sabato 21 settembre 2013

L'avventurosa storia del fondatore del Corriere della Sera



Alberto Pezzini

Come fa un giornalista a scrivere di persone e cose di un secolo fa senza la minima fatica? È quanto ha fatto Massimo Nava in Il garibaldino che fece il Corriere della Sera (Rizzoli, pp. 285, euro 19,50), un libro dove il giornalismo non si beve, ma si raccoglie a piene mani. Massimo Nava è editorialista e inviato per il Corriere della Sera oggi – da Parigi – ed è capace di scrivere di storia senza annoiare neanche un minuto. Praticamente un record. Soprattutto con un libro che racconta del giornalista che inventò e diresse quello che diverrà il più autorevole quotidiano italiano: il Corriere della Sera.


Eugenio Torelli era un napoletano alto e biondo, innamorato delle brume settentrionali, quelle che aleggiano sui laghi della Lombardia. Non soltanto seguirà Garibaldi nel 1860, ma avrà a Napoli in Alexandre Dumas padre e ne L’Indipendente la nave scuola della propria vita. Da lui imparerà l’arte dell’immagine efficace e una scrittura mobile, già moderna per quei tempi. Si amalgameranno insieme tanto da sembrare una sola penna. Quando Dumas spiegava, innamorato della cucina per cui scriverà un dizionario in anticipo sull’Artusi, che la pizza a otto così era chiamata perché il suo impasto veniva fatto lievitare per circa otto giorni, Eugenio gli evitava la magra figura spiegandogli che i napoletani in realtà la pagavano otto giorni dopo, a causa delle magre condizioni economiche. Quando Dumas decise l’avventura in America, Eugenio osò rispondergli che non avrebbe potuto fargli da segretario per tutta la vita. Dumas comprese e gli lasciò un biglietto :”Mio caro Eugenio, alla mia età non si può più parlare di avvenire. Ma finché io vivrò avrete sempre diritto al mio sole nei giorni d’inverno e alla mia ombra nei giorni d’estate”.
La sua vita era cominciata lì, in quell’orgoglioso rifiuto. Andrà a Parigi, e poi a Milano per l’editore Sonzogno. E siccome sua mamma era una francese, Josephine Viollier, lui aggiungerà quello materno al suo cognome: Eugenio Torelli Viollier. Scriverà per il Secolo di Sonzogo, a fianco di Felice Cavallotti, che con lui sarà meschino. Stava intanto cominciando a pensare a un giornale nuovo, moderato e indipendente. Guardava ai giornali inglesi, i migliori d’Europa, e stava attento a non compromettersi mai politicamente. La sua equidistanza e imparzialità – che subito verranno viste come un difetto – diverranno in seguito una dote aggiunta. Eugenio fonderà il Corriere che sarà della Sera perché uscirà nel tardo pomeriggio bruciando ai blocchi gli altri giornali. Il primo numero divorerà più di quindicimila copie con la data 5/6 marzo 1876 alle 21, primo giorno di Quaresima, quando a Milano i giornali per tradizione non escono. Fu il primo colpo di Eugenio che – conoscendo i suoi nemici – decise di devolvere il primo incasso in beneficenza per controbilanciare le malelingue. Già di lì, da quell’intuizione strategica, si capì che non era soltanto un giornalista capace di scrivere in anticipo sugli altri, ma possedeva una visione moderna del giornalismo. Inventò il giornale collettivo, dove anche il tamburino poteva avere un’importanza fondamentale. Nessuna notizia veniva trascurata, e le pagine dovevano essere tematiche. La sua dote fu la moderazione, la capacità di smarcarsi sempre a livello politico così da impedire a chiunque di mettere la mordacchia alla sua indipendenza.
