mercoledì 22 maggio 2013

L’omaggio di Bologna a Paz, l’artista del Settantasette



Ivo Germano
Via Emilia Ponente, al civico 223. Dove visse fra il 1975 e il 1984 Andrea Michele Vincenzo Ciro Pazienza. Strada di lenti risvegli di studenti che fanno colazione con tazze spaiate, mentre camion e furgoncini, scooteroni tentano di bypassare l’isterica mobilità. Un tempo ogni piano emanava un profumo di sugo o soffritto, a testimoniare la stratificazione e l’interscambio di vernacoli e movenze fattive di sviluppo cittadino.
Domani in occasione dell’anniversario della sua data di nascita – 23 maggio 1956 – il sindaco Virginio Merola scoprirà la targa ricordo del pittore di fumetti  che, proprio di Bologna, fece la città-manifesto e bersaglio di miti e riti collettivi. Prima di tutto, perché: Morto un genio non se ne fa un altro”. Così era scritto sulla copertina di Frigidaire, la rivista del fumetto postmoderno italiano, sorta di epitaffio di Andrea Pazienza, l’ultimo “Grande artista Rinascimentale” che fondò il tratto ironico e geniale, come nessuno mai. Indimenticabile e inimitabile, individuo inquieto ed errabondo delle esperienze estreme delle utopie e a-topie, delle illusioni e delle violenze degli anni Settanta, Andrea ha rivoluzionato il gergo e la narrazione a fumetti. D'improvviso ce ne stiamo ricordando. Grazie a una targa, Andrea Pazienza, morto tragicamente per overdose nel 1988, è di nuovo fra noi, alla grandissima, con quel ritmo falciante, aggressivo e rapsodico, presente in ogni sua tavola. Fra due decenni, Pazienza seppe regalare forma e sostanza, stile di vita attivo e percezione mentale alle storie tese e pese della gioventù. Pazienza tentò di filtrare dal ’77, la voglia di non prendersi sul serio, con il messaggio che la politica non si "faceva" più, ma si comunicava. Specchio della frenesia anarchica e movimentista di quegli anni, al punto che un fumetto di Andrea Pazienza, ancora oggi, vale più di mille slogan elettorali. Le tre icone tratte dai fumetti di Pazienza. Pentothal, Zanardi ed Enrico Fiabeschi sono le tre tappe dell’evoluzione di ragazzi, come Penthotal che devono fare i conti con l'angoscia, la depressione e l'abulia dopo che la ragazza l’ha lasciato.   Lisergico e licantropo fa della sua stanza una cella ed un filtro al mondo esterno, troppo pesante ed ideologico. Poi c’è Zanardi bell'irregolare, sadico e diabolico. Il più tenacemente cattivo dei personaggi pazienziani, assomma il cattiverio del nichilismo all'amarezza del 'No future' del punk. Anni catastrofici o magnifici, i Settanta, che avrebbero, in qualche modo, anticipato il cinismo duraturo e neutrale del ventennio successivo. Zanardi che Enrico Brizzi volle che campeggiasse nella copertina del suo secondo romanzo, Bastogne. E Mario Zanardi è l’adultolescente della “Nulla S.p.a. protagonista del romanzo “Ci meritiamotutto” del blogger e  scrittore Danilo “Maso” Masotti.  Enrico Fiabeschi, timida comparsa in una striscia di Pazienza, emblema del disordine spirituale e territoriale dello studente fuori sede e fuori corso a vita natural durante che tenta di superare un esame per evitare il servizio di leva. Fiabeschi s'impratichisce della vita, semplicemente per ricercare  uno spinello o  un morso di sesso fugace. Un piccolo album di famiglia, composto dalle creature di Andrea Pazienza, giovanotto meridionale con la erre moscia, dai capelli ricci, predestinato alla fantasia e alla profezia. Davvero, era uno spettacolo vederlo disegnare, come ha affermato Milo Manara, quando dardeggiava con il pennarello senza schemi. Puro talento, improvviso e rapsodico, più da poeta che da fumettista, incontrato per strada con un giaccone da 'Corto Maltese' e zampettante in bicicletta, visto che gli avevano rubato il motorino. Corrispondenza nel bel ritratto di Michele Serra: “Il talento di Andrea è esattamente questo: procurarsi quello scarto mentale, quella distanza, quella felice estraneità dalla quale si può capire quanto comica sia la nostra tragedia”. Scarto sarcastico nel colpire la "città vetrina" Bologna, rossa e partigiana. Soda caustica e sprizzo di allegria feroce che scioccarono Oreste del Buono che nelle tavole del giovane Andrea vide rappresentato il caos, lo sfascio e la tumefazione dell'anima progressiva “ Un intrico di tensioni e ingiustizie, di abusi e di attese di vendette. Il mio essere un vecchio comunista, per anagrafe ancor più che per ideologia, non implicava un eccesso di ingenuità. Le tavole del giovane Andrea mi avevano dunque suggerito il brivido di una sua Bologna che volevo ostinarmi a credere solo sua, solo fantastica”.

