domenica 16 giugno 2013

La fondazione è una questione complessa .... parola di Leonardo


Marina Maugeri

Correva l’anno 1788, quando Goethe visitò «Il Cenacolo di Leonardo» e l’ammirazione fu tale che tornato in patria il sommo letterato aggiunse allo stupore la “vena dell’erudita”, dedicando un’opera intera al dipinto milanese del maestro di Vinci. Il capolavoro divenne quasi un sogno estetico, fatto del substrato di pigmenti decoesi che rimandavano la visione di una materia instabile e caduca, ormai “cadavere” agli occhi dell’illustre visitatore. La suggestione, quasi decadente, minimizzava ogni risvolto religioso e, cedendo allo sforzo psicologico di comprendere il dramma umano, escludeva ogni riferimento sacramentale, presente invece nella critica precedente e indissolubile dalla raffigurazione. Come noto, il degrado della pittura era dovuto al fatto che Leonardo amava sperimentare i colori stesi a secco, mescolandoli con l’olio come medium per ottenere effetti di trasparenza che erano congeniali al suo estro, preferendoli di gran lunga all’uso antico del “buon fresco” che assicura un’eccezionale durevolezza delle superfici pittoriche, ma si deve realizzare con tocchi certi sull’intonaco ancora bagnato.
Spesso i romantici e gli illuministi, sospinti dall’entusiasmo per la grandezza dell’arte del passato, cercarono di spiegare la cultura attraverso l’estetica degli oggetti, offrendo gli “oggetti” a un’Europa che già conosceva il gusto dell’antichità, ma che fino a quel momento aveva ritenuto che fosse la storia a doversi inchinare davanti alle “cose” antiche e non viceversa. L’estetica romantica impose, perciò, alla società del tempo un’immagine del Rinascimento su cui aveva proiettato eccessi e piaceri dettati dai propri impulsi, dal disagio verso la morale borghese, cui contrappose il “condottiero”cinquecentesco, facendone un eroe immorale sprofondato nel lusso e nella cupidigia, che promanava una demoniaca volontà di potenza, tinta con l’oro e la porpora dei grandi ritratti rinascimentali.


Ma il Rinascimento era stato tutto tranne che romantico e non differì affatto, quanto a durezza e spirito pratico, dall’epoca da cui era scaturito. Anche in campo artistico si era posto in connessione con la cristianità medioevale, senza fratture dal Medioevo ai tempi nuovi, i quali sorsero proprio dalle immense energie suscitate dalla spiritualità e dalla cultura cristiane. L’eclettismo, così spesso associato alla specificità del genio rinascimentale, risiedeva nell’attitudine al “mestiere”che era stata una virtù spiccatamente medioevale, ereditata dal Quattrocento e anche l’ascesa degli artisti a livello di poeti e dotti, attribuita alla loro alleanza con gli umanisti, era prevalentemente dettata dall’espansione della ricchezza nelle città e non fu un fenomeno osteggiato dalle antiche corporazioni medioevali, mentre gli artisti inseguirono sempre un’autonomia di pensiero, conquistando una fama e un prestigio di gran lunga superiore agli umanisti, proprio grazie a quest’impulso.
Quando Leonardo giunse a Milano, lasciando Firenze, mosse verso questo obiettivo, ponendosi in aperta rottura con la cerchia neo-platonica che si stringeva intorno a Lorenzo, il quale osteggiando ogni forma di attività politica nella città non poteva che rallegrarsi del “vero” filosofo che moriva alle cose terrene, innalzandosi esclusivamente al mondo astrattamente sublime delle idee. Leonardo amava, invece, talmente l’esperienza concreta della realtà da impastare i colori, confondendovi dentro la sua stessa persona e riteneva la pittura, muta solo per difetto, superiore alla poesia a cui, con uguale diritto, si sarebbe potuto rimproverare di essere cieca. Niente avrebbe potuto perciò segnarlo più di ”eresia” agli occhi di quei neoplatonici che in fondo ambivano sostituirsi alla Chiesa e all’etica del mondo cavalleresco, promuovendo l’arte, ma imponendo le vedute di un’élite illuminata, che intendeva surrogare gli ideali spirituali e quelli improntati all’eroismo e all’umanità cavallereschi, con i nuovi rapporti sociali ispirati ai concetti di signorilità e buona educazione. Fu per questo motivo di fondo che tutti i grandi artisti del Rinascimento, se da un lato godettero della protezione degli umanisti con i quali regolavano i loro rapporti alle necessità di produzione, dall’altro aspirarono sempre a una ricerca espressiva indipendente, ingaggiando nei confronti di queste elite una tenzone che li vide infine vincenti.
