venerdì 26 luglio 2013

"Cavalcare la tigre", mezzo secolo dopo bilancio sul manuale dei rivoluzionari atipici (e falliti)



Annalisa Terranova

Cavalcare la tigre, uno dei libri più importanti di Julius Evola, fu stampato in 1500 copie nel novembre del 1961 e distribuito all’inizio del 1962. L’editore Vanni Scheiwiller, quando il titolo apparve nelle librerie,  fu sommerso dalle lettere di protesta e decise di rispondere con una missiva aperta alle obiezioni che gli aveva mosso Lamberto Vitali, studioso ebreo di arte contemporanea. “Caro Vitali – scriveva Scheiwiller – l’odio è un pessimo giudice e soprattutto un pessimo storico. Io credo nell’assoluto e nell’intenso, l’uno nel campo sovrumano e l’altro in quello umano; perciò in coscienza mi sento di condannare le ideologie, le idee, ma gli uomini mai. Credo nel giudizio di Dio, non credo nel giudizio degli uomini. Da ciò l’equivoco, per lei, della mia presunzione di non sbagliare mai. Non giudicare mai il mio prossimo e accettare tutto ciò che di umano e positivo possiede, fosse anche un presunto delinquente comune (un uomo da forca come Villon, un barattiere come Dante ieri, un traditore come Pound, un razzista come Céline, oggi”. Scheiwiller ricorda ancora che Evola non fu mai iscritto al Pnf: “So che vive povero, campando di traduzioni; paralizzato dalle ferite in un bombardamento, vive e scrive, acido sì e scontento, ma senza compiacersi delle sue sventure”. Evola, messo al corrente della polemica, risponde a Scheiwiller che si rifiuta di seguire “quegli imbecilli e quei provinciali i quali credono che di là dall’antitesi fascismo-antifascismo non esista null’altro”.



Il tormentato debutto di Cavalcare la tigre è descritto in un interessante saggio di Andrea Scarabelli pubblicato nel libro a più mani Julius Evola, cinquant’anni di Cavalcare la tigre (1961-2011) – edito da Controcorrente – e che contiene scritti di Giandomenico Casalino, Gennaro Malgieri e Marcello Veneziani.
 Giustamente Veneziani vede in questo discusso testo evoliano “un breviario aristocratico di nichilismo attivo”. “Cavalcare la tigre fu il Sessantotto della destra colta, giovanile e radicale, la trasgressione nel nome della tradizione” ma anche “alibi sontuoso per cedimenti meschini o comunque umani, troppo umani”. Il problema, sottaciuto ma non ignoto agli autori del saggio come a tutti i cultori di Evola, fu quello di prendere alla “lettera” un libro complesso e di cercarne le vie di attuazione pratica in un mondo ostile senza – avrebbe detto il Barone – avere la giusta preparazione e predisposizione interiore. Un concetto riassumibile in modo anche più plastico ed elementare: tanti lettori di Evola si sono creduti uomini differenziati mentre erano normalissime creature. Il che non può certo essere imputato all’autore.

Del resto il libro si collocava in una fase storica che Malgieri descrive con le parole di Heidegger: “La notte del mondo distende le sue tenebre… il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. E’ già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza…”. L’etica superiore proposta da Evola andava benissimo, va benissimo in tempi d’angoscia ma ha un risvolto pericoloso: il fai da te morale che è un pasticcio esistenziale molto lontano dal nichilismo stoico che il filosofo intendeva proporre. Gianfranco De Turris nell’introduzione ricorda che un altro studioso di Evola, Piero Di Vona, ha paragonato Cavalcare al Manuale di Epitteto, di qui il suo successo anche mezzo secolo dopo la prima stampa, a differenza di altri titoli che segnarono la contestazione e che oggi appaiono datati perché compromessi con il linguaggio di una sovrastruttura ideologica che non ha più nulla da comunicare. 

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