giovedì 12 settembre 2013

I rischi della filosofia pop: non un ritorno a Socrate ma il sapere venduto nella carta delle caramelle



Fabrizio Baleani

In principio fu la meraviglia. Cominciamento e scaturigine d’ogni sapere. A incorniciare questa massima  per affiggerla sulla parete ingombra dell’immaginario d’un liceale arruffato qual’era chi scrive, ormai oltre un decennio fa,  fu una mingherlina professoressa, dal corpo piccolo e ossuto. Costei,  rattrappirebbe ancora di più nelle sue forme minute se sapesse che il celebre passo del libro alpha della Metafisica d’Aristotele,  contenente l’accenno allo stupore come causa della conoscenza,  è usato oggi per cedere quarti di nobiltà alla nascita, in seno al dibattito delle idee, nientemeno che d’una Popsophia. E  maggiore sbigottimento rapirebbe l’insegnante di cui sopra se quest’ultima scoprisse che l’autore d’una simile appropriazione, più o meno debita, non è uno dei numerosi saltimbanchi dell’industria culturale,  magari scarsamente interessato alle pellicole e ai libri che determinano la sua sopravvivenza  e affaccendato a esercitarsi nella dimestichezza coi sorrisi di rimando mentre bacia e abbraccia in scrupolosa sincronia con gli spazi orari bianchi della propria agenda.  No, a scomodare lo Stagirita è Umberto Curi,  storico del pensiero dell’Università di Padova curatore delle rassegne filosofiche di Poposophia  un festival ormai celebre, già di marca civitanovese, migrato,  nell’ultima edizione, a Pesaro, e frequentato, tra gli altri, da chi di mestiere medita,  provoca e formula  analisi affollando le pagine culturali dei nostri quotidiani e impreziosendo  approfondimenti  televisivi e talkshow. Teste lucide e celebrate.



La mole intellettuale di Massimo Cacciari, Giacomo Marramao,  Umberto Galimberti ed altri conclamati acumi peninsulari, offerta alle ruminanti materie grigie del vasto pubblico, in compagnia d’altri free lance della speculazione, impegnati annualmente  a ridefinire la materia del riflettere, calibrandola su temi popolari come la moda, la pubblicità, il porno,  le serie tv. Oltre a fornire il nome ad appuntamenti estivi gravidi di spunti sul contemporaneo, la filosofia popolare si candiderebbe al ruolo di vero e proprio genere culturale, tendenza legittima tra i territori riservati,  solitamente, a una pletora di accademici paludati e pedanti.  La ragione di questa singolare Kulturkampf capeggiata da uno sparuto ma influente gruppo di intelligenze, è tesa a recuperare la genuinità di un interrogare razionale, quello dei primi pensatori,  che nulla aveva di astrattamente intellettualistico e si  immedesimava, piuttosto,  con un modo di vita,  un’attitudine a passare al setaccio d’una  vertiginosa opera di ricerca, la realtà in ogni sua sfaccettatura. Secondo lo studioso ed editorialista del Corriere della Sera,  tra gli inventori della kermesse marchigiana, infatti, la filosofia nasce pop, i primi filosofi  venivano definiti  sophoi, ossia sapienti, tali erano considerati dai loro coevi concittadini non già perché coltivassero lo studio di una disciplina particolare, edificando cattedrali o presidiando cattedre, bensì perché vivevano  integrati in una comunità, dediti all’arduo compito di far prevalere la razionalità sull’ignoranza, la superstizione e l’idolatria. 



In questo ritorno alle origini, Curi precisa anche come i primissimi avventurieri di questo particolare tipo di prassi critica, tutti preceduti, secondo la tradizione e la manualistica, da Talete di Mileto, non  si sentissero custodì di verità prime o di culti inaccessibili, alla maniera di certi santoni, ma, al contrario,  venissero percepiti  come presenze utili a scandagliare i diversi lati della realtà sociale e politica. Erano, in sostanza,  coinvolti  nella polis, cittadini tra cittadini, parte di quel demos che si riuniva nelle assemblee, non una classe avvolta nel privilegio,  un’adunata di dotti rinchiusa nel fortilizio d’una Verità granitica. Lo squarcio sul Velo di Maya di quel pregiudizio deformante che insacca lo spazio della comprensione nelle ragnatele d’una torre d’Avorio,  avrebbe dunque radici presocratiche e sgretolerebbe  uno dei muri che i pop filosofi intendono distruggere armati del proprio pop martello nicciano: le dicotomie tra i saperi specialistici, ritenuti chiusi, astratti e sottratti al mondo dell’esistenza concreta. Sciolte le bende di quell’inganno, lo sguardo di un novello Prometeo incline a rubare nuovi e più moderni segreti agli Dèi si sposta su un oggetto del conoscere che non prevede separazioni e si mostra sconfinato, illimitato, non trascura nessuna prospettiva d’indagine. 