L’arrivo del maestro di Vinci nel contesto milanese è intriso, dunque, di questi fermenti e segna l’amaro passaggio personale che si consuma con l’abbandono della Città dove Leonardo si era formato, ma da dove il suo genio creativo era stato progressivamente emarginato. Leonardo che non avrebbe mai nemmeno riconosciuto “laudabile”un artista“ se costui non si fosse fatto “universale”, nel Cenacolo suggella una sua visione, ammettendo, infatti, una chiara identificazione con la propria opera.


“Finalmente, visitatore carissimo, quelli che scorgi son lacerti di me, fattomi, da fiorentino, milanese”. Così, in modo lapidario il Maestro presentava se stesso e la“parete” che conduceva al centro del Mistero di tutta la dottrina cristiana, quello Eucaristico.
Il soggetto stesso del Cenacolo presuppone una“scena” radicalmente storica e trascendente che racchiude un senso sul piano cosmico propria al cristianesimo, che non è una filosofia astratta, né un moralismo, ma poggia sulla Rivelazione di un mistero che si fa conoscere con un’esperienza reale, un fatto realmente accaduto. L’opera osservata inizialmente dal visitatore finisce perciò per scrutarlo, interrogandolo nelle sue più buie profondità, perché se il colore del Cenacolo, appare notevolmente abraso, la composizione mantiene invece intatta la vivezza e la forza espressiva della visione rinascimentale che le deriva dall’unità degli elementi figurativi che si colgono in tutte le parti, spostandosi simultaneamente sia nel tempo che nello spazio. Artista del limite e dell’illimitato, Leonardo concepisce il passaggio della Pasqua come un’immagine che immerge fisicamente il visitatore in un senso scritturale “rivelatore”che non vuole essere affatto rassicurante, perché la Sapienza che muove il suo pennello porta dentro uno scompiglio, percepito perfino dalla critica moderna come un’inquietudine che esprime tutto il senso profondamente anti-romantico della visione rinascimentale e leonardesca. L’opera di Leonardo si lega perciò alla bellezza di un’intuizione profonda che risuona in “un mistero destinato a durare finché durerà l’uomo” e che dice del “carattere unico ed eccezionale della storia divina”, che si riscontra nella storia umana, proprio perché la storia umana ha le sue radici nel divino e gli uomini hanno questo altissimo lignaggio scritto come verità nel loro cuore.
E l’immagine di Leonardo vuole comunicare proprio questa Verità, rivelandola a sua volta al “visitatore”. Veritas in greco è Aletheia, letteralmente il non oblio, le cose che sono rivelate proprio perché non sono più nascoste, il non segreto. E’ la realtà autentica perciò che si rivela, opponendosi a quella apparente, come Aletheia si oppone a Lethe, il fiume infernale dell’oblio che fa scomparire le tracce nella sua corrente e le nasconde con il passaggio delle acque, producendo sonno. Aletheia scorre perciò in una direzione opposta di significato. Le cose nascoste portano al sonno e allo stordimento, le cose che invece non sono più nascoste risvegliano. Aletheia rivela ciò che è stato nascosto sul fondale di un fiume torbido, sul fondo dello scorrere del tempo fin dall’origine del mondo. Che cosa sono queste cose nascoste?


Il “Cenacolo” dà immagine all’episodio dei quattro Vangeli, colto nell’istante spaziale e cosmico in cui Gesù pronuncia la grave frase che riguarda Giuda e che getta l’intera comunità degli apostoli in un immediato stato di sgomento. Ma la raffigurazione di quest’istante ha una potenza che si dilata nel tempo, al punto da contenere già il dramma successivo, diviene un istante che contiene il tutto, quello che è e ciò che deve ancora accadere.
