martedì 30 luglio 2013

Calabria cristiana. Una pagina di diario (30 dicembre 2004)


Sandro Consolato

Giornata piovosissima, ma da ricordare per la gita sulla Jonica con Rocco e Sonia. La mattina siamo stati a Bivongi, a San Giovanni Theristis, l’antico luogo di culto bizantino (XI secolo) riportato alla vita spirituale dall’athonita padre Kosmas (nella foto qui sopra) a partire dal 1994: è l’unico monastero greco-ortodosso d’Italia fondato, anzi “ri-fondato”, da monaci del monte Athos. Ci ero stato con Fulvio, greco per parte di madre, un po’ d’anni fa, rimanendo a pranzo col monaco, accolti con parole omeriche in questo sito in cui le uniche luci ammesse sono quelle del sole e delle candele. Padre Kosmas si ricorda bene di me, e ci tratta con un certo riguardo, lamentandosi di contro delle visite banali dei turisti. E’ invecchiato un po’, appare più moderato in certi giudizi, ma non ha perso in vivacità. “Voi vi interessavate delle religioni orientali” mi dice quasi subito, con buona memoria, aggiungendo: “Io dico: prima guardate l’Oriente vicino, cristiano; poi se non vi ha soddisfatto andate pure oltre”. Parliamo - un po’ a salti perché arriva anche altra gente - della Calabria (“è una terra sacra, con una grande forza spirituale, ma ai calabresi lo spirito non interessa, pensano ai consumi”), dei rapporti Ortodossia-Cattolicesimo (“da noi si ha paura, perché hanno sempre voluto conquistarci”), dell’ingresso in Europa della Turchia (“forse finirà per esserci una divisione, una Turchia spaccata in due”). Rocco gli fa sapere che è stato sul Monte Athos, e che ricorda un tale padre Stefan: "E' morto”, risponde sbrigativo. Quando poi gli chiede dell’esicasmo, la risposta è identica a quella che diede a me al primo incontro: “Tanti vogliono sapere dell’esicasmo, ma lo prendono come uno yoga. L’esicasmo è un approfondimento della spiritualità… bisogna avere la spiritualità!”. Aggiunge che la vita del monaco è la preghiera, e che la preghiera continua è come la dose di droga giornaliera del monaco. “Bisogna continuamente mortificare i pensieri con la preghiera” spiega. La Chiesa latina avrebbe perso il senso della preghiera, della mistica, a causa del razionalismo filosofico, figlio di un’ubriacatura di aristotelismo. Trova un sintomo classico del degrado spirituale le chiese moderne: “Si chiama a Roma a costruire una chiesa un ebreo americano… che c’entra?” ripete più volte. Andando via, in macchina, guardo il catechismo ortodosso datoci da padre Kosmas: è pieno di invettive storico-dottrinali contro i “Franco-cattolici”…


Pranziamo a Stilo, dopo esser arrivati con la macchina fin sotto al bel monumento a Campanella, di sapore massonico. E mi viene in mente che il monte Consolino, luogo di eremitaggio degli antenati spirituali di padre Kosmas, quando la Calabria era la “Tebaide d’Occidente”, è legato pure ad esperienze ermetiche dell’autore de “La Città del Sole”. Anche la pizzeria è intitolata al frate domenicano, che sorveglia il pranzo attraverso la copia di un suo famoso ritratto.
Dopo pranzo saliamo alla Cattolica, meta classica dei turisti; poi andiamo fino a Badolato. Sapevamo che il paese era spopolato e che era stato riabitato dai profughi curdi approdati in Calabria nel 1997 con una nave disastrata: l’“Ararat”, dal nome della montagna che si vuole custodisca i resti dell’Arca di Noè. Al bar del paese una barista finto-bionda, procace e vivace, ci spiega che gli autoctoni sono ormai solo cinquecento e i curdi in realtà una decina: quelli senza documenti a posto, perché gli altri sono partiti per luoghi più promettenti.
Sempre a Badolato, visitiamo il convento del Seicento già detto “degli Angeli”, ora sede di una delle comunità di padre Eligio, chiamate “Mondo X”. Il monastero è molto bello, in via di risistemazione ad opera della comunità. Ora ci sono sedici persone. Una ragazza ci fa da guida e ci spiega come funziona il tutto. “Padre Eligio dice: io non vi do il metadone ma il metodone”. Il “metodone” è ammazzarsi di fatica dall’alba al tramonto, nell’orto, in falegnameria, in lavori edilizi interni. Gli ospiti sono auto-organizzati, non hanno sorveglianza o guida di operatori. Tutto è basato sulla volontà personale e il senso di responsabilità. Ma si deve stare sempre in coppia. Di padre Eligio ricordavo le cronache degli anni 60, con le foto nei nights (da bambino mi rimase impressa la storia delle mutande rosse esibite sotto la tonaca…). Il sodalizio con Rivera (“E’ il presidente di ‘Mondo X’, ogni tanto viene anche qui” ci dice la ragazza) è rimasto, ma sembra votato definitivamente al bene, e non alla mondanità.
Quando lasciamo il monastero mi sento, tra l’oriente di San Giovanni “il Mietitore” e l’occidente di Badolato, un po’ riconciliato col cristianesimo. Giunti infine a casa, a Bagnara Calabra, passiamo dalla madre di Fulvio, al loro rinomato ristorante “Kerkira”, per portarle i doni di padre Kosmas: calendario ortodosso, foto di San Giovanni Theristis...


