giovedì 28 novembre 2013

L'accordo sul nucleare in Iran non acquieta il Mediterraneo. Ecco cosa si muove in Siria




Soso
Pace in terra, agli uomini di buona volontà. Ma se la volontà non ce la mettono tutti… sarebbe meglio non ricordare, ad esempio, che Gavrilo Princip - il serbo che assassinò l'arciduca d'Austria Francesco Ferdinando - col suo gesto di Sarajevo porta tutta la responsabilità del terribile 1914, perché quella tragedia era pronta per ben altre decisioni e interessi.
Un secolo dopo e cioè adesso, Obama e il presidente iraniano Rohuani assistiti da Putin si accordano e regalano a tutto il mondo la possibilità di vivere davvero meglio, cioè senza il conflitto annunciato e che evidentemente è possibile comporre.
Il capo dei servizi segreti sauditi e la sua intera monarchia ereditaria, che già aveva minacciato il presidente russo di "attivare" i kaedisti ai giochi invernali di Soci, chiaramente non è d'accordo. Una parte del vasto fronte internazionale inoltre, che negli ultimi tre anni abbiamo visto accerchiare e aggredire lo stato sovrano siriano, sta operando in diversi modi perché quella pace non si inveri: il primo è l'addestramento di una nuova ondata kaedista stimata in 40.000 guerriglieri, da rovesciare contro Damasco per una nuova offensiva che impedisca la fine del conflitto. Un altro modo è costituito da attacchi meno asimmetrici ma convenzionali, non rivendicati e quindi non meno pericolosi e destabilizzanti, contro centri strategici dell'esercito di Assad.
Proprio oggi che parte delle forze insurrezioniste schiettamente siriane, rivedono ormai le proprie posizioni e cessa il combattimento o addirittura cambia fronte, per difendere la patria da quella che ormai è solo una invasione internazionale kaedista. Proprio oggi il fronte nord, adiacente al confine turco, ormai si caratterizza per una offensiva strategica dell'esercito nazionale siriano, soprattutto nello scontro decisivo di Aleppo. Ebbene, invece il fronte sud e cioè quello giordano-libanese, vede nuove operazioni e nuove minacce, direttamente rivolte contro l'accordo Usa-Iran appena conseguito; questa è infatti una delle questioni vere che determinano la guerra siriana: il confronto regionale saudita-katariota con la repubblica islamica.
L'altro motivo che mai ci viene ricordato, è il mare di gas e petrolio che nel Mediterraneo orientale ha già attirato l'interesse multinazionale e non certo delle sole aziende: se per la prima volta Cipro e cioè uno stato della Comunità Europea, potrebbe ospitare un paio di basi dei paracadutisti russi, comprendere meglio quello che succede rientra sicuramente nel nostro interesse di cittadini italiani.

Storia del Secolo. Il Sessantotto e gli "stracci rossi" all'Università



Annalisa Terranova
Che la destra non abbia capito il Sessantotto, che lo abbia avversato in nome di un ordine astratto e di un sentimento tramontato delle gerarchie, che lo abbia eletto a bestia nera per un mero calcolo elettorale, è cosa nota e alquanto dibattuta nel cosiddetto “ambiente”. La vulgata è purtroppo radicata anche nell’attuale centrodestra, complici le analisi di Marcello Veneziani, ed è stata più volte riportata in auge dall’ex ministro Mariastella Gelmini, secondo la quale sarebbe sufficiente più severità sul voto in condotta per controbilanciare i “guasti del Sessantotto”. Quando ha raschiato il fondo del luogo comune certa destra si ricorda anche di citare Pasolini che a Valle Giulia parteggiava per i poliziotti e non per gli studenti. Ovviamente il Secolo dell’era Michelini si distinse in questo tipo di atteggiamenti, nonostante l’iniziale titubanza dell’allora capo del Fuan Cesare Mantovani che non ignorava che molti giovani missini erano parte attiva nelle contestazioni e nelle occupazioni degli atenei. Tuttavia sulle colonne del Secolo si denuncia la strumentalizzazione delle agitazioni studentesche da parte di una minoranza di orientamento marxista, si sottolinea che gli studenti si ritraggono dalle occupazioni per non mischiarsi con i più facinorosi. Si sceglie la linea minimalista della disciplina deludendo la base giovanile e si gettano anche le basi dello stereotipo del compagno “zecca” e dell’antifemminismo nei confronti delle ragazze impegnate politicamente: “I maschi hanno tutte le caratteristiche psicosomatiche dei protestatari di professione: barba incolta e maleodorante, abbigliamento degagé ed occhio con espressione adirata. Le studentesse invece, se non per la femminilità degli atteggiamenti, si distinguevano per la generosità delle minigonne” (da un articolo del Secolo intitolato“Anarchia all’Università”). Ben presto questo tipo di linguaggio degenera nella pura propaganda. Gli studenti barbuti diventano la “teppaglia di sinistra” e le contestazioni una “manovra demagogica delle sinistre tendente a portare il caos nelle università”: “Alle finestre dei locali occupati o dietro i cancelli le espressioni ebeti di straccioni ed invertiti colmi di capelli, lerciume e pidocchi…” (da un articolo del Secolo intitolato “Una carnevalata che è durata anche troppo”).
Si arriva così agli scontri di Valle Giulia del 1° marzo 1968 con giovani fascisti e comunisti uniti contro le forze dell’ordine: quelli di destra racconteranno sulla rivista L’Orologio: “Loro gridavano Polizia fascista! Noi cantavamo All’armi!”. Il Secolo segue la linea conservatrice di Michelini (anche se a Perugia e Napoli a capo delle occupazioni c’è il Fuan) titolando “Il Pci scatena la piazza”, nell’articolo di fondo (“I docenti nel tumulto”) si legge che “una speculazione a freddo viene messa in funzione dalle Botteghe Oscure per cercare quel clima di anarchia e di terrore nel quale il ritorno all’ordine dovrebbe essere solo possibile offrendo ai comunisti l’inserimento nel governo”. E si arriva così alla mesta giornata del 16 marzo 1968, che Adalberto Baldoni definì “il suicidio della giovane destra”, con i volontari di Alberto Rossi e la “palestra” di Angelino Rossi, i dirigenti Massimo Anderson, Pietro Cerullo, Cesare Mantovani, Sandro Tribuzi (che scriveva sul Secolo i resoconti sulle contestazioni), Michele Marchio e Romolo Baldoni, i deputati Giorgio Almirante, Raffaele Delfino, Luigi Turchi e Giulio Caradonna, tutti insieme in unica schiera per cacciare dall’università gli “stracci rossi”. Davanti alla facoltà di Lettere si svolse una vera e propria battaglia, i neofascisti che occupano Giurisprudenza invece rifiutarono di partecipare agli scontri con gli altri camerati e difesero l’unità generazionale del movimento studentesco restando inermi spettatori. La trovata di Michelini di far virare il Msi e le sue organizzazioni giovanili verso una linea d’ordine e questurina provocò una diaspora nelle file del Fuan e degli altri movimenti fiancheggiatori e non pagò elettoralmente (il Msi alle elezioni del maggio ’68 passa dal 5,1 al 4,4%).  La prima pagina del Secolo del 17 marzo è da dimenticare. Titolo: “Basta con gli stracci rossi. Il tricolore all’università!”. Sommario: “Nella città universitaria romana, gli universitari del Fuan hanno impedito ai comunisti, con una entusiasmante manifestazione di forza, di conquistare definitivamente lo Studium Urbis. Il presidente del Fuan Mantovani e il dirigente giovanile Anderson hanno guidato l’operazione per liberare l’università dalle canaglie rosse”. Catenaccio: “Dura lezione ai sovversivi durante tre ore di scontri”. In prima pagina anche l’elogio di Michelini agli attivisti che si erano scontrati con i “teppisti marxisti”. Forse per una vendetta del destino quella pagina assai nota non è più consultabile: nell’archivio del Secolo non c’è la collezione dell’anno 1968, danneggiata da un allagamento che colpì la sede di via Milano.
L’evento seppellì a lungo ogni possibilità per la destra giovanile di presentarsi con le carte in regola ai successivi appuntamenti dei movimenti studenteschi e universitari. Vi pose rimedio il Fronte della Gioventù degli anni Ottanta con una manifestazione a Valle Giulia che intendeva risanare anche le antiche ferite di vent’anni prima. Io ero presente e con me molti altri cresciuti con la convinzione che avesse ragione Adriano Romualdi nel criticare con lucida ferocia l’atteggiamento della destra nei confronti del Sessantotto: “Seppellita sotto un cumulo di qualunquismo borghese e patriottardo la destra non aveva più una parola d’ordine da dare alla gioventù. In un’epoca di crescente eccitazione dei giovani, essa diceva loro ‘Statevi buoni’. Fossilizzate nelle trincee di retroguardia del patriottismo borghese, le organizzazioni giovanili ufficiali vegetavano senza più contatto alcuno col mondo delle idee, della cultura, della storia”.
Nonostante la linea di retroguardia scelta sulle occupazioni da Michelini, il Secolo nel maggio del ’68 ospita nelle pagine culturali un dibattito tra i giovani dirigenti sul “fenomeno beat” (coordinato da Adalberto Baldoni) in cui viene assimilata la ribellione della beat generation alle pagine di Nietzsche, di Cèline e di Drieu La Rochelle. Ancora una volta, sul piano culturale, la destra mostra di avere i paradigmi e la profondità di analisi necessarie per dialogare con il mondo esterno ma a livello politico una dirigenza miope, attestata sulla trincea della destra d’ordine, impedisce di andare al di là della propaganda sugli “stracci rossi” all’università.
Nel quarantennale del Sessantotto sul Secolo Luciano Lanna ha pubblicato una revisione da destra a puntate degli eventi del Sessantotto. Da quegli appunti Gianfranco Fini trasse motivo di riflessione per la rivalutazione pubblica del movimento al convegno di Liberal per il quarantennale del Sessantotto. Disse che forse la destra all'epoca aveva sbagliato. Una provocazione dimenticata e finita anche'essa nella lunga, retorica, filiera di argomenti per dimostrare che il "compagno" Fini si era spostato a sinistra. 