Leonardo inventa una situazione innovativa rispetto all’iconografia con cui la pittura si era cimentata su questo stesso tema, impostando la figura di Gesù al centro della scena e dipingendolo di dimensione sensibilmente maggiori rispetto agli apostoli, facendo partire da questo punto i raggi prospettici che si lanciano all’esterno nella direzione degli altri personaggi, rimarcando in tal modo l’assoluta regalità di Cristo. Gesù è l’Uno isolato, insigne e maestoso, è il Sovrano, da cui emana il silenzio, l’angoscia e l’amore, simultaneamente presenti sul volto nobile dagli occhi lievemente abbassati. Gesù entra con la sua angoscia e la sua umanità nella propria paura per spezzare la morte, ma il “male” non ha alcuna presa sul suo volto da cui non traspare furore, solo l’intensità trasparente di un Amore invincibile. L’angoscia del nulla è spesso toccata dalla visione leonardesca che lascia intravvedere risposte abissali, in cui le sue debolezze e le sue qualità umane si fondono, sottraendo la sua personalità ai pericolosi risvolti dell’idolatria per il genio.
Il cristianesimo non è una religione che si occupa dell’angoscia per spiccata sensibilità umanitaria o come problematica psicologica, né s’identifica in un passaggio di stato che prevede l’annullamento catartico della sofferenza. E’ la religione del Logos incarnato, del Dio che facendosi Uomo ha provato l’angoscia che ciascuno prova nei suoi più tremendi significati, un Dio che la rivela e la assume su di sé per amore dell’uomo. Il tema del dipinto leonardesco rappresenta perciò concretamente il paradosso dell’Uno e del Molteplice, dell’Uno contro tutti, dei poli opposti che si escludono, laddove l’Uno però non è un’entità metafisica o numericamente astratta, ma è una Persona, è il Dio incarnato, la vittima innocente che rivela il vero volto di Dio, nel momento stesso in cui appare il vero volto dell’uomo. Il nulla e la bellezza sono opposti cristianamente tenuti insieme, perché se la Croce è un punto di fallimento dove i sogni interrompono la loro corsa, il nulla è già parte della Resurrezione e annuncia il tempo che precede la pietra che rotola via, ciò che segna il momento in cui accade qualcosa di umanamente inconcepibile: Dio vince il nulla.
La bellezza, dunque, è la trascendenza stessa che si fa visibile nel fenomeno e oltre l’apparenza, è il segreto che costituisce la trama della realtà autentica dell’uomo che si rende presente, riassumendosi tutta nel volto di Cristo, il vero volto di Dio, che è l’Amore di Dio, cui l’uomo somiglia.
Leonardo riesce a rappresentare qualcosa di irrappresentabile che solo la teologia potrebbe adeguatamente commentare, la sua opera dà conto dell’esperienza simbolica e storica che è la vera fondazione di Dio, evento che nel Cenacolo si mostra anche visivamente con la creazione dell’uomo nuovo che il mistero sacramentale sottende.
L’esperienza artistica del Maestro di Vinci, in particolare quella della pittura, è connotata dalla concretezza del simbolo che fa della sua arte un’opera quasi miracolosa, perciò superiore alla poesia. Come pittore Leonardo manifesta l’atteggiamento religioso del suo spirito artistico, aspira e sente d’essere “il signore d’ogni sorte di gente e di tutte le cose”che si riflette nello specchio della riproduzione del mondo ed è, perciò, anche antropologo e filosofo. Quando dispone i discepoli in gruppi di tre, immagina di raffigurare dei campioni a tre teste in relazione fra loro, descrivendo con lucidità una comunità che converge nel suo insieme nella crisi, ciascuno dei presenti con il proprio bagaglio psicologico, simbolicamente richiamato da oggetti o gesti, che sarà scardinato da quanto accadrà successivamente, quando ognuno dei presenti si scoprirà diverso da ciò che credeva d’essere. Da qui, gli oggetti, i volti inquietanti, le espressioni sconvolgenti, tutto un apparato simbolico che conduce al centro dello scompiglio, la Croce, luogo in cui gli apostoli sono sospinti e dove vivranno l’esperienza del fallimento, diventando al tempo stesso inconsapevolmente parte del piano di Redenzione di Dio.