Addenda 2013: padre Kosmas (laureato in lettere classiche, parte di quella covata di giovani greci - anche dell’emigrazione - che dopo il ’68 cercò rifugio spirituale nel monachesimo ortodosso) si è spento nella sua cella il 12 dicembre 2010, all’età di 57 anni, per arresto cardiaco (l’esicasmo è “la preghiera del cuore”). Ha lasciato un ricordo indelebile tra i calabro-greci e tra tutti coloro che poterono apprezzarne le doti spirituali e umane, sottratte alla terra di Calabria nel 2006 in ossequio a logiche politico-religiose implicanti greci, rumeni e amministrazione locale. Sono tornato a San Giovanni Theristis nel 2012: ora è affidato a dei giovanissimi monaci rumeni.

domenica 28 luglio 2013

La storia del Msi non si fa con la categoria del golpismo




Pubblichiamo di seguito le valutazioni di Antonio Carioti (giornalista e studioso della storia del Msi) sul libro L'anima nera della Repubblica (Laterza) di Davide Conti. La breve recensione di Carioti è apparsa oggi, 28 luglio, sull'inserto culturale del Corriere, La Lettura. Ci sembrano, le sue, parole risolutive su uno studio mediocre e certo più incisive di tante recensioni che, dall'interno dell'area della destra, erano mosse solo dalla preoccupazione di giustificare in toto il percorso del Msi. 

Antonio Carioti

"Va riconosciuto a Davide Conti il merito di aver trovato i materiali d'archivio nuovi, anche se forse non sempre attendibili, utilizzati nel libro sulla storia del Msi L'anima nera della Repubblica. Sono interessanti anche le sue osservazioni circa il neofascismo come comunità d'ambiente, estesa oltre i confini del msi, e sui limiti che impedirono al partito della Fiamma di pesare a livello governativo e lo ridussero a termometro di cui la Dc si serviva per misurare gli umori dell'elettorato conservatore. Colpisce però che oltre i due terzi del testo (più di 140 pagine su 210) siano dedicate al periodo 1969-74 (5 anni su quasi 50 di storia missina), segnato dalle stragi nere e dalla strategia della tensione. Un vistoso squilibrio che rimanda alla meccanica identificazione tra Msi ed eversione violenta, certo comprensibile nella polemica antifascista di allora, ma oggi fuorviante in sede storiografica. Nient'affatto estranea alle turbolenze di piazza e anche alle pulsioni autoritarie, la complessa vicenda politica missina non può tuttavia essere appiattita sul binomio golpismo-manganello". 