Toccò a Platone e, successivamente, ad Aristotele col sorgere delle scienze (le epistèmai) tenere  a battesimo l’accezione disciplinare (e autoreferenziale) della filosofia. Tuttavia, ben prima d’ogni algida tassonomia e classificazione dell’esistente nelle camere singole delle discipline specializzate, entrambi i due immensi  metafisici dell’antichità classica, sempre secondo Curi, sarebbero concordi nell’individuare l’aurora d’ogni ingegno speculativo nel thauma, ovvero in uno stupore o scuotimento precedente ogni formulazione sistematica, una dimensione affettiva presentata come alimento di qualsivoglia curiosità bramosa di farsi meditazione radicale. Sia i miti, vividi strumenti di densa verosimiglianza  maneggiati dall’Ateniese, sia l’arte Poetica, approntata  dall’autore dell’Etica Nicomachea  per decifrare il saporoso sapere delle passioni umane,  restituendone timori e tremori,  in uno sfavillio di storie e immagini a un tempo verosimili e contrarie alle aspettative di chi le scruta, sarebbero topoi di una “conoscenza  mossa dall’affetto”, un pathos educante, piacevole e  intimo, pregno, nell’opinione  del pop-sopho, della stessa profondità conchiusa nelle proposizioni di Spinoza.

La questione , tuttavia è nell’oggi.  Infatti, il  “fare” poetico e pratico, ammirato sotto una lente squisitamente attuale e popular, sembra non prevedere soluzione di continuità tra un dramma d’Euripide  e l’odierna società dello spettacolo.  Atene in questo senso è dappertutto, o, forse, da nessuna parte.  Appiattita in una gigantesca “pop-polis” telematica.  A risultare sovrana è la dimensione ludica,  la giostra dei giochi di parola e il gusto del paradosso telecomandato. In un climax ascendente d’eccitazione, Simone Regazzoni, uno degli ideologi del pop pensiero, ostenta intenzioni bellicose: “ Mi pare giunto il tempo di riportare la battaglia filosofica  nella cultura popolare(..) esiste una molteplicità aperta di mondi interconnessi, alla cui produzione e al cui conflitto, partecipano essenzialmente  i mezzi di comunicazione e la cultura di massa. La filosofia si trova immersa in questi mondi e deve prender parte alla loro trasformazione”. Ma il tenore di queste dispute più che al marziale vigore di statuari profili greci s’addice al lucore di ritoccati profili facebook.  Una perenne seduzione gorgiana, nel duello delle convinzioni a buon mercato. Un discorso di puro tono, celebrazione del non-sense, vita alterata, magari gioiosa, ma  gracchiante, ripetitiva  e fasulla come frasi bisbigliate da un megafono.  Intendiamoci non c’è nulla, tra queste righe, contro il divertissement colto. E tutti rimangono giustamente liberi d’elaborare e vendere, con l’aiuto di un paratesto accattivante, d’una grafica che emani leggiadrie,  dissertazioni ben congegnate su Superman o Lost, oppure d’analizzare le strisce di Charlie Brown,  come si succhia una caramella dal vago retrogusto esistenzialista. 



Ma se ogni questione di senso fosse condizionata  dalle norme di un dispositivo commerciale dominante che  ne dettasse i criteri di leggibilità, comprensione e affermazione, la  quasi totalizzante esperienza ipermedatizzata colonizzerebbe inevitabilmente  il  dibattito,  tramutandolo in una sorta di  cosmesi della conversazione pubblica, utile a immortalare carriere già affermate con l’imprimatur dell’approvazione  di massa, a spalmare nozioni e concetti sulle classifiche di gradimento aperte al plauso verso l’imperatività del main stream,  a ricalcare l’esistente spartendo nello specchio deformante d’un accorto opinion making indignazioni e compiacimenti  in un’arena  falsa come un parrucchino, nella quale ciascuno dirà esattamente ciò che da lui s’attende la platea dei cervelli a bombetta .  Occorre sempre ipotizzare un’alterità per sapere, altrimenti ogni profondità  resta nell’epidermide di  quel noto che non è mai conosciuto. Quando non esiste un oltre  a cui rivolgersi, lo stupore filosofico degli antichi è un usato balocco per la mente disperso  in un sistema di simulazioni e mediazioni interconnesse dove tante solitudini scambiano assensi e dissensi telematici, fiati d’un vivere liquido e senza fessure sul mondo, su nessun mondo che sappia permettersi una  qualche via di fuga, allentando i legami tra riflessione e consumo d’opinione .  Può darsi  sia un effetto di quella realtà integrale già tratteggiata dai presagi apocalittici di Jean Braudillard. Un episodio realmente accaduto  può chiarire meglio di cosa si tratti. Qualche anno fa una donna rumena è stata uccisa, con un pugno, a  una fermata della metropolitana di Roma. La percezione diretta di questo avvenimento è stata pressoché nulla: la folla ha continuato a fluire tranquillamente prima di accorgersi, o di accettare di accorgersi, che c’era una donna a terra. La percezione mediata, grazie alla solita telecamera di sicurezza che ha ripreso tutto, ha sollevato un’ondata di riprovazione per l’assassino. Siamo a quell’aporia massmediologica secondo la quale se un albero cade nella foresta e la televisione non lo riprende, l’albero non è mai caduto. Pensare non fa eccezione. Quando è finalizzato a trasformarsi in una strategia di vendita  appesa come un’altalena  al cielo della domanda e dell’offerta somiglia a una notizia sgranocchiata dalle mascelle d’un clamore crepitante e perde il suo oggetto in una catena ininterrotta di surrogati della cognizione. In questo caso anche la filosofia, divenuta pop, sarà identica alle tante altre maschere che essa pretende o  finge di dismettere.  Proprio mentre ne indossa altre, con un’aria un po’ più disinvolta. Una posa. Ovviamente graditissima , in grado di propagarsi. Dolce, suadente e ballabile. Un pezzo da hit parade.


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