martedì 26 novembre 2013

Storia del Secolo: la campagna contro il 25 aprile, la pacificazione e il discusso corsivo di Conan su "Bella ciao"





Annalisa Terranova
Facciamo un piccolo passo indietro, al 1955. Per quella data, decennale del 25 aprile, il Secolo lancia una campagna contro la celebrazione di quella ricorrenza. Un appello cui aderisce il grande storico Gioacchino Volpe, scrivendo al giornale una lunga lettera sul reale significato del 25 aprile 1945, non giornata di liberazione ma di “sconfitta piena” della nazione “nell’ordine morale e nell’ordine materiale”. Volpe, con profondo acume storico, negava a quegli eventi ogni capacità catartica rispetto all’Italia. “Ci fosse stata almeno, nell’Italia del 1945, una franca, libera, schietta rivoluzione: una Italia antifascista contro una Italia fascista o una rivoluzione di proletari contro i borghesi, con tutti i rischi e pericoli annessi e connessi ad una rivoluzione. Sarebbe stata la prima vera rivoluzione italiana, con le sue miserie e grandezze. Ma no: si aspettò la guerra esterna e la sconfitta. Tanti, senza fine, che nel ventennio avevano vestito orbace; tanti che, più o meno avversi, avevano ottimamente vissuto; tanti che, avversi, avversissimi, non avevano mai mosso un dito o detto una parola di protesta, si fecero liberatori, diventarono leoni. No, non sono stati giorni fausti nella storia del popolo italiano. Non il meglio di sé ma il meno buono esso dimostrò”. Alla campagna del Secolo aderirono il filosofo ed ex ministro Balbino Giuliano, Valerio Borghese, il chirurgo e medaglia d’oro al valor militare Raffaele Paolucci, l’accademico Roberto Paribeni, il docente di diritto del lavoro Gianni Roberti, il penalista Enea Franza, il patriota istriano padre Orlini, Alfredo Cucco, il chirurgo Luigi Condorelli, la medaglia d’oro al valor militare Carlo Delcroix, il luminare del diritto Giorgio Del Vecchio lo scrittore Edmondo Cione e i reduci dalla prigionia sovietica.
Il Secolo in occasione della campagna contro il 25 aprile pubblicò i resoconti delle stragi compiute dai partigiani: una documentazione che costituisce il primo nucleo del famoso libro inchiesta di Giorgio Pisanò “Sangue chiama sangue”, che uscirà nel 1962. Il Secolo raccolse in un fascicolo tutta questa documentazione, che si concludeva con le lettere dei condannati a morte dalla resistenza. Fu venduto a 200 lire e dovette acquistarlo anche mio padre, visto che tra le sue carte io l’ho ritrovato. Ha una copertina tricolore con il seguente titolo: “No al 25 aprile. Sì alla pacificazione”.
Poco dopo la mia assunzione al giornale, nell’estate del 1991, l’ex partigiano Otello Montanari fece scalpore con la sua operazione “Chi sa parli”, in cui chiedeva ai suoi di dire la verità sulle stragi del dopoguerra nel cosiddetto “triangolo della morte”. Il Secolo seguì con entusiasmo la vicenda. Pino Rauti andò a Reggio Emilia e a Bologna per fare una serie di convegni sull’argomento. Al suo seguito fu mandato Camillo Scoyni, all'epoca praticante. Poiché la magistratura aveva riaperto le indagini su alcuni omicidi post-’45 lui si recò dove i magistrati avevano ordinato di scavare alla ricerca dei resti degli assassinati. Ci si aspettava che trovassero ossa umane, invece lui scrisse testualmente nell’articolo che avevano ritrovato ossa di animali, probabilmente di pollo. Noi ridevamo come pazzi leggendo il suo resoconto, invece Aldo Giorleo si arrabbiò: lo trovava dissacrante. Tagliò la parte sulle ossa di pollo sbuffando. Poi, noi ci aspettavamo epici scontri tra missini e compagni (che avevano contestato la presenza di Rauti in Emilia). Invece Scoyni scrisse nel suo pezzo che di compagni non ce n’era neppure l’ombra e che ad ascoltare Rauti c’era una platea di innocui vecchietti (e neanche tanto folta, ci raccontò per telefono). Giorleo dinanzi a quel resoconto, così veritiero e privo di pathos, non sapeva come fare: “Bisogna metterci un po’ d’emozione, e che cazzo…”.  All’epoca, mentre già era pronta la documentazione che poi gli sarebbe servita per i suoi libri di successo, Giampaolo Pansa non pensava affatto che si dovesse parlare del sangue dei vinti: anzi fu proprio lui la punta di diamante dello schieramento che avversava Montanari come pericoloso “revisionista”. Dopo, soffiando con forza il vento berlusconiano, deve aver cambiato idea.
E arriviamo al 2007. Giampaolo Pansa è ormai un “santino” della destra anticomunista, quello che ricorda che i “comunisti mangiavano i bambini” e rassicura le identità rocciose. Succede che un cantante, Biagio Antonacci, dichiari che la canzone “Bella ciao” non ha per lui nulla di politico, che gli sembra solo un inno alla libertà. È la quintessenza del post-ideologico. Il Secolo commenta la notizia con un corsivo di Conan (pseudonimo su cui si favoleggiò alquanto, e che era solo il nome de plume di Filippo Rossi) nel quale si dice che si potrebbe cantare come Biagio Antonacci “Bella ciao” come una qualunque canzonetta, non come inno partigiano, per celebrare attraverso l’emozione il superamento degli odi ideologici. Quel corsivo divenne un caso e uno dei capi d’accusa più pregiudiziali contro il Secolo “di sinistra” di Lanna e Perina. Poiché io penso che nessuno di chi strillò allora l’abbia letto ne riproduco la parte finale: “È impossibile infatti condividere la storia, ma gli stati d’animo, la musica e l’immaginario, sì. E dopo la risposta così poco ideologica, così poco astiosa, così poco “partigiana” di Antonacci, viene quasi da pensare all’ipotesi di ripensare a quella canzone ma estrapolandola dal suo specifico contesto storico, pensando solo a una bella ragazza e alla libertà… Altro che la Bella ciao pesante di Michele Santoro”. Premesso che io Bella ciao non la canterei, in questo corsivo non ci trovo niente di scandaloso. Certo, bisogna avere senso della notizia per capire da dove nasce e come nasce. Ma la reazione che suscitò ricorda, fatte le debite proporzioni, i cornificiani contro cui ironizzava Giovanni di Salisbury, i difensori di un’ortodossia inesistente che è solo ostacolo alla libertà e alla bellezza del pensare. Infine un’ultima annotazione: durante una vacanza in montagna con i miei figli nel gennaio 2012, in albergo al tavolo vicino a noi c’era una ragazzina di Reggio Emilia di circa cinque anni che ogni mattina, a colazione, cantava “Bella ciao” come se fosse la canzonetta di un film di Walt Disney. Dunque, aveva ragione Conan o i suoi detrattori? O vogliamo sostenere che la bimbetta di cinque anni è una pericolosa comunista o che i suoi genitori sono zecche irrecuperabili? Io preferisco attenermi all’invito del Secolo del 1955: sì alla pacificazione.