L'esibizione narcisistica del corpo è l'elogio funebre della bellezza




Gennaro Malgieri
  
L'estate è il trionfo del corpo. Almeno così sembra. Ma da qualche tempo io non ne sono così sicuro. Più che amato il corpo (e non soltanto d'estate) lo vedo umiliato, costretto a "recitare" una parte che non è la sua, quella di merce esposta senza ritegno. E non mi riferisco soltanto al corpo delle donne professionalmente votate all'ammirazione, a catturare sguardi interessanti che facciano ricordare il prodotto che reclamizzano, né a quello di fanciulle in fiore alla ricerca di una qualche notorietà per cui si sottopongono ad estenuanti rassegne per farsi scrutare centimetro,per centimetro da "giurati" chiamati a decidere dei loro labili destini. Quel che mi intriga è l'esibizione gratuita dei corpi (non solo delle donne, naturalmente, ma anche degli uomini) che pur ammettendo che possono farne quello che vogliono, mi inducono a chiedermi se la seduzione a cui mirano sia davvero alla portata lanciando le loro bellezze, presunte o reali, in pasto ad occhi puntati più che sull'estetica sulla voluttà che innescano consapevolmente e sull'altrettanto consapevole elementare passione che innescano.
Ne traggo la conclusione che l'ossessione del corpo ci costringe nella prigione del narcisismo. Avendo perduto altri riferimenti, sembra non rimanerci altro che  la materialità più prossima per riconoscerci in un qualche ideale. Il nostro ideale di contemporanei avvizziti è la cura estenuante, la  spettacolarizzazione volgare, il linguaggio indecente (e a volte indecifrabile) del corpo. Al di fuori di esso, perfino la parola se non le è correlata, nulla esiste perché niente è così tangibilmente vero. E allora alla religione del corpo ci siamo votati come fedeli della liquidità sociale nella quale sono già naufragate tutte le idee che trascendono la materialità più nobile perché più nostra: quella delle membra che si muovono, che giacciono, che si fanno ammirare, che suscitano repulsione, che accendono i desideri, che spengono gli entusiasmi, che elevano fino allinverosimile la vertigine del potere di sopraffare altre membra. Insomma, il corpo è tutto. È il demiurgo della modernità.



È l'oggetto-evento intorno al quale si celebrano i trionfi della creazione e del disfacimento, della morte e della resurrezione, del dinamismo e della atarassia. È simbolo e rappresentazione del successo. Soltanto nel corpo la vita assume un senso, ha un significato. 
E il corpo, con la sua finta maestosità, copre le asprezze delle nostra esistenza edulcorandole con la trasfigurazione della bellezza nel possesso carnale. Perciò tutto si ricompone nel corpo che parla da solo, senza bisogno di suoni o di parole. La sua espressione è connaturata alla sua essenza. Perciò la pubblicità lo usa, luomo e la donna lo commercializzano, lindustria dei consumi se ne serve. È una macchina, un meccano. Senzanima ormai nellapparenza delle realtà che riproduce allinfinito. Non è il corpo dei santi, dei poeti, degli eroi, degli artisti, dei tiranni, dei mendicanti, degli ingenui, dei puri di spirito e dei malfattori. È soltanto il corpo: una cosa. Anzi, la Cosa. 
Non si rileva nientaltro  nei corpi massacrati come carni appese ai ganci di un macello che materia su cui esercitare i pensieri più diversi. Nei corpi spogliati non c’è, generalmente, che induzione alla depredazione. Nei corpi cosparsi di unguenti e stesi al sole o manipolati da abili ricostruttori si vede soltanto la personificazione dellabbandono. Costeggiano i percorsi di immortalità apparenti i corpi deprivati di profondità, come carte che assorbono i nostri incubi e i nostri sogni ai margini di strade che svelano il potere della seduzione, ma non lo porgono al viandante che uccide i suoi stessi desideri nellaffannosa corsa verso violazione del mito che, se anche dovesse riuscire, non lo appagherà perché il corpo voluto, inseguito, ottenuto è il corpo di tutti: è tutti i corpi del mondo fissato in uno stereotipo che prevede un tanto di appeal, un tanto di nudità, un tanto ancora di sorriso ebete, e per finire un richiamo costante, incessante, nauseante ad abusare di quel che il cartellone pubblicitario, la televisione, il cinema, internet propongono generosamente. Ma è lillusione che illumina i nostri desideri. 