Parlare dell’immagine di Dio, del Logos incarnato, non è perciò possibile senza parlare anche degli uomini. La figura di Giuda, il cui volto è stato purtroppo alterato nella fisiognomica da inopportuni rifacimenti, si dissimula nel terzetto dove Leonardo colloca anche Pietro e Giovanni. Giuda attesta inequivocabilmente la presenza del “male”, il peccato da cui non riuscirà più a svincolarsi e che gli fa ancora impugnare la bisaccia gonfia di denaro, segno del “possesso” e del prezzo del riscatto con cui le Autorità religiose hanno barattato la vita di “uno in cambio della salvezza dei molti,” mettendo in moto il processo a Gesù che dovrebbe attuarsi come la fatalità di un meccanismo nascosto.
L’apostolo è solo una mera pedina di quel “male”che Gesù sta denunciando alla luce del sole. Il sacrificio, simboleggiato dal piatto sulla mensa davanti a Gesù, non è, infatti, mai riconoscibile agli uomini, i quali lo percepiscono solo come un meccanismo naturale, nascosto nel molteplice, negli insiemi, nei gruppi, nelle classi, dissimulato nelle istituzioni sociali, misconosciuto negli ordinamenti in cui la comunità tenta di mimetizzarlo come fosse un funzionamento naturale, da cui trarre un effettivo vantaggio “economico”.
Giuda è in relazione con gli altri, partecipa di quello stesso turbamento che scuote gli apostoli e che fa tutt’uno con la turba che si assieperà davanti a Pilato, manifestando la perturbazione che sradicherà la Ragione, il Diritto, le istituzioni, l’amicizia, le relazioni, gli affetti, lasciando gli uomini privi della loro fondazione violenta e scatenando la loro stessa violenza sul capro espiatorio. Turba significa letteralmente non avere pace, non conoscere tregua. Di lì a poco, il disordine avvolgerà tutta la terra, che precipiterà nel buio dell’eclissi mentre una grande tenebra avvolgerà tutti i presenti. Tutti, infatti, saranno risucchiato in questa turbolenza il popolo, Pilato, Pietro, Giuda, tutti ad eccezione dell’imputato.
L’annuncio di Gesù getta nello scompiglio nella stessa misura in cui conduce l’uomo al centro dei suoi inganni, consentendo che il mondo fondato sull’odio non esista più. Leonardo nel sottolineare la sovranità di Cristo conferma la vera origine della Storia, la sua sovranità di Gesù, infatti, non è solo l’Autorità che si esercita in uno stato ordinario, la sua regalità ha qualcosa di eccezionale, é il miracolo che rivela la vera origine del potere e che si manifesta compiutamente con la potenza della Resurrezione e la rigenerazione dello Spirito.
La geometria del Cenacolo dice di Colui che prima ancora dell’ultimo commiato aveva già affermato senza mezze misure “chi non è con me, è contro di me” e che ora decide gli eventi, attuando un sistematico rovesciamento dei ruoli, a cominciare dal suo stesso arresto nel Getzemani, quando si assiste a una scena quasi grottesca e nonostante Giuda conosca bene il suo Maestro, è Gesù stesso a farsi avanti autodenunciandosi, mentre i militi accorsi in gran numero armati di lampade e spade per catturarlo indietreggiano come impauriti, cadendo perfino a terra. I catturatori diventano i catturati da un Uomo disarmato che non oppone alcuna resistenza. In questo modo Gesù ribadirà a Giuda quello che sta annunciando proprio nel Cenacolo, che non è la paura a decidere la storia. Le parti si rovesciano, il meccanismo dell’accusa s’inceppa, perché il capovolgimento della prospettiva di una rappresentazione umanamente logica rivela una realtà più profonda dell’apparenza, destinata a sconvolgere l’assetto del mondo. Ecco dunque, che Leonardo fa impugnare a Pietro il coltello con cui il discepolo entrerà in azione, recidendo l’orecchio di un esponente della casta sacerdotale, sentendosi perciò un audace difensore del suo Maestro per poi, di lì a breve, scaldarsi allo stesso fuoco dei soldati del sommo sacerdote, dove sarà costretto a vedere se stesso come un discepolo che fa gruppo con gli aguzzini di Gesù. Così, non diversamente da Giuda, dopo il canto del gallo anche Pietro riceverà la sua sentenza: non è il discepolo coraggioso che credeva di essere impugnando l’arma, ma solo un uomo ridimensionato.