lunedì 25 novembre 2013

Perché l'accordo di Ginevra sul nucleare in Iran è davvero "storico"





Soso

"Questo accordo è un primo importante passo e apre il tempo e lo spazio per andare avanti con nuovi negoziati e raggiungere entro sei mesi un accordo generale''. Lo ha detto il presidente americano Barack Obama commentando a caldo lo storico accordo raggiunto a Ginevra tra il gruppo 5+1 e l'Iran. Il presidente americano ha chiesto ufficialmente, in diretta tv, al Congresso di non imporre nuove sanzioni contro Teheran, che “potrebbero far saltare questa intesa di Ginevra, che è un primo passo promettente."
Dunque trovare un accordo regionale è possibile: parlare di Siria significa infatti mettere a fuoco le cause tutte esterne di quella guerra e il nucleare iraniano ne è sicuramente una, determinante. Parlare di Siria significa ricordare che questa repubblica laica e multiconfessionale è l'alleato principale per la dirigenza iraniana, che considera la sorte di Damasco un proprio problema nazionale.
Parlare di Iran-Siria significa considerare Hizb-Allah, il principale partito shiita libanese la cui componente militare combatte in Siria per Assad ed è stata dichiarata dall'UE, troppo disinvoltamente, organizzazione terroristica.
Parlare di Libano-Siria significa cercar di capire il cui prodest del grave attentato all'ambasciata iraniana a Beirut: chi vuole condizionare cosa in una situazione internazionale così gravida di mutamenti?
Vedere il capo della giunta militare egiziana, generale Al Sisi, trattare col ministro degli esteri di Mosca Lavrov per una base navale russa ad Alessandia e assistere alla rotazione di 180 gradi del presidente turco Erdogan, che in politica estera si orienta ora verso Iran e Iraq, significa valutare eventi radicalmente innovativi che derivano tutti da un dato indiscutibilmente centrale: l'esercito nazionale siriano ha quasi definitivamente riconquistato il proprio spazio statuale, ma soprattutto ha fermato lo tsunami militare, politico e confessionale che immediatamente dopo la Siria, avrebbe inondato il Caucaso, l'Iran e l'Europa. L'Italia in primis, subito dopo i balcani neo-ottomanizzati.

domenica 24 novembre 2013

Quell’ombra tragica nella vita di Paolo Ferrari e Giovanni Sartori che ricorda Gentile


Luciano Lanna

Paolo Ferrari, l’attore che è stato la voce italiana di Humprey Bogart e David Niven, che negli ’50 e ’60 è stato una straordinario interprete dell’Opera da tre soldi di Brecht, e che è impresso nell’immaginario dei quaranta-cinquantenni per lo spot dei fustini Dash ha oggi ottantaquattro anni. Intervistato da Repubblica, racconta come da tempo vive nella sua casa di Castelnovo, vicino a Lecco, ascoltando Beethoven e leggendo Rilke: “Qui ho tempo per ampollosamente guardarmi dentro, per guardarmi quel che succede e farmi qualche domanda…”. E confessa che in una vita lunga e luminosa come la sua, la sola ombra oscura è stata la morte del fratello, Leopoldo, che era stato fascista e morì annegato nel lago di Como: “Era il ’45, eravamo sfollati. Una mattina mi salutò dicendo che doveva andare in un posto. Lo vidi allontanarsi con un uomo, non tornò più. Lo giustiziarono i partigiani. Per me fu uno shock. Dormii per cinque giorni consecutivi…”. Oggi, quasi settant’anni dopo, il ricordo di quella tragedia familiare può riemergere, senza più rancori strumentalizzabili: “Mi piace ricordare – ricorda l’attore – che quando il padre di un suo amico gli aveva proposto di aveva proposto di fuggire per salvargli la vita, Leopoldo aveva risposto: ‘Questa divisa l’ho presa, l’ho portata, ho la coscienza pulita, non la tolgo e accada quel che deve accadere'…”.




Sempre su Repubblica, ma domenica scorsa, per la serie delle interviste ai grandi vecchi italiani di Antonio Gnoli, era invece apparso un colloquio con Giovanni Sartori, l’ottantanovenne decano dei nostri politologi. Dove, a un certo punto, l’intervistato ricorda il suo 1944 da ventenne: “A quel tempo fui richiamato alle armi e mi guardai bene dal presentarmi. E sapevo che se venivo preso sarei stato fucilato da traditore…”. A quel punto Sartori si rifugia a Firenze nella casa di un suo zio: “Restai lì, senza quasi mai uscire dalla stanza. I giorni passavano lenti fino a quando scoprii che in casa c’era una biblioteca rifornita di testi filosofici…”. C’era tutto Hegel, poi Croce e Gentile: “Li lessi tutti, fu così che a vent’anni ebbe la mia iniziazione filosofica… Gentile poi scriveva in un italiano bellissimo”. E del filosofo di Castelvetrano, Sartori aggiunge un interessante ricordo pacificatore: “Lo avevo intravisto che ero ragazzo. Non posso dirlo di averlo conosciuto, ma restai colpito dal suo omicidio. Mi sembrò una cosa assurda e crudele. Lo trucidarono non lontano da casa sua, alle pendici della sua casa per Fiesole. Era stato sì fascista, ma il suo comportamento concreto fu generoso verso molti ebrei che aiutò a far scappare e verso parecchi intellettuali antifascisti. Tanto è vero che ancora oggi nessuno ha avuto il coraggio di attribuirsene la responsabilità. Andai alle sue esequie in Santa Croce. Fu un impulso che avrei potuto pagare gravemente”. E a Gnoli che gli chiede come mai non ebbe remore a rischiare di persona per quell’omaggio a Gentile, Sartori si limita a rispondere: “Ero, credo, il solo giovane in quella chiesa deserta. E dietro diverse colonne c’erano agenti in borghese che mi spiavano con sospetto. A un certo punto, all’uscita, fui fermato da uno di loro. Pensava che fossi un partigiano. Gli spiegai che in realtà ero lì per rendere omaggio a un uomo che avevo stimato…”. 