Pensateci: il corpo è morto. Noi diventiamo automi quando riduciamo noi stessi alla materialità che dovrebbe riempire e appagare i nostri giorni e le nostre notti. Camminiamo tra cadaveri sparsi, inanimati proprio perché ai corpi non si chiede altro che di mostrarsi, indipendentemente dallo scopo. E se una volta era un Tempio, come si diceva, oggi non è neppure un pagliericcio.
Loffesa che rechiamo a noi stessi si riassume nellassuefazione agli stereotipi carnali che sembra dominino ogni cosa: la politica, leconomia, la cultura, larte, la guerra (ma questa è storia antica). E il possesso dei corpi, della più grande quantità di corpi è segno riconoscibile di un potere tanto più forte quanto più si levano dal sottosuolo le grida di corpi infangati, prostrati, profanati, desiderati, amati, usati, gettati, usurati.
Cera una volta la bellezza del corpo. Raccontava di dèi ebbri e innamorati; raccontava la solitudine splendente di mistici assetati di eterno; raccontava di poeti erranti per le vie dello spirito e dellamore; raccontava di soldati e cavalieri a difesa di civiltà ancestrali; raccontava di guerrieri e di fanciulle, di vecchi e di vecchie, di ladri e di benefattori. Dove sia finita quella bellezza dei corpi che erano torri eburnee, io non lo so, ma credo non lo sappia nessuno. Ritornerà? Forse, si spera perlomeno. Tuttavia quando la caduta diventa fragorosa, non sappiamo più dove rifugiarci per non vedere, per invocare la cecità, per desiderare che il sole si spenga, che la luce manchi, che la disperazione ci soffochi. Poiché tutto è più accettabile della rassegnazione alla fine della bellezza. E il corpo, per lo più si è ridotto oggi in un mesto canto funebre che neppure un miracolo potrebbe tramutare in sinfonia. A meno che Dio non riappaia e ridia al corpo la sontuosa eppure discreta anima che s’è assentata per prendersi gioco di esso, per vedere, di nascosto, che cosa ne sarebbe stato lasciandolo.
Ecco: noi ora lo sappiamo. Noi che leggiamo i giornali, guardiamo la televisione, andiamo al cinema,  frequentiamo i teatri,  stiamo in mezzo alla gente, ci nutriamo di pubblicità. Noi sappiamo che i corpi sono apparenze. Sbiadite immagini una volta seducenti,come il volto di chi li ha creati. Cosa resta degli occhi in cui non si legge unemozione? Che effetto fa una bocca serrata nel silenzio? Che significato ha il gesto che richiama a un banale consumo che potrebbe essere illustrato da altri elementi, ma non necessariamente da un corpo? Nulla. Ed è la nullificazione della persona diventata oggetto che diventa essenziale alle nostre vite frastornate nelle quali niente è al posto in cui dovrebbe essere. Ci guardiamo dentro e non riusciamo più a leggerci niente, infatti. E ci domandiamo: ma come, fino a qualche tempo fa parlavo perfino con me stesso e adesso vedo il vuoto dentro di me? Già, per riconoscerci abbiamo bisogno dello specchio. E quel che vi vediamo riflesso è ciò che gli altri vogliono vedere di noi. Tutto, ma non la bellezza. 
Sarò fuori dal tempo, ma continuerò ad amare il corpo come tabernacolo dellanima. E lo onorerò. E pregherò per lui. E lo sosterrò quando sarà debole. E alla fine chiederò che su di esso scenda una benedizione. E, spero, che lultima immagine che passerà davanti ai miei occhi sia quella di una bellezza infinita che mi porti laddove le immagini si affollano e gli incontri si infittiscono. Dove le anime accarezzeranno i corpi che hanno abitato, finalmente riconoscendoli per quello che sono. Finirà allora la pandemia che ci assedia e che ci ha rubato la bellezza. Se Dio vorrà.  



