martedì 28 maggio 2013

Quella regata francese nata come sfida tra giornali


Alberto Pezzini


Questo La regina delle regate (titolo in italiano di “Le rois du large” pubblicato nel 2009 per le edizioni Glenat) è il libro pubblicato dalle Edizioni Mare Verticale e scritto da un giornalista economico del mitico Le Figaro, Fabrice Amedeo, su una delle regate più crudeli al mondo, la Figaro Solitaire. La regata più insonne di tutti mari nasce nel 1969 dentro un ristorante parigino vicino alla Porta Maillot.
In quei giorni Jean Michel Barrault e Jean Louis Guillenard collaborano tutti e due al giornale l’Aurore. A Barrault è stata affidata da pochi mesi una rubrica nautica settimanale. È un uomo di mare. Frequenta marinai come Tabarly e sogna di fare il giro del mondo. Guillenard invece è un diportista ed è il responsabile del servizio esteri per l’Aurore. Ha fatto i Glenan, però,la più grande scuola di vela francese, fondata da un gruppo di reduci e avente come base un arcipelago della Bretagna. Quando Barrault e Guillenard si incontrano, la Francia sta vivendo un momento critico. Si è ripresa dalla guerra, dalla occupazione tedesca e ha dovuto anche regolare i conti all’interno con chi aveva collaborato con i boche: c’è stata anche una sorta di guerra civile. Parigi ha bisogno di sognare e di evadere. L’Aurore è un giornale che ha fama di essere reazionario e di venire letto soltanto da nostalgici del passato, da monarchici e da filo-tedeschi. Ci vuole qualcosa per ridargli una spinta in mare. Nasce così la solitaria Figaro (l’Aurore verrà poi rilevato da Le Figaro, di molto più letto): “Ci siamo detti:perchè non creare una competizione per il grande pubblico. Abbiamo subito pensato a una regata in solitario. Per i velisti è molto eccitante, è più duro ed è impossibile incolpare un compagno di aver fatto delle stupidaggini. Per il grande pubblico, è molto efficace:si identifica molto più facilmente con un uomo di mare solo sulla sua barca. È un po’ l’immagine dell’eroe solo di fronte alla furia degli elementi”.