Solo dopo queste premesse, il processo prenderà il via e si assisterà ancora al clamoroso rovesciamento dei ruoli. Dopo un lungo silenzio, Gesù risponderà alle domande dell’interrogatorio, ma solo per suggerire di andare ad interrogare coloro che lo hanno ascoltato nel corso della sua predicazione. Ancora un paradosso, l’imputato consiglia agli inquirenti come condurre l’istruttoria.
Nel processo che ha portato alla più infame delle condanne avverrà una cosa assurda, tutti gli accusatori si comporteranno e parleranno come dei veri colpevoli, mentre l’imputato accusato di blasfemia, sarà l’unico innocente. Tutti gli accusatori mostreranno la loro colpevolezza, ma condanneranno ugualmente l’imputato, mettendo in scena un gigantesco inganno che viene svelato. I Vangeli svelano un meccanismo che sfugge alle stesse antropologie antiche e moderne, la frenesia di un contagio di tipo mimetico, secondo il quale le stesse comunità al culmine di una crisi, ristabiliscono l’ordine interno mediante la polarizzazione violenta su una vittima, che appartenendo al sacro lo espelle con la sua stessa espulsione, un pharmakos, che consente l’uscita dalla crisi.
Della triade composta da Giuda, Pietro e Giovanni, quest’ultimo assume nella visione leonardesca la fisionomia gentile che attiene a tutta la tradizione pittorica precedente e che discende dall’intensa riflessione spirituale che caratterizza il quarto Vangelo e dalla capacità dell’apostolo di ascoltare il cuore di Gesù. Giovanni è l’unico a non essere individuato attraverso oggetti simbolici che ne descrivono un’azione precisa ed è anche il solo cui Leonardo non attribuisca un’espressione “scandalizzata”. La sua soavità è anzi sottolineata dalle mani congiunte sul tavolo e da una mancanza di movimento che dice della sua presenza sotto la Croce, quando Gesù prima di esalare il suo Spirito, affiderà il “discepolo più amato”, l’unico che non subirà il martirio, a Maria. «Donna, ecco tuo figlio; figlio, ecco tua madre». “Al momento di morire, Cristo dice la procreazione; parla di una donna e di un figlio, di una madre e di suo figlio. Al momento di morire, annuncia una nascita; recita di nuovo la scena di Natale.”
La fine non giace più davanti, ma dietro di noi. Il sepolcro non è più un punto di arrivo, ma un punto di partenza. La vita dell’uomo non è più in funzione della tomba, non esistono solo vicoli ciechi da ripetere, ma soglie da oltrepassare. Ecco il primo significato, storico e umanissimo della Resurrezione. Dimenticate un corpo morto, la morte ha mollato la presa. La raffigurazione di Giovanni conduce nel cuore del significato antropologico che la pittura lascia intravvedere. Il velo del Tempio che non ha più funzione, il vero volto di Dio è amore. Il centurione che nel buio vede se stesso per quello che è e testimonia “Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio.”
Da questo punto in poi nella cultura umana il congegno espiatorio cessa di funzionare in modo misconosciuto, coperto dall’opacità del mito. Il meccanismo sacrificale del religioso arcaico, utilizzato per preservare la collettività dalla sua instabilità s’inceppa. La potestà che Cristo viene a portare è un potere di vita che supera la legge e spezza la tavola di pietra della morte. L’effetto della Resurrezione è questo potere che non ha bisogno di inchiodare qualcuno alla Croce, se non la violenza stessa con cui tutti gli uomini imitano i rispettivi desideri. Se le religioni arcaiche pongono drammaticamente il punto zero di ogni inizio, riconducendolo ad una genesi violenta e distruttiva, dove collocano la fondazione umana, “omicida fin dall’origine”, la fondazione violenta che sorge dalla patina oscura del mito e dall’ignoranza del sacro è tutt’altro che respinta dalla simbologia cristiana, ma è anzi rivelata in piena luce, mostrandola per quello che è, senza giustificazione del male e della violenza, in un modo che Leonardo miracolosamente illumina nella sapienza trasparente del dipinto. Le formidabili risonanze antropologiche del “Cenacolo” sono evidenti non appena si smette di leggere i Vangeli alla luce dei miti. La fondazione violenta, reinterpretata a livello simbolico nella Croce, è il luogo che Cristo illumina, spezzando la morte ed entrando in una relazione diretta con l’uomo, per portarlo fuori dalla Paura e mostrargli il potere del suo cuore.