Storia di chi fugge e di chi resta: e restiamo ancora indecisi tra Elena e Lila...



Annalisa Terranova

Si lascia leggere come gli altri il terzo libro della saga femminile di Elena Ferrante ("L'amica geniale", "Storia del nuovo cognome", "Storia di chi fugge e di chi resta") che attraversa l'inquieto dopoguerra attraverso la storia di due amiche, Elena e Lila, cresciute in un rione napoletano povero e pieno di maschi sboccati ma protettivi. E' che anche qua non si mette ancora il punto finale. La storia va avanti. E a parte lo stereotipo dei fascisti picchiatori dei sindacalisti davanti alle fabbriche (che appare in questo terzo libro e che mi ha un po' infastidito), questo seguito del racconto conferma ciò che da subito ho pensato fin da quando si sono materializzate sulla pagina scritta Elena e Lila. Questa è la storia del riscatto femminile attraverso lo studio. Che non rende sempre le donne più felici ma più consapevoli. Che cos'è stato studiare per le donne? Una via di emancipazione personale, senza passare necessariamente per il femminismo. Ma anche un modo per somigliare ai maschi, per attirare il loro rispetto e, da ultimo, per conquistarli. E' così che Elena seduce gli uomini, mentre Lila può contare solo sul suo fascino di sirena. Eppure, maschi e femmine non studiano nello stesso modo. I maschi coltivano l'autostima, le femmine sentono il rischio di restare sopraffatte. E poi c'è la scrittura come dono. Elena scrive per i suoi amori. Ma sembra che elabori compitini a casa. Quando sono gli uomini a scrivere per le donne, c'è sempre nella loro offerta qualcosa di geniale (più noiosi, di sicuro, quando scrivono solo per sé). Ciò che Elena studia rimane in superficie e in realtà il suo affannarsi sui libri non significa più niente dinanzi alla tentazione di concedersi, come tutte le donne del rione dov'è cresciuta, al ruolo tradizionale di moglie o amante privilegiata. La sua emancipazione attraverso lo studio e la scrittura alla fine risulta fallimentare. 




Poi, c'è la storia di un'amicizia. Un'amicizia tra donne, con quel sottofondo di rivalità complesse, sfuggenti, inconfessabili che allontanano a dispetto della vicinanza dovuta all'affetto. Le due amiche sono una specchio dell'altra. E come sempre accade, in tutte le amicizie, una trae forza dall'altra, segnando irrimediabilmente la propria subalternità. E infine, ci sono gli uomini: non uno che riesca bene. Né padri, né fratelli, né mariti, né fidanzati. Convincono solo quelli che si assumono le proprie responsabilità senza tante chiacchiere. Peccato che siano comunisti...



Ma alla fine, dopo tante pagine divorate con curiosità e partecipazione, una si ritrova sia in Elena che in Lila. Non sa decidersi a scegliere, perché le tante sfumature alla fine non determinano figure nette e precise. E spera che, se ci sarà un quarto libro (il finale resta aperto quindi è probabile di sì) si riuscirà finalmente a capire se Elena ha una sua volontà oppure no e se Lila è una strega invidiosa oppure l'emblema della donna moderna, che in ogni caso ce la fa da sola. 