venerdì 26 luglio 2013

Yves Bonnefoy ovvero l’ insidia della parola, la verità della pietra


Francesco Pullia

“Un nome vi è cancellato a ogni pagina,/ Ma il tratto che lo depenna è la luce”. A distanza di tre anni dalla pubblicazione, nei “Meridiani” Mondadori, dell’intera produzione poetica di Yves Bonnefoy, esce nella prestigiosa collana “Lo specchio”, sempre a cura di Fabio Scotto, L’ora presente, nuova raccolta di liriche dell’autore francese giunto ormai al traguardo dei novant’anni. Un libro straordinario, edito in Francia nel 2011, in cui si ritrovano i tratti distintivi di un incalzante versificare divenuto, con il passare del tempo, sempre più stigma di una dilacerante tensione tra presenza e assenza, essere e apparire, evidenza sensibile e idea.
Da un lato si assiste, infatti, all'incontenibile spinta della nominazione (l'impossibilità di negare un nome alle cose nel loro manifestarsi), dall'altro prevale la percezione dell'inadeguatezza e insuffcienza del medesimo atto. Ciò che si dà e si offre alla visione sfugge, nella propria ricchezza e complessità, alla parola e, insieme, anela, in modo irrefranabile, a evadere alla propria sottrazione.
Ne scaturisce un processo decostruttivo che mima nella poesia un procedimento analogo a quello dell’archeologia. Si scava cioè facendo sì che, man mano che si va in profondità, si acquisisca alla superficie l’oggetto nella sua nitidezza, così com’è, senza la sovrapposizione di significati. La scrittura, dunque, come “trivello che fora livelli di difesa, dando accesso a ricordi rimasti sigillati”. Le cose, gli eventi, sono ben “al di là” della loro designazione. La parola vorrebbe spingersi verso questo “al di là” ma, non appena si solleva dal proprio nulla, vede sciogliersi la cera delle proprie ali e precipita rovinosamente nel vuoto.
Il nome, ci dice Bonnefoy, non è come la pietra, è destinato a dissolversi dinanzi all’incandescenza del fuoco e all’ineluttabilità della morte. Può presagire, certo, l’accadimento restando, però, prigioniero della propria ambizione. E allora, ecco parole “che s’incurvano sotto la nostra penna”, “che ci escoriano”, garbugli che “celano buchi, nei quali perdiamo l’appoggio e scivoliamo, lanciando grida”.
Oltre la parola, al di là del verbo, si afferma la visibilità, perentoria nel proprio silenzio, degli alberi, delle cime, della donnola furtiva, del “disordine di pozzanghere e giunchi”, dei cespugli spinosi, dell’onda sbatacchiante contro il legno consunto di una barca, del giorno che si plasma nell’oscurità della notte, del fiore che aspira a riscattarsi dalla propria idea.
“La parola non salva, talvolta sogna” e il suo è un sognare epico, collettivo, in cui si consuma e celebra il rituale della nostra debolezza, della morte che si avvicina per stringerci le mani, pronta a rimboccare su di sé “il lenzuolo della luce”. La parola, dunque, non ci salva, ci illude. Nell’intreccio di memoria e oblio che costella il nostro graduale sparire, il nostro progredire verso il dissolvimento, noi abbiamo, però, bisogno non di un’illusione ma della sfolgorante pienezza di una verità che squarci il velo della dominazione e ci restituisca, come nella pregnanza dell’arte quattrocentesca o fiamminga, il mistero dell’evidenza.
Potrebbero esserci i presupposti per una rassegnazione senza via d’uscita, ma, con grande vigore, Bonnefoy ci invita a reagire, a risorgere, come araba fenice, dalle ceneri: “Ora presente, non rinunciare/ Riprendi i tuoi vocaboli dalle mani erranti della folgore, / Ascoltali fare del nulla parola, Osa/ Perfino nella fiducia che nulla prova./ Legaci di non morire disperati”.     

"Cavalcare la tigre", mezzo secolo dopo bilancio sul manuale dei rivoluzionari atipici (e falliti)



Annalisa Terranova

Cavalcare la tigre, uno dei libri più importanti di Julius Evola, fu stampato in 1500 copie nel novembre del 1961 e distribuito all’inizio del 1962. L’editore Vanni Scheiwiller, quando il titolo apparve nelle librerie,  fu sommerso dalle lettere di protesta e decise di rispondere con una missiva aperta alle obiezioni che gli aveva mosso Lamberto Vitali, studioso ebreo di arte contemporanea. “Caro Vitali – scriveva Scheiwiller – l’odio è un pessimo giudice e soprattutto un pessimo storico. Io credo nell’assoluto e nell’intenso, l’uno nel campo sovrumano e l’altro in quello umano; perciò in coscienza mi sento di condannare le ideologie, le idee, ma gli uomini mai. Credo nel giudizio di Dio, non credo nel giudizio degli uomini. Da ciò l’equivoco, per lei, della mia presunzione di non sbagliare mai. Non giudicare mai il mio prossimo e accettare tutto ciò che di umano e positivo possiede, fosse anche un presunto delinquente comune (un uomo da forca come Villon, un barattiere come Dante ieri, un traditore come Pound, un razzista come Céline, oggi”. Scheiwiller ricorda ancora che Evola non fu mai iscritto al Pnf: “So che vive povero, campando di traduzioni; paralizzato dalle ferite in un bombardamento, vive e scrive, acido sì e scontento, ma senza compiacersi delle sue sventure”. Evola, messo al corrente della polemica, risponde a Scheiwiller che si rifiuta di seguire “quegli imbecilli e quei provinciali i quali credono che di là dall’antitesi fascismo-antifascismo non esista null’altro”.



Il tormentato debutto di Cavalcare la tigre è descritto in un interessante saggio di Andrea Scarabelli pubblicato nel libro a più mani Julius Evola, cinquant’anni di Cavalcare la tigre (1961-2011) – edito da Controcorrente – e che contiene scritti di Giandomenico Casalino, Gennaro Malgieri e Marcello Veneziani.
 Giustamente Veneziani vede in questo discusso testo evoliano “un breviario aristocratico di nichilismo attivo”. “Cavalcare la tigre fu il Sessantotto della destra colta, giovanile e radicale, la trasgressione nel nome della tradizione” ma anche “alibi sontuoso per cedimenti meschini o comunque umani, troppo umani”. Il problema, sottaciuto ma non ignoto agli autori del saggio come a tutti i cultori di Evola, fu quello di prendere alla “lettera” un libro complesso e di cercarne le vie di attuazione pratica in un mondo ostile senza – avrebbe detto il Barone – avere la giusta preparazione e predisposizione interiore. Un concetto riassumibile in modo anche più plastico ed elementare: tanti lettori di Evola si sono creduti uomini differenziati mentre erano normalissime creature. Il che non può certo essere imputato all’autore.