Di tutto ciò parlavano Le straordinarie avventure di Pentothal, contenute nel numero 4 di Alter, datato aprile ’77. Un mese dopo una delle fasi più disordinate ed emblematiche del dopoguerra.  “E a proposito che ci sono io che sono una moltitudine”. Natura multipla, ribelle e carnevalesca del ’77, intelletto attraverso una personale  irrisione dei troppi Soloni e degli intelligentoni. Sempre Paz desiderò “far fesso il presente”, lasciandosi scivolare via la vita. Coerente brevità esistenziale di un disegnatore libertario troppo in anticipo sulla fine tragica del decennio.  È questo forse il lascito di Andrea Pazienza, Paz o Apàz, il  "James Joyce del fumetto italiano", secondo il giudizio di Tondelli, l'altra metà narrativa, dolce e gentile, di quel periodo “Andrea Pazienza è riuscito a rappresentare, in vita, e ora anche in morte, il destino, le astrazioni, la follia, la genialità, la miseria, la disperazione di una generazione che solo sbrigativamente, solo sommariamente, chiameremo quella del ’77 bolognese. Di quel movimento, Andrea è stato il cantore, il poeta, l'artista forse più grande...”. Pazienza adorava Hugo Pratt, condividendone, sino in fondo, la rappresentazione del fumetto come letteratura disegnata. Più oscuro e longitudinale, ma altrettanto estroso e svelto “la pazienza ha un limite, Pazienza no!”. Paz, da San Benedetto del Tronto nel 1956, pischello a San Severo; a Pescara frequenta il Liceo artistico: “Del liceo artistico di Pescara mi vengono in mente mille cose: venni sospeso il primo giorno di scuola. Erano estati bellissime, lunghissime, passate con la fila degli ombrelloni, lo strombazzo delle cose pubblicitarie e i baracconi messi in fila con i juke-box”.  Un conto è Andrea Pazienza, un conto i 'pazientisti'. Del resto, un conto è Marx, altro i marxisti. Fosse ancora vivo, che cosa mai l'avrebbe divertito, stimolato o inorridito? Chissà. Una minima risposta ci è offerta da una sua poesia, Amo, del ’77, annata mirabile e pressocché aurorale, dove il mondo di Pazienza è oceano mare di pennarelli, vernici e chine, amore fatuo per se stessi, itsmo ideativo ed enorme soddisfazione che solo la ricerca stilistica sa regalare. Finale in crescendo, inutile dirlo, per Andrea Pazienza, che amava Pratt, Wolinsky e Pichard, Parker e Johnny Hart, Pericoli e Pirella, Chiappori e Quino, Mordillo, le Marlboro e le Ms, i pantaloni vissuti, i cocktail di cioccolato e la CocaCola con Gin. Allo stesso modo, Breton e Duchamp, lo yogurth e Apollinaire, entrambi bruschi, la Die Neue Kunst e Arthur Conan Doyle, il new Dada e la Pop Art, Ezra Pound fascista e Balla, Boccioni, Segantini, Severini, Carrà e Marinetti, Sironi, Pistoletto e Manzoni. Volentieri l’avrebbero ricambiato.


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