mercoledì 1 maggio 2013

Il Barça e la “rivoluzione” nel calcio: quando a vincere è davvero la squadra


Alberto Pezzini


Neanche tre anni fa, la notte del 28 maggio 2011 – allo stadio di Wembley, uno dei templi del calcio internazionale – il Barça batteva 3 a 1 il Manchester United nella finale di Champions League. Contrariamente a quanto si potesse pensare, non fu una partita normale. O meglio, non fu solo la vittoria di una squadra – composta da gente “in mutande” che corre dietro a una palla  su di un’altra. In realtà, “come dice William Gibson nel suo romanzo cyberpunk Negromante, in molti avevano la sensazione che qualcosa si fosse spostato nel cuore delle cose”. Era mutato di circa 360 gradi l’assetto del calcio. Il Barça, infatti, da quella sera fece intendere di essere giunto a una maturazione mica soltanto calcistica e stop, ma soprattutto intellettuale: come se un giocatore di scacchi avesse finalmente sviluppato, dopo anni di geometrie infinite, un sesto, incredibile senso in più. Il Barça, o meglio la sua filosofia, non si può sintetizzare negli ultimi tre anni di Joseph Guardiola. La sua storia è molto più vecchia e coincide con due fattori terribilmente determinanti.


Lo sa bene Sandro Modeo che si occupa di scienza e calcio e per questo ha composto un amenissimo libro pubblicato dalla ISBN e l’ha intitolato nudamente Il Barça (pagg. 196, euro 13,90), in cui sciorina a menadito queste due facce di una stessa storia.
La prima si chiama Cruijff, che arriverà ad allenare la squadra, poco prima del 1975, ed importerà tra gli spagnoli, anzi tra i catalani, lo spirito tipico degli orange, degli olandesi.
La seconda si chiama Catalogna, e identifica non soltanto una terra, ma anche uno spirito, un insieme di costumi e – soprattutto – una anti-dentità unica e irripetibile: essere ciò che non si vuole essere e che si combatte. Mourinho, per esempio, il quale può venire definito come l’anti-Barcellona per eccellenza. Non a caso il Barça vive di questa doppia identità. È squadra a sé e nasce – forse – anche da una dannata voglia di vendetta nei confronti del Real Madrid, la squadra dei castigliani, di coloro che impiantarono nel centro della Spagna una capitale nata dal nulla, Madrid. Mentre il Real era ” la squadra del dittatore militare Franco… il Barça faceva parte della gloriosa tradizione socialista e libertaria catalana. Avendo letto Omaggio alla Catalogna di George Orwell e altra letteratura della guerra civile, fui attratto dalla città e dal club. Quest’ultimo, fondato nel 1899, è diventato un simbolo della cultura catalana – da qui il motto Mes que un club, come ben dice Irvine Welsh nella enciclopedica post fazione. Molto di più che un club. Addirittura una scuola e una specie di famiglia. Da questo spirito adesivo che aleggia tra le fila e dentro gli spogliatoi della squadra blaugrana sono nati fenomeni come Messi che restano l’esempio incarnato della filosofia del Barça


Messi arriva da una storia di depressione fisica in cui il suo corpo stava – lo sanno tutti – prendendo una piega amara. Soffriva molto semplicemente di un deficit di sviluppo dovuto ad una insufficienza dell’ormone GH della crescita (somatotoprina), ossia di quella sostanza che presiede allo sviluppo del fegato, delle ossa, delle cartilagini e dei muscoli. Aveva un quadro fisiopatologico indubbiamente assai problematico.
La fortuna – ma sarà poi cieca oppure venata di sottilissime coincidenze guidate – vuole che venga notato – giovanissimo, appena dodicenne – dal DT del Barça, Carles Rexach, il quale resta folgorato dal gioco suasivo di quel folletto diviso tra playstation e un mondo adulto che gli si spalanca sotto le gambe, all’improvviso. Galeotto sarà un pallonetto che Messi imbucherà nella rete di una squadra composta da ragazzi di due anni più grandi di lui e che gli darà la spinta. Il Barça lo fa curare pagando le cure necessarie consistenti nella somministrazione di un ormone biosintetico in grado “di surrogare il deficit di quello naturale”. Così nasce e si sviluppa il calciatore Messi che – veder giocare – emoziona e commuove. Lo dice Modeo in una specie di ritratto intessuto di fuoco ed oro, in alcune parole che sembrano risuonare in testa anche quando le pagine si chiudono:”… si vedono condensati in lui – al massimo grado – tutti gli esemplari della specie: tutte le farfalle che hanno rischiato di restare congelate in crisalidi”. Quelli che ce l’hanno fatta, a dispetto di un destino storto come le loro gambe, fatte d’aria e di magia.



Ma Messi significa anche la vittoria di una precisa filosofia societaria: ”Messi (come diceva Buckingham di Cruijff) è un dono di Dio all’umanità, calcisticamente parlando”. Però, senza quel viaggio alla “fattoria” (che chiamano cantera), probabilmente – si inclina Modeo e non ha torto – anche il suo sogno si sarebbe infranto al mattino e sarebbe rimasto puro oro in polvere, mica zecchino. Quest’ultimo – non dimentichiamolo – è proprio quello delle fiabe ma, a differenza dei sogni, non evapora. Il tiki-taka dei blaugrana, quel ritmo forsennato e artistico che hanno i loro scambi geometrici sempre diversi, nasce però da un preciso modulo:nessuno è indispensabile se non agli altri. Ecco perché Messi corre come un cavallo e lo puoi vedere dappertutto, come i suoi compagni. Messi è ciò che riluce in forma identitaria ma il Barça non è Messi. Il Barça è un gioco che deve sempre essere collettivo. È la squadra a vincere. E mai l’individuo soltanto. Tutto qui.

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