Nasce così una delle solitarie più dure, più aride di sonno e più adrenaliniche della storia della vela. Le tappe sono sempre diverse ma i mari sono quelli compatti e freddi del Nord: la Manica, l’Irlanda, l’Inghilterra, la Bretagna, il golfo di Guascogna e la Spagna. Coste rocciose e frastagliate come seghe. Le tappe devono essere lunghe, al largo: “Bisogna che i velisti vadano in cerca dell’avventura”, spiega Jean Michel Barrault. La lotta deve essere a mani nude. Niente elettronica, niente telefoni satellitari del tipo Iridium, e tutti possono partecipare, i regalanti da diporto come gli skipper più affermati. La filosofia è un concentrato di libertà alla massima potenza:un uomo, una barca, il mare. Vince il migliore. O come ha detto Pietro D’Alì in un’edizione, vince non chi commette meno errori degli altri, semmai chi non ne commette proprio.
Anche i materiali sono ridotti all’osso, per evidenziare questo momento unico di libertà assoluta, incondizionata: niente carbonio e soltanto kevlar. Quei due giornalisti – e Fabrice Amedeo lo dice bene quando identifica la Figaro Solitarie proprio con un’idea da giornalista – avevano fiutato in quella corsa al largo uno strumento con una straordinaria capacità di ipnotizzare i media e le persone.
L’identificazione con un uomo in mare, che lotta contro gli elementi ed il sonno, e fa tutto da solo come compiere centinaia di manovre in perfetta solitudine, resta il vero cuore di quello sport come di ogni altro.
Potersi identificare con uno skipper ben preciso vuol dire toccare la tela stessa della vela senza dimenticare che equivale anche a farne un argomento buono per i media e le persone affamate di qualcosa capace di sfondare a prua piena la noia mortale del quotidiano.
La testa dei due giornalisti in questo fu di diamante. Ebbero un’idea – lo dice bene Amedeo – che oggi sembra ovvia ma che allora aveva in bocca il sale della novità assoluta (siamo negli anni ’70): “I concorrenti avrebbero avuto l’obbligo di comunicare regolarmente la loro posizione, affinché la gara fosse seguita da terra. In modo che i media potessero raccontare i momenti di suspense o i colpi di scena. Quindi, niente più regate, in cui i velisti sparivano oltre l’orizzonte e il pubblico rimaneva senza notizie, fino al loro arrivo”. Pure Tabarly aveva traguardato gli Stati Uniti nel 1964 in quel modo, senza sapere se era primo oppure ultimo.
Il mondo della vela cambiava in modo radicale, con una strambata bestiale pensata, ideata e piazzata in mare aperto da due giornalisti che sognavano ad occhi aperti grazie a una visione strategica lucidissima.
Nasce così una regata con caratteristiche uniche. Ha già visto quaranta edizioni e tutti quelli che vi partecipano diventano buoni per scalare gli oceani intorno al mondo. È una corsa che assomiglia – più di tutte – a una volata all’ultimo respiro. Non si dorme mai ed il sonno è forse uno dei protagonisti assoluti di quei giorni d’estate attesi fino all’ultimo centesimo di secondo da milioni di persone. Nel 1989 è uscito un libro sulla Solitaria intitolato Vinca chi non dorme di Anne Réale e Thierry Vigoureux (“Que le veilleur gagne”).
Fino agli anni ’80 tutti i partecipanti pensavano che per vincere la gara fosse necessario astenersi dal sonno, tenersene lontani come da qualcosa di dannoso. Tutte le tappe finirono per assomigliare a delle veglie contronatura. Olivier Moussy – intervistato dall’Aurore – esclamò: “C’è da diventare pazzi. Finiremo in manicomio”. C’è una fotografia di Kito de Pavant – vincitore della Figaro nel 2002 – che la dice lunga sullo sforzo soprattutto nervoso a cui gli skipper si sottopongono ancora oggi per partecipare alla regata. Che merita tutto l’appellativo di crudele. Lei, la solitaria del Figaro, spreme i suoi marins, i suoi marinai d’acqua salsa, come limoni.
La mancanza di sonno ha peraltro dato la stura anche al fenomeno delle allucinazioni in mare. Spiegato scientificamente grazie alla lotta tra la voglia dolcissima di cadere nelle braccia di Morfeo da una parte e l’ansia di stare svegli tipica di uno skipper in corsa. In quella zona di metà stanno le allucinazioni che comunque derivano scientificamente dalla mancanza cronica di sonno. Oggi la regata solitaria per antonomasia si gioca e si vince invece grazie a una parcellizzazione intelligente dei ritmi sonno – veglia e il modulo tipico del passato per cui non si poteva dormire per niente è stato buttato da parte come un vecchio tangone scassato.
Un altro pericolo collegato alla mancanza di sonno va visto nei cargo, i mercantili che di notte – soprattutto – possono svettarti davanti, dal buio, come giganti d’acciaio capaci di disalberare un Figaro Solo senza neanche fare una piega. Sono camion d’altura alti come grattacieli, anonimi, bui come cavalieri della morte, il cui radar sembra non coprire mai i navigatori solitari. Il terzo e ultimo pericolo di una corsa del genere sta nella sindrome psicotropa che in qualche modo diventa una specie di abito mentale dei partecipanti. Chi partecipa alla Figaro diventa una specie di reduce che ha provato – almeno una volta nella vita – una simbiosi pura con il mare ma soprattutto con uno stato di grazia assoluta, unica. Stare in mare da soli, senza aiuti, contando soltanto su sé stessi, e giocando con la propria anima e la voglia di arrivare davanti agli altri, sembra che si trasformi in uno stato mentale difficile da sfiorare nei giorni normali della vita quotidiana. La Figaro dà adrenalina liquida ed è come una specie di droga naturale, da assumere una volta all’anno, assolutamente difficile da etichettare.
Inoltre va ancora aggiunto che nei giorni della regata – per quanto gli skipper siano soli – si crea tra di loro una specie di patto di mutuo soccorso silenzioso per cui ognuno aiuta gli altri, in qualunque modo, e gli skipper più famosi non disdegnano di soccorrere o semplicemente consigliare anche l’ultima delle matricole. Radio Cocotier – ad esempio – è lo strumento per mezzo del quale tutti i partecipanti si tastano a vicenda il polso durante la gara.
È quel senso di solitudine per cui tutti navigano come un branco di lupi che cacciano insieme a fare della Figaro una straordinaria prova umana. È per questo che i francesi – purtroppo – sono più avanti di noi italiani sul mare. Hanno capito che il mare – come la montagna – incarna una delle vie di fuga dell’uomo moderno. Ancora.
Per questo motivo tentano di forgiare delle prove capaci di sfruttare le uscite di soccorso dalla noia quotidiana, dalla nausea di Sartre sfruttando ciò che Dio ci ha dato, il mare o le montagne.
Andare in mare da soli, dentro una barca, per vincere o meno è un concetto molto spoglio e semplice. Ma noi facciamo fatica a comprenderlo e ci carichiamo di materiali costosissimi per battere il mare manco fosse anche quello un mondo da isolare in settori.
Da una parte la prima classe e dall’altra la seconda e poi la terza , e ancora avanti così. Che la Figaro funzioni lo dimostrano i milioni di persone che la seguono ed il fatto che anche l’ultimo possa vincerla. Non c’è bisogno di avere tanti soldi perché il mare è di tutti. E la semplicità resta un abito dei re.

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