mercoledì 1 maggio 2013

Caro Tremonti, ecco perché la cultura si mangia… Ce lo spiegano Bruno Arpaia e Pietro Greco


Ivo Germano


La cultura costa poco e rende molto. Ad essere più circostanziati fa mangiare anche in maniera condita. È questa la tesi di un bel pamphlet di Bruno Arpaia e Pietro Greco, La cultura si mangia (Guanda, pp. 176, euro 12,00), che con piglio critico mette in questione diverse questioni a proposito della relazione irrisolta fra un paese, negli ultimi anni, aduso a rozzezza e volgarità e la necessità di considerare la cultura, come asset strategico dello sviluppo e della promozione umana e civile. Antitetico al notorio slogan del Kulturkampf di Giulio Tremonti sui libri, più estesamente, la cultura che non sfama, in un contesto di terrificante de-industrializzazione, il libro profila un nonsocché di ottimismo “rooseveltiano” nel partire dalla cultura. Quel che, in maniera non apologetica, fanno le piste ciclabili a Berlino, i distretti digitali di Mumbay, il connubio fra impresa e ambiente nella Ruhr, i think tank di Obama, cioè rendere plasticamente l'idea creativa e solida degli investimenti culturali. Dati, evidenze, studi non mancano nelle pagine del saggio in questione.


Al solo sfogliarlo, dopo l'iniziale sconforto a ripensare alle millantate occasioni in cui interlocutori dalla sintassi incerta che grondavano la non conoscenza nemmeno delle pagine gialle si applicavano alla parola cultura, torna in mente che la cultura non è solo il nostro petrolio, ma la chanche vera per ricominciare sul serio. Meglio rifare tante cose. Politicamente ed economicamente, fasi diverse per poter stare nei processi culturali contemporanei. E finalmente non più fuori. Più che sfida, novità.

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