martedì 2 luglio 2013

Ma l'animalismo non è un totalitarismo, anzi...



Francesco Pullia

Da un po’ di tempo anche da noi si parla di animalismo e antispecismo con dibattiti che, purtroppo, scadono nell’autoreferenzialità e nella smania di protagonismo di chi, con manifesta passione per l’onanismo intellettuale, li suscita senza apportare il minimo di beneficio a coloro che dovrebbero maggiormente esserne interessati, vale a dire gli animali non umani che, dagli allevamenti intensivi alle filiere alimentari, continuano ad essere vittime di un olocausto quotidiano. Ovviamente, come è sempre accaduto con le migliori idealità (Sessantotto docet!), non manca chi cerchi di fagocitare in chiave ideologica, settaria, para-marxista, un movimento che è, invece, spontaneo, sensibilmente in crescita, scaturito dall’esigenza di riconsiderare, a partire da precise scelte individuali, il ruolo di quella soggettività antropocentrica arrogante, pretestuosamente e violentemente egoista, il cui smantellamento ha avuto in Occidente il suo punto focale in Nietzsche con ripercussioni in gran parte del pensiero del Novecento.
Eppure ci sembra che, nonostante tanto blaterare, gli eventi del secolo da non molto concluso parlino da soli, facendo giustizia sommaria delle grandi infatuazioni, o narrazioni se si preferisce, che hanno letteralmente reciso vite e speranze spargendo ovunque sangue e disastri. Tra le tutte le affabulazioni, quella marxista, comunista per intenderci, è senza dubbio la più grave e subdola rappresentando il compimento della visione metafisica che, da Aristotele in avanti, con appigli ben fermi nella distorsione del razionalismo cartesiano, ha unilateralmente e surrettiziamente collocato l’essere umano sul piedistallo, rendendolo despota incondizionato, impunito autore di crimini inauditi perpetrati ai danni delle altre specie e della natura stessa.
Non può che rivelarsi, pertanto, impresa ardua e fallace, oltre che spregevole, il tentativo di ricondurre l’antispecismo, cioè la ribellione aperta al razzismo antropocentrico che ha legittimato i soprusi commessi dall’uomo nei confronti degli altri animali, nell’orbita di un pensiero massificante la cui portata ingannevole si è storicamente esplicitata in efferato totalitarismo.
Tra l’altro in Marx, per non parlare della declinazione leninista del marxismo, non si riscontrano affatto accenni alla destituzione dell’uomo dall’ambito che, nel corso della storia, si è (pre)costituito a scapito delle altre specie viventi. Anzi, la concezione materialistica, ossessionata dall’economicismo e infatuata dalla finalità di livellare socialmente tutti in modo forzoso, si dimostra quanto mai sprezzante con gli animali non umani e incapace di comprendere la loro condizione. È innegabile che il sistema comunista, al pari di quello nazista, abbia il suo cardine nel gulag (speculare al lager), nel laogai cinese, nell’universo concentrazionario di cui gli allevamenti intensivi non sono altro che estensione. E non è un caso che a negare l’equiparazione tra olocausto animale e olocausto etnico sia proprio chi, arrampicandosi sugli specchi e con saccenteria, si sforzi dannatamente di mettere l’antispecismo sotto l’ombrello comunista. Ci si chiede come si possa definire altrimenti la tragicità della condizione animale se non in termini di olocausto, come si possa, a meno che ci sia obnubilati dall’ideologia, negare il totalitarismo che ogni giorno celebra i suoi fasti, il proprio dominio con il massacro, l’occultamento e l’annientamento dell’altro.
Il filosofo italiano Aldo Capitini, animalista e antispecista ante litteram, come Edmondo Marcucci d’altronde, aveva già messo in guardia da qualsiasi indebita appropriazione ideologica dell’istanza di liberazione che accomuna ogni essere vivente nel pianeta. L’antispecismo sorge in lui in perfetta sintonia con l’antitotalitarismo che ne animò il pensiero (rendendolo tremendamente attuale). La sua scelta vegetariana (che per un antispecista non può essere irrisoria, secondaria) va interpretata e compresa come inerente all’orientamento liberalsocialista e nonviolento di cui si fece strenuo assertore. La sua prospettiva liberante è tutt’uno con la religiosità aperta (altro che la limitatezza del materialismo!), con la chiamata alla corresponsabilità nella compresenza di ogni essere, anche di chi è ritenuto “improduttivo” o è morto, vale a dire al concorso di ognuno, al di là dell’appartenenza ad una specie, alla creazione di “aggiunte”, di una realtà che è di per sé foriera di molteplici interpretazioni e non di rigida fattualità.
La soggettività capitiniana trae paradossalmente il suo punto di forza dal proprio decentramento (altro che debolezza!), cioè dalla destituzione da artificiosi fondamenti. È vivificata dalla consapevolezza del legame d’inter(in)dipendenza che ispira l’Uno-Tutti e relaziona ogni aspetto dell’esserci. La visione capitiniana può risultare difficile non perché inattuabile ma perché scomoda. Non è casuale che il filosofo perugino abbia preferito Carlo Michelstaedter al barbuto e tronfio Marx… Certi antispecisti farebbero bene ad accostarsi con umiltà al suo pensiero e alla sua azione militante. Ne trarrebbero aiuto per risalire la scivolosa china in cui sono sprofondati. 

Nessun commento:

Posta un commento