Storia del Secolo. Quando nacque il Bagaglino




Luciano Lanna
Lello Della Bona e altri quattro colleghi giornalisti di destra si ritrovarono infatti duecentomila lire e un contratto d’affitto per una cantinaccia umida e fangosa a vicolo della Campanella, angolo via di Panico, a due passi da piazza Navona. Erano i primi di settembre del ’65 e l’idea era quella di portare anche nella capitale il cabaret, un locale con spettacolo, satira e musica sul modello del Derby, il primo esperimento italiano del genere, dove avevano debuttato Enzo Jannacci, Cochi e Renato, Bruno Lauzi. Esistono ancora i verbali delle riunioni preparatorie di quella pattuglia romana di rivoluzionari della satira: “Il segretario generale e responsabile amministrativo Raffaello Della Bona, giornalista del Secolo d’Italia, avverte tetramente che soltanto una media affluenza di diciotto persone per sera avrebbe consentito le spese di gestione ordinaria, dimenticando l’affitto; Pier Francesco (Ninni) Pingitore, redattore capo del settimanale di destra Lo Specchio ed ex dirigente del Fuan, scommette sulla presenza di almeno venti spettatori a sera; Mario Castellacci, giornalista del Giornale Radio Rai e autore della più famosa canzone repubblichina, “Le donne non ci vogliono più bene”, conferma; Piero Palumbo, giornalista anche lui a Lo Specchio, e Dimitri Gribanovski, il musicista del gruppo, sono pessimisti. Soltanto il presidente Luciano Cirri, capo della redazione romana del Borghese, giura su un minimo di venticinque…”. Oltretutto il neonato cabaret si sarebbe dovuto chiamare Bragaglino in omaggio al futurista Anton Giulio Bragaglia ma gli eredi rifiutarono di concedere l’autorizzazione. E così, cancellata la “r” si decise per Bagaglino. “Non significa nulla – si leggeva sul primo fascicolo della rivista interna – è ormai un’insegna incomprensibile, bizzarra e vuota, che attende un contenuto per significare qualcosa in se stessa, per vivere di luce propria”. Ma questo avverrà. Sin dalla serata d’esordio, il 23 novembre, sarà un successone e da quella cantina diventeranno celebri personaggi come Oreste Lionello e Pippo Franco, Leo Valeriano e Gabriella Ferri, il palermitano Pino Caruso che cantava “Il mercenario di Lucera” e la cantante americana Pat Starke col suo pezzo forte “Occidente goodbye”. E poi arriverà anche un promettente e giovane Enrico Montesano, figlio del portiere dello stabile che a via Quattro Fontane ospitava la sede nazionale del Msi…
Ma per Della Bona e i suo amici quell’idea dovette diventare la scelta di vita definitiva. “Dopo circa un anno, eravamo nel 1966, mi convocò Michelini – ricorda Lello – e mi disse di non gradire che un suo redattore lavorasse di notte a un’altra cosa. E poi, aggiunse, chi vi finanzia?”. E così il brillante giornalista “deve” licenziarsi dal Secolo, come dovranno fare anche i suoi amici dai loro giornali. Pingitore e Palumbo vennero subito messi alla porta dal loro direttore, Giorgio Nelson Page. L’unico fortunato fu Luciano Cirri, il cui direttore, Mario Tedeschi, si limitava a prenderlo in giro quando, la mattina, arrivava in redazione con gli occhi pesti: “Sei sempre più rincoglionito, amico mio…”. Il paradosso è che, visto il grande successo del Bagaglino, lo stesso Arturo Michelini tenterà tre anni dopo un “suo” cabaret, L’Oratorio di via Monserrato, messo su direttamente da sua figlia, Marina Michelini: la prima fu uno spettacolo di Bruno Broccoli e Dino Verde con Lea Padovani e Nando Pucci Negri. Ma l’esperimento non riuscì neanche minimamente a stare al passo con i ragazzi di via della Campanella, i quali furono così bravi da egemonizzare per decenni il cabaret all’italiana. Lo scrittore Carlo Mazzantini nel suo libro autobiografico “L’ultimo repubblichino” ha ricordato che ci andava la sera per chiacchierare con Mario Castellacci: “La sua canzone ‘Le donne non ci vogliono più bene’ era un po’ il nostro manifesto in versi. La sola canzone nata dalle nostre file. Mario me ne raccontò la nascita una sera davanti a un paio di bottiglie di Dolcetto d’Alba, com’era andata, e ricordo che c’era con noi anche Gabriella Ferri, allora giovane e attraente, per la quale Mario aveva scritto quella canzone “Sempre” così carica di nostalgie che mi fece pensare: questa è un’altra canzone repubblichina…”. E arriverà anche nella hit parade, quel disco inciso proprio con l’etichetta del Bagaglino: “Anche tu così presente / così solo nella mia mente / tu che sempre mi amerai / tu che giuri e giuro anch’io / anche tu amore mio / così certo e così bello… / Anche tu diventerai come un vecchio ritornello / che nessuno canta più / come un vecchio ritornello che nessuno canta più”.
Della Bona si prenderà comunque una rivincita con chi lo aveva ingiustamente licenziato facendo inserire anche il nome di Michelini tra quelli dei politici dell’epoca messi alla berlina negli spettacoli del Bagaglino. E nella primavera del 1966 una velenosa frecciata indirizzata direttamente al Secolo – “Il giornale di via Milano sta morendo” si diceva in uno sketch – provoca la reazione del quotidiano micheliniano. “L’accettiamo – si leggeva in un corsivo – come un augurio, com’è nello spirito della scaramanzia per cui un augurio di morte si traduce in augurio di vita. E allora, augurio per augurio, vediamo chi finirà prima”. Stando a quello che succederà decenni dopo si potrebbe anche dire che in qualche modo ebbero ragione quelli del Secolo. Mentre infatti il quotidiano, intervenute tutte le metamorfosi del caso, esce ancora, il Bagaglino, dove negli ultimi anni dei fondatori era rimasto a lavorare il solo Pier Francesco Pingitore, ha dovuto chiudere i battenti nel 2011. Anche se un altro ragionamento andrebbe poi fatto: quanto hanno comunque inciso nell’immaginario degli italiani le stagioni, le musiche, le icone del Bagaglino, prima solo cabarettistico e poi anche fenomeno televisivo? Tanto per dire, è certamente un fatto che quella intuizione, nata anche dentro la redazione del Secolo, sia stata oggettivamente una delle grandi matrici di quella nuova comicità che dopo il ’68 trasformerà il modo di ridere degli italiani.

venerdì 22 novembre 2013

Arturo Pérez-Reverte: scrittore che Conrad avrebbe definito "uno di noi"


Luciano Lanna


Da tempo un romanzo non mi emozionava come è stato per Il tango della vecchia guardia di Arturo Pérez-Reverte (Rizzoli, pp. 490 euro 18,00), uno dei narratori che mi sono più cari. Soprattutto, mi sono sinceramente commosso nelle ultime pagine, quando il protagonista e io narrante, Max Costa – già ragazzo dei bassifondi di Buenos Aires, poi legionario nel Tercio spagnolo, poi avventuriero, ballerino mondano, ladro gentiluomo alla Arsenio Lupin e tanto altro – esce di scena, alla grande, a 64 anni, lasciandosi tutto dietro e fischiettando L’uomo che sbancò Montecarlo… È un personaggio di quelli che Joseph Conrad (di cui, non a caso, è l’epigrafe esergo del romanzo) definiva “uno di noi”. Uno, tanto per dire, capace, almeno una volta nella sua vita, di mettere tutto ciò che aveva sul tappeto verde di un casinò e di tornare a casa sul predellino di un tram, completamente in rovina, fischiettando proprio L’uomo che sbancò Montecarlo con apparente indifferenza… 
Il tango della vecchia guardia è un romanzo, a mio avviso, di grande forza narrativa e di vera letteratura che suggerisco a tutti gli amici. “Per molto tempo – ha spiegato l’autore – la letteratura era stata purtroppo sequestrata da una banda di intellettuali snob che sostenevano che l’unico romanzo possibile fosse quello in cui si diceva che non era possibile scrivere un romanzo. Si deve a costoro se i lettori hanno disertato la lettura preferendole la televisione…”. Nato a Cartagena nel 1951, Pérez-Reverte è stato per vent’anni uno dei migliori reporter di guerra europei in Libano in Eritrea, alle Malvinas, in Nicaragua, in Mozambico, in Romania, in Bosnia e in altre zone calde del pianeta. A un certo punto, disgustato dalle guerre degli anni Novanta e dalla logica della politica, ha smesso di fare il giornalista e si è buttato sulla sua antica e vera passione: i libri e la letteratura d’avventura. Precisando: “Se un giorno la mia casa dovesse andare a fuoco e io dovessi scegliere un libro da salvare, non prenderei però né Don ChisciotteLa montagna incantata ma i mio libri a fumetti di Tintin…”.  Del resto qualcosa ha sempre accomunato il giovane giornalista dei fumetti disegnato da Hergé con l’ex reporter spagnolo – lo chiamavano “Rambito” – che è autore di alcuni dei più letti best seller europei degli ultimi vent’anni: Il Club Dumas (da cui Polanski trasse il film La nona porta), La carta sferica, Le avventure del Capitano Alatriste, Il maestro di scherma, La tavola fiamminga
Oggi, a sessantadue anni, sostiene di preferire leggere libri di storia e soprattutto i classici latini e greci, che trova terapeutici: “I classici sono un analgesico, aiutano a sopportare il dolore. Anche questo si chiama invecchiare…” Di quest’ultimo romanzo, Il tango della vecchia guardia, da noi uscito ad agosto per l’editore Rizzoli con la traduzione di Bruno Arpaia, c’è da dire che si entra subito nell’incanto di pagine intrecciate a brani musicali, a ballate romantiche e nere, a Vecchio Frac di Modugno, al Bolero di Ravel, addirittura alle canzoni di Rita Pavone e Gianni Morandi, sino al tango di Carlos Gardel… Pérez-Reverte è in fondo anche questo: una capacità straordinaria di aprire come pochi squarci affascinanti dell’immaginario, non solo letterario, dell’Ottocento e del Novecento europei. Lo ammette lui stesso: “Nella mia biblioteca sterminata ci sono più o meno trentamila libri. Per i libri perdo la testa, come una volta anche per le donne, anche se ormai è acqua passata. E ci sono autori fondamentali nel corso della vita, con alcuni continua c’è una magica sintonia. Lord Jim di Conrad l’avrò letto almeno quindici volte, e ogni volta che lo rileggo trovo delle cose nuove. Devo molto a Dumas, Salgari, Verne…”.



