lunedì 10 giugno 2013

La passione di Sorrentino per Céline


Federico Magi

Paolo Sorrentino non è il primo e non sarà certo l’ultimo, tra gli artisti d’ogni genere ed epoca, a voler cantare Roma nella sua ambigua e cocente bellezza e nelle sue contraddizioni che sembrano ancorarla a uno spazio che da sempre sopravvive e che anzi si rigenera, da che storia è storia, in un territorio immaginato al di là del bene e del male. Col suo ultimo film, La grande bellezza, ardua è stata dunque l’impresa di seguire, di là dal tempo passato e consumato dai decenni di distanza trascorsi nel secolo breve e nel nuovo millennio, le tracce del capolavoro di Federico Fellini tanto amato e celebrato, La dolce vita, cui Sorrentino fa evidente ed esplicito riferimento sia nella struttura che negli omaggi più o meno diretti, e in qualche modo allo stesso Roma, successiva opera del maestro riminese che chiudeva il cerchio degli omaggi cinematografici del quattro volte premio Oscar alla città eterna.
Per Sorrentino Roma è infatti La grande bellezza, in un’accezione davvero ampia, dai significati plurimi e dai molteplici risvolti pratici ed emotivi per chi sceglie o si trova a viverla: una città che attrae come una calamita e respinge come il più orribile mostro metamorfico, qualora le sorti dei suoi noti e meno noti protagonisti non siano più quelle sognate o sperate. Ne La grande bellezza, sesto lungometraggio dell’artista partenopeo, Roma si fa paradigma dell’odierna italica decadenza, attraverso lo sguardo disincantato del suo novello Virgilio sceso agli inferi, il giornalista e scrittore (un solo “mitico” libro all’attivo, ma tanto basta) Jep Gambardella, re della mondanità un po’ annoiata e decadente degli ex sessantottini arricchiti, delle starlette senza talento, dei nobili decaduti, e di tutto quel variegato mondo dello spettacolo che sopravvive a se stesso e ai suoi stanchi riti nelle lunghe notti all’ombra del Colosseo (dove egli stesso vive, in un attico con vista meravigliosa). Una Roma che meglio non poteva essere introdotta che dalle parole che aprono uno dei capolavori più caustici e pessimisti della letteratura del Novecento: “Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere chi occhi…”.  Le parole d’apertura di Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline sono mutuate da Sorrentino per significare il fascinoso inganno e al contempo la potenza evocativa di un viaggio nell’illusione puramente immaginifico, che consuma anche i pochi fortunati che hanno creduto di domarla, questa (città) intensa bellezza, finanche di controllarla, come appunto Jep, arrivato a 65 anni ma stanco e annoiato dal circo rutilante che vive ininterrottamente da quando ragazzo si trasferì nella capitale. Ha ammesso Sorrentino a colloquio con lo scrittore Alessandro Piperno: “Sai perché adoro Céline? Perché lui ha sempre la battuta definitiva. E questo nella vita avviene di rado…”.


D’altronde, l’umanità  con cui viene a contatto quotidianamente Jep, ricco stanco e in vena di bilanci esistenziali, è descritta da Sorrentino senza soffermarsi troppo sulle psicologie, tracciando più che altro personaggi archetipici facilmente riconoscibili e delineati dalle loro “battute”. Nessuno o quasi si salva, in questa grottesca discesa agli inferi, nella quale Roma non è solo spettatrice immobile, ma partecipa in qualche modo, dall’alto della sua irraggiungibile bellezza, alla decadenza e al crollo di un mondo prevalentemente alto borghese che sta a rappresentare l’emblema di un paese intero in progressivo disfacimento morale. Nel condurre lo spettatore in questo viaggio lugubre, mortifero e a tratti decisamente disturbante di quasi due ore e mezza, Sorrentino si conferma fedele ai suoi tratti cinematografici distintivi, scegliendo di privilegiare la magniloquenza dell’immagine, affidata a una splendida fotografia di Luca Bigazzi e a una messa in scena tanto opulenta quanto il contesto che descrive. La macchina da presa spazia ovunque con estrema disinvoltura, non negandosi traiettorie ardite per il nostro cinema sovente monodimensionale, con improvvisi avvicinamenti sui volti e soggettive degne del miglior thriller argentiano. Anche gli attori di contorno a Toni Servillo sono tutti convincenti (da Verdone alla Ferilli, a Iaia Forte, Galatea Ranzi e il solito ottimo Herlitzka), ed alcuni talmente azzeccati nei loro ruoli quanto tragicamente emblematici (lampante è il caso del personaggio vagamente autobiografico e palesemente ingrato interpretato da una coraggiosa Serena Grandi, in qualche modo simbolo del disfacimento fisico e morale). Ma come la grande bellezza che vuol descrivere anche il film sembra contagiato da mali affini, ovvero sia un’ostentata opulenza cui manca un centro di gravità, ovvero la scrittura. Se nelle intenzioni, e in parte anche nella resa estetica e contenutistica, La grande bellezza è un film che si eleva decisamente dalla media del cinema nostrano (da segnalare anche alcuni passaggi lirici di notevole livello), è ancora una volta nella sceneggiatura che Sorrentino (e con lui il co-sceneggiatore Umberto Cantarello) mostra il suo limite più macroscopico, già riscontrato in tutte le opere precedenti. La storia in effetti è troppo sfilacciata, e se a sorreggerla non ci fosse un grandissimo Toni Servillo, vero plusvalore artistico a disposizione di Sorrentino, qui come ne Il divo e ne Le conseguenze dell’amore, i difetti evidenti del film sarebbero venuti ancora più a galla. Detto ciò, non si può negare nemmeno che il regista napoletano avesse un difficile contraltare artistico di riferimento come La dolce vita, e che il coraggio e l’ambizione di voler proporre un’opera che vivesse anche di riconoscibili contaminazioni e citazioni letterarie (Céline, Proust, Flaiano, Turgenev), ancorché a volte un po’ostentate, gli va riconosciuto. Come gli va riconosciuta la disposizione a immaginare un cinema che volta alto e che scruta i mali conclamati del Bel Paese da una prospettiva, a differenza di altri meno affermati artisti nostrani, più morale che moralistica. E il citare Céline, a questo proposito, non sembra sia affatto un caso - seguendo il filo rosso immaginato da Sorrentino, in cui è centrale il tema del viaggio - considerando cosa ha rappresentato Céline per i benpensanti del secolo scorso, anche quelli ritenuti illuminati e politicamente corretti. Certo Céline è in parte stato “sdoganato” dagli artisti e i lettori privi di pregiudizi, perché proprio il suo ferocissimo e disilluso Viaggio alla termine della notte, scritto ottanta anni fa in un mondo a cavallo tra due guerre, è un’opera straordinariamente profetica e sostanzialmente atemporale nel descrivere l’anima umana – in una realtà-modernità di rapporti mercificati e valori ribaltati in cui apparenza e realtà sono spesso sovrapposti – e le sue profondissime miserie, adatto a spiegare la decadenza ancora oggi e soprattutto oggi, quelle macerie morali che sopravvivono come le braci sotto la cenere del fuoco fatuo e ingannevole che si nasconde dietro la fuggevolezza dell’incanto. “Basta chiudere gli occhi”, scriveva Céline, proprio “dall’altra parte della vita”.



Nessun commento:

Posta un commento