giovedì 9 maggio 2013

Morto Andreotti facciamoci (tutti) un serio esame di coscienza


Lorenzo Randolfi


“Ministro della malavita” fu il modo in cui Gaetano Salvemini appellò Giovanni Giolitti nel 1910, volendo denunciare quel misto inscindibile e micidiale di parlamentarismo, trasformismo e clientelismo, che caratterizzò l’Italia postrisorgimentale. Giolitti la incarnava quell’Italia. “Italietta” giolittiana, si dice tuttora. Prima di lui c'era stato Cavour a essere, spesso, additato come faccendiere prestato alla politica. Cavour, però, fu padre della patria, principale artefice dell'Unità; forse l'unico momento della nostra storia in cui fummo protagonisti del nostro destino.

La storia insomma si ripete. L’Italia repubblicana ebbe Giulio Andreotti. Dico “ebbe” perché il mondo politico in cui operò è lontano da noi, anche e soprattutto come stile. Quante ne sono state dette su di lui, a torto o a ragione. Andreotti belzebù, il gobbo malefico, il Talleyrand italiano, Andreotti e la mafia, la P2, la Banda della Magliana. E tante altre fino alle divertenti imitazioni di Oreste Lionello, artista e gran signore, irriverente verso il potere più che verso la persona.

Certo Andreotti ebbe indubbie capacità.
Intelligentissimo, machiavellico, pragmatico, arguto e ironico nel parlare, impenetrabile. Insomma tagliato per il potere. Esperto dei rapporti fra Stato e Chiesa fu, forse, l'unico politico della Prima Repubblica ad aver inteso la vera natura dell’Italia e le conseguenti possibilità di espressione. Personaggio autorevole anche all'estero. Patrocinatore di una politica estera che teneva l'Italia in equilibrio come un funambolo tra Usa, Urss, Vaticano e mondo mediterraneo. Certo, una politica estera mediocre quanto ad aspirazioni e disegni d’ampio respiro, perché così voleva (vuole?) la Storia; condotta da un uomo per nulla mediocre che aveva capito che in quelle condizioni si poteva solo “tirare a campare”. Pragmatico, appunto. Fu statista? Francesco Cossiga una volta picconò: “Giulio è un grande statista. Ma non dell'Italia. Del Vaticano”.

Ora che è morto ci penseranno gli storici a giudicarlo. Sicuramente è stato il simbolo di un'epoca. La sua morte è un occasione per farci un esame di coscienza, per ricordarci l'Italia che siamo, il popolo che siamo. Le parole del grande scrittore Giuseppe Berto, già nell’immediato dopoguerra colpivano nel segno: “Mentre noi pensavamo di essere i protagonisti della vita non solo culturale ma anche politica del Paese, d'essere i facitori della storia nel suo divenire, l'Italia s'era bellamente sistemata sotto i padroni di sempre: burocrazia., polizia, governi e sottogoverni, partiti politici troppo numerosi e troppo avidi di potere e di denaro”.

Nel 1984 in piena epoca andreottiana fu Beppe Niccolai, amico di Berto e prigioniero con lui a Hereford, a scrivere su L'eco della Versilia: “Denunciare i nemici mortali che sono dentro di noi: la partitocrazia che genera professionismo politico contro la militanza; la casta contro l'impegno morale; la burocratizzazione, la corte e i cortigiani; la tendenza a ridurre il partito periferico a una rete di piazzisti del voto e che conduce ad una selezione verticistica della classe dirigente secondo la fedeltà, non alle linee ideali, ma alle persone che hanno il potere”. Berto e Niccolai, due uomini onesti e appassionati che vissero stoicamente, seriamente la politica; due mosche bianche in un Italia di professionisti della politica, di partigiani per convenienza e non per ideali, come ben descriveva De Gregori nella canzone Vecchi amici. Una nazione caduta in un nuovo feudalesimo partitocratico dove per trovare un posto di lavoro, per vincere un concorso, per avere una licenza ma anche per realizzare un ufficio postale o u ospedale bisognava compiere genuflessioni. Un favore in cambio di un voto. E magari anche di un cappone.
Per non parlare di un territorio devastato dalla speculazione edilizia, vera spina dorsale della nostra economia, che dal venditore di calce e mattoni fino al proprietario terriero, passando per assessorini e geometrucoli, tutti ha fatto campare. Campare... tirare avanti... arrangiarsi... sempre la stessa musica.
Nell' immaginario di tutti questa è stata l'Italia degli Andreotti, dei Craxi, dei Gava, degli Sbardella... In cui, sia ben chiaro, erano coinvolti tutti i partiti, nessuno escluso. Ognuno svolgeva la sua parte. Qualcuno dirà che i venti anni più recenti sono gli anni di Berlusconi, di Prodi, di D'Alema, di Bossi. Anni in cui abbiamo avuto un centrodestra oscillante tra “nazionalismo trombonesco” e “liberismo furfantesco”, e una sinistra postcomunista vagamente umanitaria e democratica, svilita, complessata, senza identità e senza guida. Destra e Sinistra, attori di una commedia comunque unitaria e denominata “consociativismo”, leggi immobilismo, cooptazione delle caste e corruzione. La verità è che i Giolitti ,gli Andreotti e tutti gli altri sono soltanto il dito dietro il quale vorremmo nascondere noi stessi.
Siamo infatti sicuri di saperci comportare da cittadini? Di saperla usare nella sostanza questa democrazia? Di avere a cuore il bene comune e non solo il nostro orto? Aveva forse ragione De Gasperi nel maggio del 1946 durante un famoso discorso alla Basilica di Massenzio: “Volete voi instaurare una Repubblica, cioè vi sentite capaci di assumere su di voi tutte le responsabilità, tutta la partecipazione che esige un regime il quale fa dipendere tutto dalla vostra personale decisione espressa con la scheda elettorale?

Se rispondete si vuol dire che prenderete impegno per voi e per i vostri figli di essere più preoccupati della cosa pubblica di quello che non foste fino qui. La Repubblica libera e popolare non nasce da uno Statuto, nasce e matura nella coscienza di ciascuno”. Come ha cantato Fabrizio De André, “anche se vi sentite assolti / siete lo steso coinvolti…”. Un ammonimento che vale per tutti. Nessun capro espiatorio può assolverci.






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