venerdì 12 luglio 2013

Quelli che vorrebbero "ripetere" esperienze (fallite) di vent'anni prima


Luciano Lanna

Gianni Alemanno più che fare autocritica e cercare di comprendere il senso della sua recente sconfitta sembrerebbe rassicurarsi con il mantra di Marcello Veneziani: s’è chiuso il ciclo avviatosi nel 1993 e adesso “ci vuole un nuovo centrodestra”. Ed è quanto suggeriscono anche gli altri reduci di quel che fu An. Con l’imminente rinascita di Forza Italia, ha precisato infatti l’ex sindaco di Roma, “ci sarebbe una simmetria storica con una nuova An”. Una nuova Alleanza nazionale, sottolinea intervistato dal Corriere della Sera, non certo il Msi, nel senso che occorrerebbe, a suo dire, ripetere l’esperienza di una destra aperta al centro, che includa come fu con An “esponenti provenienti dalla vecchia Democrazia cristiana…”. La strategia sembrerebbe quella, oggettivamente residuale, di rimettere insieme tutti gli spezzoni possibili della ex An, cercando di dar vita a un contenitore che andrebbe ad affiancarsi in coalizione al nuovo soggetto berlusconiano, questo tutto carismatico e leggero, modellato sulla linea Santanchè, Ferrara e Brunetta… “Il leader – conferma per non lasciare adito a dubbi Alemanno – è Silvio Berlusconi, il nuovo assetto del centrodestra va costruito insieme con lui, soprattutto adesso che è oggetto di un grave attacco giudiziario”. Dichiarazioni che sanno solo di resa e dell’incapacità di affrancarsi da quella subalternità al berlusconismo che in realtà è la ragione della sconfitta e dell’attuale crisi di ruolo di tutto un ambiente: di Alemanno come de La Destra storaciana, degli ex An non candidati o trombati e degli ex Fli che non se la sono sentita di andare davvero in mare aperto come avevano invece fatto sperare tanti italiani, come della stessa aggregazione non certo maggioritaria dei Fratelli d’Italia…
Ricordiamo che quando Alemanno vinse le amministrative nel 2008, al primo turno lui aveva ottenuto 677.350 voti, circa 70mila in più della coalizione di centrodestra che lo sosteneva. Il suo antagonista Rutelli ne aveva presi solo 761.126, ossia 57mila circa in meno rispetto alla propria coalizione. E al ballottaggio i voti di Rutelli scesero a 676.472, quasi centomila in meno del primo turno. I numeri facevano insomma capire che tra il primo e il secondo turno centomila elettori di centrosinistra avevano cambiato il voto in favore di Alemanno. Non a caso il distacco dei voti di Alemanno rispetto al centrodestra passava da 68.486 a 174.351. E ancora: al ballottaggio ci furono ben 52mila romani che votarono Zingaretti alla provincia e Alemanno al Comune. Cinquantamila elettori del Pd non ebbero insomma problemi a votare Alemanno, ma lo fecero non per aspettarsi una politica di destra o di centrodestra ma per il cambiamento. Lo stesso Berlusconi, che avrebbe preferito un altro candidato sindaco, subì quel risultato suo malgrado e dovette adeguarsi. E anche questo qualcosa avrebbe dovuto significare: quel risultato poteva portare a emersione quella nuova prospettiva, oltre la destra e la sinistra e verso il futuro, che da decenni alcuni ambienti avevano evocato e sognato e qualcuno anche praticato in percorsi solitari e d’avanguardia…
In altre parole, poteva essere, quel risultato, il segnale di quell’accelerazione che avrebbe trasformato definitivamente il ruolo e il profilo politico dell’area che proveniva da An. Ma non fu così: Alemanno e i suoi vissero purtroppo quella vittoria come la rivincita storica di una presunta identità di destra. Ma, come ha giustamente scritto Pierluigi Battista, la sinistra e la destra perdono, invece, “quando il loro marchio identitario, gelosamente custodito, si compiace della propria purezza. In una democrazia dell’alternanza, in cui non esistono rendite di posizione a vita, è essenziale parlare a chi non è già con noi, alla stragrande maggioranza degli elettori nomadi, non stanziali nei recinti delle immutabili identità”. Si vince, insomma, quando si conquistano attraverso progetti e programmi concreti gli indecisi, i cittadini normali, “quando – prosegue Battista – si parla un linguaggio che non è il gergo dell’identità ma risuona anche nelle menti e nelle emozioni dell’elettorato mobile, non inquadrato nelle strutture identitarie della militanza politica…”.


D’altronde, sin dal 1993, anche grazie all’elezione diretta dei sindaci e al nuovo sistema di voto maggioritario, s’era già avviata la rivoluzione che aveva portato alla rottura delle appartenenze e delle rappresentanze consolidate. Un processo che, tra i suoi frutti, creò anche le condizioni per il superamento del Msi e la nascita di An, un partito nuovo che avrebbe imboccato un cammino innovativo, a volte anche traumatico, ma che si poneva oltre i recinti della vecchia destra. Purtroppo, malgrado ciò che oggi dice Alemanno, le conseguenti tappe evolutive che seguirono – la lista con Segni e i radicali nel 1999 in polemica con Forza Italia, il successo elettorale di Alemanno nel 2008, quindi, e lo “strappo” di Fini con Berlusconi del 2010 – non sono poi state seguite, praticate e condotte fino in fondo da chi per una ragione o l’altra ha preferito ragionare in termini di rendite di posizione da salvaguardare e di “posti” in Parlamento da salvaguardare. Che senso ha adesso lavorare a una zattera che può puntare al cinque-sei per cento dei consensi e, in tutta evidenza, viene pensata per recuperare spezzoni di un ceto politico-parlamentare che ha alle spalle un fallimento politico e generazionale? Ora, come conclude Battista, chi a destra per troppi anni s’è trincerato e rassicurato solo sull’onda dei successi di Berlusconi può unicamente restare “nell’attesa di una inevitabile e rovinosa fine politica trascorsa nel calore identitario di una corte affollata di signorsì”.

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