze politiche – quelle per lo più di centrosinistra (ma non solo) oppure quelle caratterizzate da un giacobinismo di fondo – si appellano al testo della costituzione repubblicana concependolo come una sorta di riferimento assoluto e indiscutibile rispetto alla presunta impossibilità di cambiare alcunché, dal centrodestra Berlusconi e i suoi, a intermittenza, reclamano invece la necessità di una ri-scrittura della Costituzione al fine di fornire maggiore potere all’esecutivo, tradendo così anche loro quel presupposto di qualsiasi processo costituzionale che è poi la limitazione di qualsiasi eccesso (e abuso) di potere.
Per rimettere i puntini sulle “i”, riferiamoci, correttamente, alla sfera della teoria politica e citiamo allora Giovanni Sartori: “Il termine costituzione, che pertiene al costituzionalismo, è – sostiene il decano dei nostro politologi – esclusivamente moderno, e deve essere inteso in un preciso significato garantistico”. Siamo d’accordo, ma nel corso del Novecento il positivismo giuridico e una concezione “formale” di costituzione ne hanno via via deformato il significato e distrutta addirittura la ragion d’essere originaria del principio.


Cerchiamo quindi di capire questo concetto attraverso un evidente paradosso politologico: la patria del costituzionalismo, l’Inghilterra, è il paese che non ha e non ha mai avuto una costituzione scritta e cristallizzata. Eppure, come è stato più volte sottolineato da tutti gli studiosi, nonostante la Gran Bretagna non abbia una costituzione scritta essa è sin dal Medio Evo il luogo politico in cui è stata sancita teoricamente e prevista praticamente  la protezione integrale dei diritti fondamentali di libertà dei cittadini. Certo, storicamente, i britannici hanno di volta in volta fatto anche ricorso a documenti scritti che hanno definito rigorosamente i diritti di libertà dei cittadini: le Petizioni dei Diritti del 1610-1628, l’Habeas Corpus Act del 1679, il Bill of Rights e il Toleration Act del 1689. Ma il fatto che questi atti solenni non siano mai stati fusi in un singolo testo scritto e organico non significa affatto che nella prassi politica concreta gli stessi non abbiano definito e inverato una costituzione materiale efficace e operativa.
La parola “costituzione” d’altronde viene dal latino constitutio, che a sua volta deriva dal verbo constituere: istituire, fondare, iniziare, cominciare… Che, stando almeno a Machiavelli, coincide con l’avvio, con l’originarsi della stessa prassi politica. Va detto che nell’età di Oliver Cromwell – che sono, va ricordato, gli anni della dittatura del Lord Protettore – in Gran Bretagna si verificarono pure tentativi (non riusciti) di formulare una carta fondamentale scritta, eppure nonostante ciò nessuno dei documenti in questione venne mai chiamato costituzione, semmai covenant, instrument, agreement. Ma quando più avanti si cominciò a parlare di costituzione nel contesto del costituzionalismo teorico , non ci si riferì mai, comunque, alla necessità di un “testo feticcio”.