Del resto il libro si collocava in una fase storica che Malgieri descrive con le parole di Heidegger: “La notte del mondo distende le sue tenebre… il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. E’ già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza…”. L’etica superiore proposta da Evola andava benissimo, va benissimo in tempi d’angoscia ma ha un risvolto pericoloso: il fai da te morale che è un pasticcio esistenziale molto lontano dal nichilismo stoico che il filosofo intendeva proporre. Gianfranco De Turris nell’introduzione ricorda che un altro studioso di Evola, Piero Di Vona, ha paragonato Cavalcare al Manuale di Epitteto, di qui il suo successo anche mezzo secolo dopo la prima stampa, a differenza di altri titoli che segnarono la contestazione e che oggi appaiono datati perché compromessi con il linguaggio di una sovrastruttura ideologica che non ha più nulla da comunicare. 

domenica 21 luglio 2013

Quelli che si dicono alternativi... ma non stanno con papa Bergoglio


Luciano Lanna


La migliore metafora resta quella del bel romanzo L’uomo che fu giovedì di Gilbert Keith Chesterton. Lì, nel dipanarsi della trama, si scopre come il consiglio anarchico europeo che si riunisce in un luogo segreto ed è composto da sette uomini, ognuno dei quali usa per qualificarsi in codice il nome di un giorno della settimana, è in realtà la riunione di sei agenti segreti i quali, a insaputa l’uno dell’altro, sono misteriosamente impegnati – al di là della loro professione di fede libertaria – alla denuncia e alla sconfitta della prospettiva anarchica. Più che di eterogenesi dei fini o di rovesciamento di segno del loro impegno è il caso di parlare di soggetti che lavorano – consapevolmente o meno – al servizio di quelli che, al di là di quanto viene dichiarato o scritto, dovrebbero essere i loro avversari. È questa una metafora che viene spontaneamente in mente guardando in filigrana quanto scrivono alcuni esponenti di quella cultura che nella convenzione mediatica viene ancora considerata non-allineata e non-conforme agli schemi dominanti.


L’impressione è che forse per tanti anni avevamo e abbiamo sbagliato. Avevamo infatti pensato che da Marco Tarchi a Geminello Alvi, da Stenio Solinas a Massimo Cacciari, da Franco Battiato a Pietro Barcellona, da Massimo Fini a Alfredo Cattabiani, da Giuseppe Conte a Eduardo Zarelli, da Gary Snyder a Alain de Benoist, era possibile delineare e intelaiare una trama di pensiero alternativo utile a fronteggiare e forse pure sconfiggere – creando varchi possibili e inediti – la cultura cosiddetta egemone. Oggi a ben leggere molte cose sembra invece che almeno qualcuno di questi operatori culturali, nonostante la suggestione estetica e il riferimento eterodosso di facciata, finisca, consapevole o meno, per fare il gioco degli equilibri e dei poteri dominanti.
Nello specifico, penso al lavoro di scrittura di due amici, di due persone di cui per anni ho condiviso una serie di passaggi e anche di opzioni metapolitiche: Geminello Alvi e Pietrangelo Buttafuoco. Leggendo infatti con molta attenzione l’ultimo saggio dell’economista-letterato – La Confederazione italiana. Diario di vita tripartita (Marsilio, pp. 384, euro 22,00 – così come molti articoli dello scrittore e giornalista siciliano se ne ricava l’impressione che, alla fine, entrambi finiscano per collocarsi, malgrado tutto e nonostante tutto e al di là delle loro stesse dichiarazioni, all’interno dello schieramento neo-fallaciano e occidentalista che, per semplificare, va da Giuliano Ferrara a Gaetano Quagliariello e che include pure Ida Magli e Magdi Allam… E lo sosteniamo testi alla mano perché, alla prova provata delle intenzioni, quella Chiesa di papa Bergoglio che oggi è l’unica alternativa di vita, di realtà e di speranza concreta all’occidentalismo egoista e utilitarista, emerge invece nei loro scritti solo come obiettivo polemico e ironico quando non come soggetto da contrastare.
In questi due amici, ma anche in altri scrittori e giornalisti, il continuo riferimento a una serie di icone mitiche e assolute quanto  astratte – siano esse la Chiesa preconciliare, l’ortodossia dei pope, l’Islam degli sciiti, la Russia come Terza Roma, il paganesimo classico – diventano a nostro avviso le maschere di un nuovo pensiero decadente e neo-apocalittico che nella sua natura “incapacitante” ci appare di fatto funzionale all’occidentalismo più sfrontato e rampante. Come interpretare infatti le ironie su Ratzinger, il papa che s’è dimesso, e quelle al presunto populismo di Bergoglio quando in realtà – basta vedere la recente visita del pontefice a Lampedusa e lo stesso saluto ai musulmani che il giorno dopo avrebbero iniziato il Ramadan – le posizioni della Chiesa sono le uniche a porsi sul serio contro la deriva utilitaristica del mondo, la xenofobia diffusa e la stessa finanziarizzazione dell’esistenza?
Eppure Alvi se la prende, ad esempio, con il “completarsi canzonettistico dello scempio liturgico”, con “una Chiesa cattolica che per eutanasia liturgica si è scomunicata da sola”, con il “ripopolamento arabo e africano dell’Italia”, con “l’Italia che favorisce l’invasione di stranieri migranti”, con “le tesi dei centri sociali che soddisfano il Vaticano”, con “l’emozione per il ritmo: rumore, suono degenerato dei negri…”. Quello che si presenta come un bel libro, peraltro scritto con una grande finezza lessicale, lascia però affiorare la riproposizione di tutta una serie di luoghi comuni neo-reazionari, dalla recriminazione contro il Sessantotto alla fobia per la cultura di massa e per le nuove tecnologie, che ne inficia e condiziona non poco l’impianto metapolitico di fondo.