Il protagonista de Il tango della vecchia guardia, un uomo che nasce nel 1902, attraversa il Novecento da autentico “anarca” jüngeriano, sfiorando e contaminandosi con i grandi eventi del secolo – l’incontro tra vecchio e nuovo mondo, la prima e la seconda guerra mondiale, la guerra di Spagna, la guerra fredda – senza però mai identificarsene: “Quando vedo – ammette a un certo punto – quelle camicie nere, marroni, rosse o azzurre che pretendono che ti iscriva a questo o quello penso solo che prima il mondo era dei ricchi e ora dei risentiti. Ma io non sono né l’uno né l’altro…”. Il tango e il gioco degli scacchi sono la metafora di una partita del singolo di fronte alla storia in cui quello che conta sono solo la libertà e lo stile… Max Costa si troverà, suo malgrado, al centro di vicende storiche, e dovrà scegliere non compromettendo mai la sua libertà interiore e il suo stile… In scenari tutti mediterranei – Nizza, Montecarlo, Sorrento – il protagonista non avrà remore a giocare la sua parte, consapevole dello squallore e del nichilismo che unifica franchisti e sovietici, comunisti e capitalisti, malavitosi e spie. E guarda caso, costretto a svolgere la sua parte, andrà fino in fondo contro il Kgb negli anni Sessanta, ma anni prima dovendo decidersi tra la fedeltà a una spia franchista (che lui credeva repubblicana) e a quella agli agenti dell’Italia fascista, non esiterà minimamente a “scegliere” questi ultimi. “Quando ho messo in scena i due agenti di Mussolini – ha ammesso Peréz-Reverte  la scrittura si è andata modificando, è emersa la mia empatia verso l’Italia, verso il suo sentimento di umanità e compassione che ho imparato ad amare nei film di Vittorio De Sica, un sentimento sconosciuto agli spagnoli…”. Una cosa è certa. Il tango della vecchia guardia non è, come qualcuno ha scritto, solo una storia d’amore. Quella tra il protagonista e la bellissima Mecha Inzunza. C’è anche questo, ma solo come una metafora di quello che potrebbe essere nella vita ma che, a volte, può essere trasceso dal destino. Max Costa incontra la “sua” donna solo tre volte nella sua vita. Nel 1928, nel 1937, nel 1966… E quelle tre volte sono gli snodi della sua vita. Ma è stata “la” donna della sua vita. “Max si mise il cappello e scese dalla macchina abbottonandosi l’impermeabile. Prese dal portabagagli la valigia e la borsa da viaggio e se ne andò senza aprire bocca né guardarsi indietro, tra gli schizzi della pioggia. Sentiva una tristezza intensa, fastidiosa: una specie di nostalgia anticipata per quello che in seguito avrebbe rimpianto…”.  Tra l’Argentina, l’Africa legionaria del Nord, la Spagna, l’Italia, Istanbul, Parigi e la Costa Azzurra Max gioca tutta la sua partita. Non solo il suo passato. “Io ho sempre saputo – ha ammesso una vota Pérez-Reverte – che non devo mai vergognarmi del mio passato, che non è soltanto spagnolo, ma anche europeo, romano e latino, in cui ci sono il Marocco e l’America, Conrad e Tintin, la Bibbia e l’Islam…”. Max Costa, ma anche Arturo Pérez-Reverte: senza dubbio, due “di noi”.

Femminicidi: non ci salverà la giornata antiviolenza...





Annalisa Terranova

Ho letto che la violenza contro le donne ha un costo sociale di 17 miliardi. Bè sarebbe uno sfregio alla civiltà anche se non fosse monetizzabile, anche se fosse a costo zero. E così il 25 novembre si celebrerà questa giornata contro i femminicidi. Una data pericolosa, in un certo senso, perché "lava" le coscienze e cristallizza il dovere di denuncia in una serie di frasi fatte, incastonate tra espressioni amare di circostanza.

Poi c'è la presidente della Camera, Laura Boldrini, che sentenzia sull'educazione familiare: parità subito, tra fratelli e sorelle, fin dalla prima infanzia. Tutti e due a fare i lavori domestici, subito… Parità, aggiungo io sospingendo l’argomentazione oltre i confini del buon senso dove è stata spinta da un certo neofemminismo, magari anche nei colori, evitando il rosa per lei e il celeste per lui, evitando le bambole per lei e le macchinette per lui, costringendo i genitori a stilare un indistinto decalogo di giocattoli intelligenti e non sessualmente oppressivi.

Mi dico: dovrei sentirmi in colpa perché ho regalato una cucina giocattolo a mia figlia, con le pentoline, quand’era piccola, perché se qualche stronzo me la ammazza di botte, poi, sono io che non l'ho educata a reagire a dovere... E mi dovrei sentire in colpa a non avere risposto male a mio padre che, durante il pranzo domenicale, mi esortava: “Ma non lo servi a tuo marito?”. E io invece li compiacevo, i due maschi: il padre e il marito.

Mi chiedo, adesso, perché si facciano tanti sforzi inutili per imbrigliare la violenza, il male, l'incuria per l'altro, dentro schemi ideologici vuoti e inutili, per rassicurare una società che si sta squagliando in assenza del collante dei sentimenti. Se bastasse la parità di genere a rimettere a posto quest'aggressività vendicativa verso le donne sarebbe tutto molto più facile.
Un po' più difficile ammettere che quello che sta accadendo è l'altra faccia, cupa, grigia e spaventosa dell'emancipazione. E' complicato ragionare sulla tendenza inestirpabile degli uomini ad essere controllori dello spazio privato e pubblico delle loro donne. E così, quando li cacci da quel territorio questi maschi che rifiuti come tutori, semplicemente, ti annullano.

La scrittrice Camille Paglia lo ha detto con una certa dose di anticonformismo: finché c'erano padri e fratelli a proteggere le donne, queste cose non succedevano. La rete parentale era lo scudo che preservava la femmina intatta fino alla consegna al nuovo tutore-compagno. O si torna indietro, al tutoraggio verso la “femmina”, o si ammette che l'autodeterminazione, per le donne, comporta anche dei rischi, dei rischi gravi. 

L'educazione può avere un suo peso certo, come ce l'ha il linguaggio, quello dei media e quello della pubblicità. Ma anche qui non si può far finta di ignorare che le mentalità cambiano molto lentamente, troppo lentamente per poter funzionare da antidoto alla crescita allarmante del numero dei femminicidi.

La strada della consapevolezza va praticata innanzitutto incoraggiando nelle donne all’autonomia. Sono loro che devono organizzare in piena libertà le regole del loro spazio, decidere chi entra e chi esce, decidere cosa procura piacere e cosa no, decidere il limite e farlo magari anche divertendosi a servire il partner a tavola. 

Poiché è assodato che indietro non si torna e non si può tornare almeno sgomberiamo il campo dagli equivoci: non sarà affatto facile estirpare la violenza contro le donne, sarà una battaglia lunga, una strada impervia, piena di ostacoli pesanti e insidiosi. Anche perché sulle relazioni tra i sessi pesano pagine e pagine di letteratura amorosa, di bella e buona letteratura che celebra il possesso “integrale” della femmina amata.