Chi cerca le origini del costituzionalismo deve infatti rifarsi alla Magna Charta del 1215 e alle dinamiche scaturite dai suoi principi in senso di costituzione materiale. Quando nell’Ottocento si diffuse ovunque il movimento d’opinione che chiedeva “la costituzione”, questo non significava altro che la richiesta di un assetto il quale, come nella consuetudine inglese, garantiva “libertà protette” per ogni singolo cittadino, ovvero un “sistema costituzionale”. Vale la pena leggere ancora Sartori: “Sia come sia, una costituzione tutta codificata in un unico documento è soltanto un mezzo. Ciò che realmente importa è il fine, il telos, lo scopo originario del costituzionalismo. E questo scopo comune potrebbe essere espresso e sintetizzato da una sola parola: garantismo”. Ovvero, definire una serie di principi costituenti per i quali si delimita qualsiasi tentazione di arbitrarietà del potere e si assicura un governo limitato e controllato: “S’intende che le tecniche del garantismo sono diverse (carte dei diritti o no, controllo giudiziario o meno, separazione dei poteri), ma in ogni caso l’intento e la ragion d’essere sono di assicurare che i cittadini siano protetti e garantiti dall’abuso di potere”.
D’altronde, è vero: nel corso del Novecento, come abbiamo già accennato, si opera un processo di deriva e confusione ideologica e ideologizzante. Dal costituzionalismo quale contenuto “costituzionale” di garanzie di libertà e di limitazione del potere s’è passati all’idea di costituzione intesa come un qualsiasi ordine istituzionale e statuale dato. Soprattutto in Italia, il significato formale e derivato ha via via fagocitato l’originaria ed essenziale dimensione garantistica di qualsiasi processo costituzionale e costituente. Lo ripetiamo: in senso proprio e politologicamente corretto, una “costituzione” non è altro che un assetto della società politica tale da essere organizzato tramite e mediante la legge, allo scopo di limitare qualsiasi arbitrarietà del potere e di sottometterlo alla sua divisione (o tripartizione) e al primato del diritto.



A Berlusconi e a quelli che la pensano come lui va ricordato, a proposito della polemica sui limiti di una costituzione fissa e rigida, che da sempre è stato l’inevitabile (e spesso automatico) cadere in desuetudine di taluni disposti costituzionali a causa del loro anacronismo oppure il caso di certe norme che non sono mai state attuate per carenza di volontà, o inerzia, del potere legislativo o di quello esecutivo. Che è – sia ben chiaro – altra cosa da sollecitare una riscrittura strumentale tesa a forzare sul primato dell’esecutivo sul legislativo (col rischio di far saltare l’equilibro dei tre poteri, di montesquieuiana memoria, che è l’essenza di un assetto libero). Oltretutto, in quasi tutti i contesti che – a differenza della Gran Bretagna, dove come abbiamo rilevato un testo costituzionale scritto non esiste – registrano casi di incompleta applicazione della costituzione. Certo, è anche vero che molte costituzioni scritte e troppo articolate hanno storicamente reso troppo macchinoso e complicato il funzionamento del meccanismo di governo per consentire a un esecutivo di funzionare. E in queste condizioni, la non applicazione, è stata spesso un rimedio all’inapplicabilità. Ma, come osserva Sartori, “sarebbe controproducente o comunque poco sensato accettare in tutti i casi il punto di vista strettamente giuridico secondo il quale tutta la costituzione deve essere applicata a qualunque costo. Personalmente ritengo che dovremmo sempre accertare se la non applicazione investe il funzionamento del governo in ordine agli scopi fondamentali del costituzionalismo, oppure no. E comunque i casi sono due: o il termine costituzione viene usato nel suo specifico e originario significato garantista e di limitazione del potere, oppure è diventato un doppione inutile (e ingannevole) di termini come organizzazione, struttura, forma o sistema politico”.  Ma chi difende, oggi in Italia, le prerogative più profonde e originarie, del costituzionalismo? E chi propone nella sfera pubblica e nel quadro politico una prassi autenticamente ispirata a una cultura politica che sia costituente e costituzionalista ad un tempo? Perché senza questa presenza e questa proposta rischiamo di restare ancora molto a lungo nell’impasse e nello stallo che caratterizzano l’attuale fase di paralisi politica succeduta, oltretutto, all’appello a quell’inutile “transizione” stancamente e retoricamente evocata per oltre un ventennio. Perché la risoluzione del “caso italiano” oggi non passa tanto nella capacità di fare o reggere un governo ma in quella, decisiva, di avviare un nuovo, vasto, entusiasmante, partecipato, “processo costituente”. Oltre le leadership, oltre i limiti delle classi dirigenti possibili, oltre gli stessi partiti.





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