Emerge, anche nella dichiarazione di preferenza per l’ortodossia russa o nel disprezzo per l’opera di René Guénon, una più o meno coperta virulenza anticattolica che lascia trasparire solo la scelta di campo per il cosiddetto “pensiero forte”. Che è poi il tratto specifico che unisce Alvi agli altri operatori della scrittura di cui abbiamo parlato. Un “pensiero forte” che, al di là delle più varie opzioni estetiche – nel suo caso un pensiero risorgimentale mazziniano, in altri l’Occidente astratto o un Islam iranico da orientalismo datato, in altri ancora la visione dell’Eurasia o la paganitas classica – rimanda sempre al rifiuto della contaminazione e della pluralità relativa del mondo. Rifiuto e contrasto che è poi quello che l’occidentalismo al potere pratica e persegue da decenni attraverso l’omologazione delle culture e delle differenze. “Forte è invece il pensiero debole” sostiene da tempo il filosofo cattolico Dario Antiseri, polemico con questa precisa tentazione politico-culturale. “Il pensiero debole – ribatte – è una filosofia che avendo distrutto gli assoluti terrestri mostra all’uomo la sua creaturalità e la sua contingenza e apre alla spiritualità. Solo il pensiero debole è la filosofia che punta alla distruzione dei vitelli d’oro, che dischiude uno spazio umano libero dagli assoluti terrestri, che è il luogo privilegiato della speranza oltre i feticci ideologici…”. Lo attesa anche un altro intellettuale cattolico come Vittorio Messori, da sempre schierato contro chi fa della fede cristiana o di altre opzioni religiose o estetiche un semplice instrumentum regni in funzione di copertura ad assetti di potere. “Mi trovo a mio agio – sostiene invece Messori – in una open society, una società aperta, questa società sempre più meticcia e sempre più complessa. Amo la libertà annunciata da Cristo e dal suo Vangelo, da proporre e mai da imporre. Mi piace la vita come avventura, dove santi e mascalzoni si intersecano, dove si confrontano il bene e il male. Amo le metropoli, le giungle d’asfalto, ben più del controllo sociale del villaggio, amo il ribollire delle grandi città, dove la storia si costruisce attraverso la trama infinita dei liberi rapporti umani…”.
Ultima annotazione. È nostra convinzione che il fascino per le maschere del pensiero forte conduca molti a non vedere le dinamiche reali della partita in gioco e quindi a farsi incantare, finendo in una trama simile al romanzo di Chesterton da cui siamo partiti. Perché infatti – tanto per fare un esempio – anche chi, come il buon Buttafuoco, ha pure scritto un’intera pagina per dirsi “saraceno” poi non interviene come si dovrebbe contro chi ha attaccato papa Bergoglio per aver difeso il diritto alla vita degli immigrati maghrebini e presentandolo come succube del pensiero debole? Il contrasto reale all’islamofobia non lo si esprime gingillandosi di geopolitica o vagheggiando esotismi letterari ma, qui casca l'asino, invocando i diritti di cittadinanza per i musulmani immigrati che vivono in Italia e contrastando pubblicamente tutti i loro avversari.

venerdì 19 luglio 2013

Di Laura Boldrini e delle miss, le care miss di cui non sentiamo il bisogno...