Nel romanzo di Dostoevskij “Il giocatore” il protagonista pensa alla sue lei con tale ardore che sogna di divorarla… Questa donna celebrata, vezzeggiata, cantata, adorata, è sempre un’immagine da possedere e da distruggere a proprio piacimento. Al limite, la letteratura misogina è persino più generosa: per Otto Weininger le donne erano tutte “ruffiane”. Si occupavano cioè, di stabilire relazioni tra i sessi, altro non erano in grado di fare. Un riconoscimento stizzoso ma con un qualche fondo di verità. Oggi abbiamo le sfumature di grigio… la letteratura porno-soft da spiaggia. Il corpo delle donne è talmente emancipato da diventare bene derivato nell’ingranaggio della struttura organizzata dal capitale, persino con la prostituzione delle ninfette tredicenni. Ma è sempre un corpo fragile, un corpo non protetto. Basta un “no” e finisce a terra. Basta un “no” e l’atto violento di un maschio annulla tutta l’energia creatrice che quel corpo racchiude. Una pena. Uno sciupìo. Una brutta faccenda, una faccenda enorme, della quale non verremo a capo bacchettando l’educazione familista, perché la dignità prima ancora di stare sulle carte dei diritti, è semplicemente un’esperienza, una conquista, una crescita.


mercoledì 20 novembre 2013

C.S. Lewis, il cercatore di mondi immaginari dove far rivivere i miti




Annalisa Terranova

Clive Staples Lewis, l'inventore del ciclo di Narnia, il fine medievista, il divulgatore della fede cristiana, l'amico cui Tolkien leggeva le sue saghe, l'ideatore della science fiction "catartica" e metafisica,  morì cinquant'anni fa a soli 65 anni (era il 22 novembre del 1963). Autore prolifico e di enorme successo, si fece "strumento" del genere fantastico e con i racconti simbolici dal paese immaginario di Narnia (i sette volumi di questa fiaba per bambini e adulti uscirono tra il 1950 e il 1956) divenne uno degli autori più apprezzati dentro e fuori l'Inghilterra. È vivo nella sua opera l'insegnamento di George MacDonald (tra i primi teorizzatori dei canoni della letteratura fantastica): "Noi roviniamo per avidità intellettuale infinite cose che già esistevano prima". Non bisogna dunque farsi tentare dagli artifici ma tornare alla semplice visione che è propria dell'infanzia, farsi piccoli come gli gnomi e recuperare lo stupore della visione che si fa conoscenza. E la semplicità era anche la cifra stilistica adottata da Lewis nei suoi scritti (questo uno dei suoi consigli: "Invece di dirci che una cosa era terrificante, descrivila in modo da terrorizzarci. Non dire che era meravigliosa: fa' sì che noi diciamo meraviglioso quando ne leggiamo la descrizione...").

Era convinto che la forza del mito può risvegliare nell'uomo il desiderio di Dio. Per questo un recente studio dedicato a Lewis lo definisce "maestro dello spirito". Scrive l'autrice Anna Maria Giorgi: "L'eroismo della quotidianità, ecco quello che ci propone C.S.Lewis con le sue opere e con il suo stesso stile di vita, sulla linea dei santi che sono diventati grandi facendosi piccoli come bambini. Generazioni di lettori si sono convertite leggendo i suoi libri: tra questi, per citarne uno solo, lo scienziato americano Francis Collins, scopritore del genoma umano,il quale si definiva un ateo di ferri finché non si imbatté in un libricino di Lewis, Mere Christianity". Nella conversione di Lewis, invece, furono cruciali le conversazioni con l'amico Tolkien, con il quale diede vita ad Oxford al club letterario degli Inklings, fucina di idee per le pagine più note e amate della letteratura fantasy.

Paolo Gulisano ha scritto che il simbolismo di Lewis non è sentimentale ma "sacramentale": "Le sue immagini funzionano spesso come simboli, che hanno la capacità di mostrare la verità e di farle raggiungere la coscienza del lettore e destare la sua meraviglia". Non meno importante dell'altrove immaginato con Narnia è il viaggio dello scienziato Ransom nella trilogia fanta-teologica che comprende i romanzi Lontano dal pianeta silenziosoPerelandra e Quell'orribile forza: "Durante il suo involontario viaggio interplanetario Ransom - scrive ancora Anna Maria Giorgi - sa comunque aprire gli occhi a scoprire una bellezza non solo fisica in quella che è la grande danza dell'universo, comprendendo che 'spazio' è una parola fredda e inadeguata per definire 'il sommo oceano di splendore nel quale navigava' ". Nel personaggio di Ransom, tra l'altro, rivivono alcune caratteristiche dell'amico Tolkien. Lewis non fu solo narratore di fiabe e inventore di miti ma anche un convinto propagandista. Il suo obiettivo polemico, sempre "aggredito" con senso dello humour e leggerezza, senza mai contaminarsi con il fanatismo, era la mentalità scientista e relativista, finché non scelse convintamente di far prevalere in lui l'uomo immaginativo, l'unico in grado di far nascere Narnia: "In me l'uomo immaginativo è più vecchio e opera con più continuità, e in questo senso è più basilare sia rispetto allo scrittore religioso, sia al critico...".

Clive Staples Lewis era nato a Belfast nel 1898. Fece il suo ingresso all'università di Oxford nel 1916 ma i suoi studi furono interrotti dalla Prima guerra mondiale, alla quale partecipò rimanendo ferito. Nel 1924 comincia sempre a Oxford l'insegnamento di Lingua e letteratura inglese. Nel 1929 abbraccia la fede cristiana. Quattro anni dopo fonda il circolo degli Inklings di cui, oltre a Lewis e Tolkien, fece parte anche lo scrittore Charles Williams. Nel 1942 pubblica uno dei suoi libri più fortunati, The Screwtape Letters, che racconta in forma epistolare il fallito tentativo del diavolo Berlicche di istruire il nipote Malacoda nell'arte della tentazione. Nel 1950 comincia la pubblicazione delle Cronache di Narnia e successivamente sposa la scrittrice Joy Davidman Gresham, che morirà precocemente lasciando Lewis in preda allo sconforto e al dsiorientamento come lo stesso Lewis racconterà nell'autobiografia del 1955, Sorpreso dalla gioia (Surprised by Joy).

(dal Secolo d'Italia del 20 novembre 2013)

lunedì 18 novembre 2013

A 70 chilometri da casa nostra la Jihad recluta truppe per il conflitto siriano



Soso
" …Oltre centocinquanta jihadisti kosovari - scrive la rivista specializzata Site - combattono nelle unità kaediste in Siria, ma fonti ufficiose parlano di 1500 combattenti provenienti dai vari stati balcanici. Fra questi c’è anche Abu Abdulah el-Kosovi, che in un video pubblicato dall’ISIS - Islamic State of Iraq - parla nella sua lingua madre dell’importanza di intraprendere la Jihad. Si tratta di un evento importante poiché evidenzia l’interesse da parte di questi gruppi a rivolgersi direttamente alle popolazioni di etnia albanese, sempre più coinvolte nel conflitto siriano. …I volontari non provengono quindi dal solo Kosovo, ma da tutti quei paesi balcanici in cui è presente popolazione Albanese di fede islamica: Montenegro, Macedonia, Serbia e Albania."
La Bosnia merita infatti un discorso a parte… ma riflettere sulle cause che originano una tale mobilitazione, sarebbe non solo doveroso ma anche e soprattutto giusto: comprendere i motivi di chi va in guerra quale che sia la sua causa, rientra nell'esperienza più necessaria per chi vive nell'attuale periodo storico, così gravido di mutamenti. Una distinzione in ogni caso va operata per mettere a fuoco i fatti: non stiamo parlando di volgari mercenari come gli anglosassoni delle varie black waters, ma di Combattenti Islamici. Dietro di loro secoli di storia e ormai decenni di risveglio, non ci consentono semplicemente di demonizzarli… perché questa modalità, noi non addetti ai lavori, la lasciamo per nostra precisa scelta ai propagandisti delle democrazie reali dell'occidente.

