venerdì 21 giugno 2013

Stoker: il vampirismo come metafora


Federico Magi

Abbandonati dopo tre film violenti, scioccanti e perversamente affascinanti i sentieri dell’irrinunciabile vendetta, e dopo Thirst, inconsueto thriller sentimentale e vampiresco tratto liberamente da Zola, l’ispirato regista sudcoreano Park Chan-wook si trasferisce artisticamente nella landa hollywoodiana per immaginare il suo primo film (teoricamente) mainstream. Grazie a una interessante sceneggiatura di Wentworth Miller ecco che viene fuori Stoker, thriller psicologico dalle venature orrorifiche e omaggio indiretto, ma dal titolo quanto mai emblematico, al capolavoro gotico Dracula, scritto come noto (fuori dall’ambito letterario anche grazie al film di Francis Ford Coppola, relativamente recente) dallo scrittore irlandese Bram Stoker. Ancora una volta Park Chan-wook sceglie di avere a che fare coi vampiri? Sarà forse un nuovo debito di sangue, verso il suo pubblico? Niente Grand Guignol e un ancor meno consueto omaggio a suggestioni dai denti aguzzi, perché se non i vampiri classici, il vampirismo inteso come tara ereditaria, come forma di disadattamento e male esistenziale c’entra eccome nella nuova sorprendente opera del regista sudcoreano. C’entra come c’entra poco il sangue esibito, sempre importante come elemento simbolico ma celato sovente alla vista fuori dalla spirale dell’odio e della vendetta delle opere precedenti.
Di là dal contesto ospitante e dal genere, Stoker è più che altro una storia di formazione, certo inusuale, tenebrosa e dai risvolti inquietanti, che vede protagonista una ragazza appena diciottenne, in un contesto extra cittadino ma alto borghese, la quale prende progressivamente piena coscienza di sé e del suo tormentato mondo interiore. Fino a conoscersi, comprendersi, accettarsi e scegliere la libertà. Anche se, ciò che scoprirà sarà agghiacciante. Protagonista della vicenda è India Stoker (Mia Wasikowska), ragazza eccentrica e solitaria, alla quale, proprio nel giorno del suo diciottesimo compleanno, arriva la terribile notizia della morte del padre in un incidente d’auto dai risvolti poco chiari. Unica figlia di una famiglia facoltosa, India aveva un rapporto privilegiato col padre (Dermot Mulroney), con il quale si allontanava intere giornate per andare a caccia. La madre (Nicole Kidman) è sempre stata esclusa da questo intenso rapporto a due, tanto da distaccarsi affettivamente sia dal marito che dalla figlia. Il giorno del funerale, spunta praticamente dal nulla lo zio (Matthew Goode) di India, fratello del papà, il quale sembra attratto in modo morboso dalla ragazza. Di lui si sa poco o nulla, se non che ha viaggiato ininterrottamente per lavoro in giro per il mondo. Lo zio si trasferisce in casa Stoker, e India comincia a provare sensazioni ambivalenti verso di lui, che la spingono a superare alcuni timori adolescenziali per provare in qualche modo a sbocciare e diventare adulta. Ma l’uomo porta con sé un segreto terrificante, che svelerà anche la natura della ragazza la quale, una volta compresi gli eventi e accettati i mutamenti improvvisi della sua vita recente, sceglierà di assecondare la propria oscura alterità decidendo di affrontare e vincere i suoi stessi fantasmi. Fino all’epilogo, sanguinoso e inatteso. 


Parabola iniziatica dalle tinte nerissime, Stoker è un film riuscito e piacevolmente sorprendente, sia nella struttura a pathos crescente che nella messa in scena raffinata ed elegante. Lontano dalle ossessioni di casa, Park Chan-wook dimostra tutta la sua duttilità registica, costruendo un thriller dalle suggestioni hitchcockiane ma dai risvolti orrorifici e metafisici, in cui la forma conta quanto la sostanza se analizziamo una struttura dai ritmi sapientemente compassati nella prima parte, cui fanno seguito una serie di colpi di scena dosati peraltro con inconsueta misura (a chi è rimasto nella memoria il trittico in cui centrale è il bellissimo e doloroso Old Boy), sia stilistica che narrativa. Molto è dovuto alla convincente e originale sceneggiatura, ma il regista coreano ci mette del suo per valorizzare un ingresso nel cinema totalmente internazionalizzato che decide di puntare più sui contenuti che sullo spettacolo fine a sé stesso. Park Chan-wook asseconda e poi amplifica una storia tendenzialmente intimista con scelte tecnico-artistiche di notevole fattura, attraverso una regia che ha studiato il thriller classico ma che decide di farne propria la componente prettamente emotiva, grazie a movimenti di macchina che scelgono di mostrarci i primi piani dei volti da angolature stranianti che privilegiano l’inquietudine, e utilizzando la scenografia dal gusto retrò facendo leva su luci e colori che fanno convintamente il verso ai grandi gotici del secolo scorso. La riuscita dell’opera è affidata anche alla brillante prova della protagonista, la giovane attrice australiana Mia Wasikowska, già apprezzata - tra i tanti film a cui ha preso parte nell’ultimo triennio - nei panni dell’Alice di Tim Burton, e ne L’amore che resta che resta di Gus Van Sant, che ruba decisamente la scena (anche esteticamente, nonostante il curioso, datato e castigatissimo abbigliamento) sia a una Kidman oramai fin troppo deformata dalla troppa chirurgia estetica cui s’è sottoposta, sia al co-protagonista Matthew Goode, che asseconda il ruolo dello zio misterioso con sufficiente disinvoltura ma senza entrare nell’immaginario dei “cattivi da ricordare”.

Come in Thirst, il vampirismo è ancora una volta un pretesto per parlare d’altro nelle intenzioni di Park-Chan-wook, che diluisce fino quasi ad astrarre totalmente l’idea classica del vampiro che proprio Stoker aveva ideato, per invece avvicinare, guarda caso, colui che un vampirismo atipico lo aveva scelto per immaginare una nuova variazione sui sentieri dell’horror a sfondo politico-sociale. Stiamo parlando di George A. Romero e del suo forse dimenticato gioiellino di genere Wampyr, divenuto poi Martin nella versione director’s cut, cui non per trama ma per suggestioni è avvicinabile questo Stoker, nel quale proprio come nel film romeriano il vampiro non succhia il sangue ma è un malato, un disadattato, un emarginato, qualcuno destinato alla solitudine e ad assecondare la propria nefasta natura per essere libero in un mondo che non può includerlo ne tanto meno comprenderlo. E proprio il personaggio di India, che in qualche modo avvicina anche la Sissy Spacek/Carrie protagonista di un grande horror generazionale dai risvolti psicologici e sociologici come Carrie, lo sguardo di Satana, diretto da Brian De Palma e tratto da un romanzo di Stephen King, condivide con Martin (e con la stessa Carrie, pur non vampira) questo senso assoluto di estraneità rispetto ad un mondo che Park Chan-wook sceglie di allontanare dalla sua protagonista per donarle – al contrario dello stesso Martin che finirà ucciso – una possibilità di autodeterminazione tanto improbabile quanto comunque possibile. Guardandola sostanzialmente da un piano simmetrico, scegliendo di non giudicare.

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