Quando Eugenio Torelli si dedicava alle elezioni non parteggiava mai per un candidato, ed affiggeva immediatamente sul cartellone a muro – tre ore prima degli altri giornali e prima ancora che sul giornale vero e proprio – i risultati. Il suo principio era l’informazione avanti tutto. Era un direttore d’orchestra che si chiudeva nella propria stanza – dopo avere dettato le istruzioni a tutti – lasciando socchiusa la porta in modo che il cordone ombelicale fosse sempre visibile con il resto del giornale. Fu un giornalista puro, uno scrittore mancato al quale la carta stampata faceva anche da famiglia. Portò il fratello a fare l’amministratore – il primo e ultimo del Corriere a non essere pagato – la sorella Luisa a casa, anche se la stessa sarà responsabile del suo divorzio con una bella donna dotata d’ingegno e di un’esperienza di vita troppo spigliata per lui che ricercò l’amore tutta una vita. Restò un romantico inflessibile che sapeva fiutare il vento della notizia. Quando morì Vittorio Emanuele II ebbe un colpo d’ingegno. Di solito tutti i giornali ripetevano a pappagallo le giornate del sovrano morente scandite dai bollettini medici. Una pena e una noia mortali, appunto. Torelli capì che l’argomento non si poteva sprecare così. Mise la morte in prima pagina. Raccontò per qualche giorno gli antefatti, i particolari inediti anche se verosimili, i pettegolezzi, quello che mancava alla cucina degli altri giornali. Il pubblico rispose. Sembrava che il Corriere ne sapesse sempre di più. Si trattò del primo, vero reportage di costume, in cui il particolare fece la differenza. Come gli aveva insegnato Dumas. In effetti, se si legge la prosa di Torelli oggi, non si può non restare impressionati dalla modernità della lingua e delle sue immagini. Torelli si rivolgeva al pubblico e nel primo editoriale fu sincero fino alla ruvidezza. La gente lo amò. Lo intitolò “Siamo conservatori e moderati, ma teniamo al progresso”, e fu un articolo che ancora oggi potrebbe essere letto nelle scuole di giornalismo per la sua concretezza e la mancanza di paura sulla pagina, la limpidezza, l’arte di dire tutto in modo diretto senza timore di sbagliarsi. Ma la cosa più importante fu la capacità e la determinazione che impresse alla sua idea:fare finalmente un giornale che non fosse a tesi, soltanto a due suonate, una per esaltare i meriti de’ suoi amici, una in minore per gemere su’ demeriti degli avversari. Su questa idea si appostò la grande differenza tra Torelli e gli altri. Il Corriere diventerà l’organo d’informazione preferito dalla grande borghesia lombarda che nei suoi articoli prese a specchiarsi senza paura. Nel frattempo Torelli conoscerà l’agiatezza, la disperazione privata datagli da un divorzio che concluderà un matrimonio di soli due anni celebrato con la donna sbagliata. Finirà male anche perché accelerato dal suicidio della nipote, venuta a vivere con la coppia per desiderio espresso della moglie. Eugenio resterà un uomo innamorato dell’altrove, privo di una vera famiglia che ricercherà sempre. I suoi amori vicari resteranno le case che acquistava purché grandi, enormi, per “famiglie” quasi a compensare un vuoto specifico ( spenderà più di un milione di lire del tempo per edificare un palazzo nel centro di Milano) e per acquistare una villa sobria sul lago di Como, dove Bellini aveva composto la Norma. Lì occuperà la stanza del compositore e in quella casa vivrà come direttore del giornale “a distanza” , come si definiva lui, quando la sua creatura dimostrava già una autonomia inusitata.


Torelli Viollier morirà il 26 aprile del 1900. I suoi nemici, quelli del Secolo, non gli perdoneranno mai di averli “traditi”, ma dimostreranno soltanto di non riconoscere i meriti dell’unico giornalista con una visione assolutamente nuova, davvero incendiaria per i tempi, e forse anche per oggi. Gli riconosceranno soltanto l’onore delle armi, ma non giornalistico, bensì quello più riduttivo rappresentato dal fatto di avere beneficato redattori, proti e giornalisti in genere. Gli ultimi anni sul lago furono per Torelli forse abbastanza sereni, anche se tristi. A Nava non è sfuggito che a Villa d’Este (uno dei più begli alberghi del mondo sbocciato proprio in quegli anni e in cui Eugenio si recava per fare un po’ di vita mondana) le luci delle stelle si confondono con quelle tremolanti delle candele accese sulla terrazza. Di notte. A noi piace pensare che una di quelle luci sia la stella di Torelli, quella del Corriere della Sera.

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