In questa comprensione profondamente cristiana risiede, almeno in parte, la reale motivazione per cui i geni del Rinascimento si sforzarono di dare compiutezza alla riflessione artistica, riassumendo nella cultura figurativa della loro epoca anche la mitologia pagana, portando alla luce ciò che di autenticamente divino vi era nel mito, alla luce della storia della Rivelazione che libera il divino dall’entità oscura che è la visione di una cosa e la Paura di quella cosa. I miti tornarono a essere rappresentati non quindi perché gli artisti del Rinascimento volessero in modo subdolo riappropriarsi della mitologia in contestazione a Cristo, ma esattamente per il motivo opposto, in quanto sapevano, o per lo meno intuivano, la contrapposizione dei miti pagani e comprendevano che la religione della Croce, demistificando l’intera mitologia e negando il valore positivo alla violenza a giustificazione di un male che espelle il “Male”, andava nel senso diametralmente opposto ai miti, affrancando il sacro dalla dipendenza violenta, al punto che al termine sacro il cristianesimo attribuisce una valenza di inviolabilità dell’uomo, il quale solo a partire da Cristo non é più sacrificabile.
La Croce perciò è gloriosa, perché libera dall’illusione mitica che vuole la violenza un’azione lodevole e sacra in quanto utile alla comunità. Mentre tutti i miti fondano l’ordine del mondo su una violenza dissimulata e sacralizzata che deve ripetersi e perciò devono cancellarne le tracce, i Vangeli agiscono esattamente all’opposto e mettono in luce la violenza nascosta “fin dalla fondazione del mondo” per non doverla ripetere più e per non cancellare la storia dell’uomo, ma farne memoriale.
Avverte, tuttavia, Rènè Girard, antropologo e filosofo che ha dedicato tutta la sua opera allo studio del sacro: “Il capro espiatorio offriva una chiusura sistemica che permetteva al gruppo sociale di rimettersi in funzione, di ricominciare ancora una volta il ciclo e di continuare a ignorare il vero significato di quella stessa chiusura sistemica, vale a dire il credere alla colpevolezza del male assoluto mondato. Tutto questo non può più esistere dopo la rivelazione cristiana. Il sistema non può più essere chiuso da alcun tipo di soluzione farmacologica e il virus della violenza mimetica ha la possibilità di diffondersi liberamente […]. La Croce ha distrutto per sempre il potere catartico del meccanismo del capro espiatorio....” Per Girard, l’assimilazione della rivelazione cristiana, dunque, ha fatto compiere al religioso arcaico un cammino progressivo di affrancamento dell’umanità dalla sua origine cruenta, “omicida fino da principio”, conversione che continua ad avere effetti nella cultura, al di là di tempi come i nostri nei quali l’ateismo e l’incredulità si accaniscono non a caso contro la divinità personale, esercitandosi in modo particolare sul “Cenacolo” con operazioni pseudo-culturali di massa.
Di conseguenza, aggiunge Girard, il Vangelo offre una prospettiva, quella che le ideologie del Novecento non permettevano: la libertà di scelta. Esistono perciò due opzioni, che il Vangelo permette, imitare Cristo, abbandonando la “violenza mimetica”, oppure intraprendere la strada dell’autodistruzione. Il sentimento apocalittico oggi così diffuso si fonda proprio su quest’ultimo rischio. Ma aggiunge ancora l’autore di Portando Clausewitz all’estremo: “L’apocalisse non è la fine del mondo, ma l’annuncio di una speranza; e la speranza è possibile solo per chi osa pensare i pericoli del momento, per chi si oppone ai nichilisti, a quanti negano la verità, ai governi, alle banche, agli strateghi che pretendono di salvarci mentre ci precipitano nel caos”.


Nessun commento:

Posta un commento