Annalisa Terranova

Non me ne vogliano i detrattori di Laura Boldrini ma lei sa interpretare il personaggio. Lei è in ascesa, è il volto nuovo che la sinistra cercava perché esausta delle “narrazioni” di Nichi Vendola. Sarà lei la nuova leader della sinistra anti-Pd. Lei mette insieme l’ansia dei diritti (più predicati che praticati) e l’avversione alla Fiat, l’apologia operaista, il mito delle fabbriche in lotta. Lei accontenta la sinistra radical e quella antagonista. E va detto che da quelle parti si è anche in cerca – abbastanza disperatamente – di nuovi linguaggi femminili che chiudano per sempre la stagione di Livia Turco e di Giovanna Melandri e che rimpiazzino il desolante vuoto delle faccette femminili che il Pd è in grado ora di schierare nei talk show. Boldrini assolve a tutte queste missioni contemporaneamente e dunque può permettersi il lusso di dire sciocchezze, come quella su miss Italia, trasmissione che risulta solo noiosa e che certo non leva e non mette rispetto alle offese alla dignità femminile. Diciamo che lì andava in onda l’esibizionismo del corpo femminile in un format per famiglie. Alla proposta culturale di un corpo-oggetto ci ha sempre pensato la pubblicità. Dunque l’obiettivo è del tutto sbagliato.
Ma torniamo al ruolo politico di Laura Boldrini. Il suo successo mediatico ricorda da vicino l’exploit di Irene Pivetti in veste di austera presidente della Camera. Anche l’Irene nella sua fase vandeana rappresentò un modello, scatenò cavalloni di protesta osservando che il fascismo aveva trattato bene le donne, si avventurò nelle critiche all’8 marzo. Ebbe la possibilità di inserire nuovi codici, desunti da una cultura alternativa alla sinistra, nei discorsi generali che la politica italiana aveva sempre fatto sulle donne. L’occasione, manco a dirlo, fu sprecata. Ora, da sinistra, ci prova Laura Boldrini, spaziando dal femminicidio all’antirazzismo. Vedremo se le andrà bene. Alle donne del centrodestra un consiglio spassionato: per depotenziare Laura Boldrini bisogna assecondarla, competere sul suo stesso terreno, non attaccarla, perché altrimenti prima o poi arriva il Calderoli di turno e dice la cazzata inemendabile. E allora Boldrini diventerà una superstar. Invece leggo che Boldrini viene attaccata perché vorrebbe mettere il chador a tutte le donne. E così si offendono in una volta sola sia le musulmane sia quelle che non trovano che il massimo dell’emancipazione risieda nella cosiddetta “filosofia della gnocca”. Il mondo femminile è vario, intelligente, creativo. Boldrini sarà pure la “secchiona”, ma se la risposta sono le “pupe” allora io dico fatevi questo gioco da soli e andatevene in malora. C’è chi non ha nessuna voglia di assecondare il “maschio libidinoso coglione” cantato da Rino Gaetano.



Dice: ma su Miss Italia Boldrini ha detto una castroneria. Sì, ma non l'ha detta perché è una talebana. E' risultata non credibile perché non ha detto la verità, e cioè che il concetto di bellezza è cambiato e che se prima un concorso di bellezza era fatto per soddisfare il desiderio delle donne di piacere agli uomini oggi occorre prendere atto che una vuole sentirsi bella soprattutto per se stessa e che costruisce questo concetto in una serie di relazioni complesse. Altezza e indice di massa corporea non hanno il potere taumaturgico di dirci cos’è la bellezza. Sulla bellezza ho trovato una citazione convincente, è del filosofo Francois Cheng: dice che la bellezza è bella perché non è necessaria, è superflua, è un mistero perché noi ne siamo attratti ma allo stesso tempo il mondo può andare avanti anche senza bellezza. E allora tutto ciò che la definisce in realtà diventa brutto, perché non ne coglie l'essenza. Per questo Miss Italia è superata, risiede qui la sua volgarità, non nel fatto che le ragazze si esibiscono in costume. Per questo sono patetici tutti i concorsi di bellezza, quelli in tv e quelli che non attirano i riflettori. E stendiamo un velo pietoso sui concorsi di bellezza nelle feste di partito. In quel caso cadono solo le braccia. Ogni commento