Riconosciuta la problematicità di ogni vero "Polemos" che divida radicalmente gli esseri umani, sarà utile fare alcune considerazioni sulla troppo carente percezione di prossimità, che caratterizza noi italiani: nella primavera del '44 i GAP schieravano a Roma 48 militanti, mentre nei giorni dell'uccisione di Giovanni Gentile a Firenze erano solo 16. Jozip Broz non ancora maresciallo Tito, iniziò inoltre la sua guerra partigiana con soli trecento jugoslavi reduci dal conflitto spagnolo, terminato solo cinque mesi prima della seconda guerra mondiale.
Il semplice confronto di scala tra le forze impiegate negli esempi citati e i conseguenti risultati storici, impone quindi almeno una valutazione sulle potenzialità dei crudi numeri… perché tutti noi sappiamo che i centomila kaedisti oggi in Siria non resteranno laggiù solo a morire, ma si rimetteranno in cammino su tutta la fascia che li riguarda e che loro rivendicano come il proprio spazio. Dal Marocco fino all'Indonesia e dai Balcani alla Somalia, le numerose sigle ci parlano di realtà militanti che tennero testa ai sovietici per dieci anni in Afghanistan e che nel preteso nuovo ordine mondiale, non hanno accettato il posto che gli era stato riservato dall'occidente. Allah Akbar quindi, a 70 chilometri da Otranto...

domenica 17 novembre 2013

Ender's Game: ci salveranno i bambini? Un film di fantascienza da vedere


Federico Magi

Il futuro, è noto, può sempre riservarci nuove guerre. E se in un futuro prossimo, nemmeno troppo distante, fossero gli abitanti di un altro pianeta a tenere in allerta la terra? Se fossero talmente pericolosi che non gli adulti, ma solo i bambini potessero affrontarli con la possibilità di vincere e salvare l’amato pianeta? Sì, proprio i bambini. Dei bambini soldato, evidentemente. Ender’s Game, fortunato romanzo di Orson Scott Card, datato oramai 1985, ritorna a quasi trent’anni dalla sua pubblicazione per riproporsi in chiave cinematografica diretto dal sudafricano Gavin Hood, salito alla ribalta per due film tra loro assai diversi, il dramma premiato con l’Oscar per il miglior film straniero Il suo nome è Tsotsi, girato in terra natia, cui fece seguito la sua prima pellicola hollywoodiana, X-Men le origini: Wolverine. Con Ender’s Game siamo nel campo della pura fantascienza, un’opera che, in ossequio al romanzo cui s’ispira, è votata certamente all’intrattenimento ma senza tralasciare quel retrogusto drammatico fondato su un chiaro messaggio etico e universale che caratterizza la migliore produzione di genere.
Ender Wiggins è un dodicenne dotato e promettente che si distingue per intuizione, istinto, prontezza e capacità di relazionarsi al pericolo tipici dei migliori cadetti della Battle School, una stazione orbitante intorno alla terra in cui i ragazzini si sfidano in sofisticati giochi di simulazioni che li preparino alla battaglia reale con i Formic, un popolo alieno contro il quale i terrestri sono stati costretti a confliggere cinquant’anni prima, riportando gravi perdite ma vincendo sostanzialmente la contesa. Il rischio di una nuova guerra è sempre presente, o almeno è ciò che pensa il Colonnello Graff, il quale è convinto che il giovane Ender possegga le stimmate del capo. Per prepararlo al suo compito di comando, Graff lo sottopone a un durissimo tirocinio militare (ci tornano alla mente vaghi echi di Full Metal Jacket), allontanandolo dalla famiglia e lasciando che l’invidia dei compagni lo isoli, per testarne le capacità di resistenza a scrupoli e sentimentalismi. Ender diventerà il soldato perfetto, senza però mai perdere la capacità d’analisi e di relazione con l’altro, così da consentirgli di porsi quei quesiti morali ed esistenziali che gli saranno utili, alla fine, a conoscere se stesso e a prendere un’importante decisione nei riguardi delle sorti del popolo nemico.



Ender’s Game è un film di ottima fattura, valorizzato da una incalzante colonna sonora e fortificato dalla prova di un cast in parte; nonostante le lunghe sequenze simulate, e una messa in scena girata quasi tutta in interni, in cui la battaglia è protagonista reale solo nell’ultimo quarto di pellicola, l’opera si snoda senza troppi intoppi e anche la sceneggiatura, classica ed essenziale, non trova elementi di intoppo e restituisce dialoghi credibili e ben articolati. Si evidenzia certamente la prova del giovane protagonista, quell’Asa Butterfield già apprezzato e in primo piano nel bellissimo Hugo Cabret di Scorsese, che tiene testa, fino a vincere decisamente il confronto, in alcune sequenze, a un’Harrison Ford che va solo di mestiere ma che non stona, nonostante Guerre Stellari – per restare al genere – per lui sia lontano anni luce, in tutti i sensi. Il film dimostra l’ottima tenuta, nel tempo, del libro di Orson Scott Card, il quale ci racconta una storia perfettamente adattabile alle mirabilie tecniche del cinema odierno che valorizzano ancor più una narrazione datata solo sulla carta. Una fantascienza che restituisce importanti interrogativi lasciando il peso del giudizio morale solo sulle spalle dei bambini. Gli adulti, nella fattispecie, sembrano infatti solo interessati all’esito finale del conflitto, svelando in conclusione l’orrore che può nascondersi dietro una guerra preventiva e dietro un possibile genocidio.
Del resto, fantascienza o meno che sia, il tema legato agli orrori di guerre e genocidi, ahinoi, nel presente come nel futuro sarà sempre di stretta attualità, come la storia insegna. Ender accoglie invece il messaggio telepatico dell’altro, del diverso, dell’estraneo, di coloro che sono ritenuti una minaccia mortale. Ma può un popolo essere annientato, azzerato totalmente? Può Ender sopportare questa responsabilità? Il toccante finale di Ender’s Game (vibrante e velata di un tocco di lirismo la sequenza in cui Ender, nella desolazione post distruzione totale, incontra la regina madre dei Formic) apre la porta a tali interrogativi e alimenta un ulteriore quesito: ma i bambini soldato sono vittime o carnefici? Proprio i bambini, ritenuti i soli adatti a combattere perché più elastici mentalmente e più rapidi nell’immagazzinare nozioni rispetto agli adulti. Sarà proprio Ender col suo ultimo atto a risponderci. E la risposta che ci dà non può che donarci speranza. Se la natura umana non perderà il conflitto col il proprio sé più intimo, profondo, empatico e solidale il futuro non potrà mai essere una minaccia.

sabato 16 novembre 2013

Macedonia: non una farsa, ma l’eco di lontane tragedie


Angelo Maria Ardovino

La prima volta che mi sono imbattuto nella guerra sul nome Macedonia tra la Grecia e la repubblica che ne rivendica il nome fu per una notizia che mi rimbalzò da Avezzano. Nella pianura alle spalle della città abruzzese ci sono i resti di un mausoleo romano, che una leggenda senza fondamento storico definisce la tomba di Perseo, ultimo Re di Macedonia, che i Romani avevano confinato con la sua famiglia ad Alba Fucens, poco più sopra. Scoprii così una storiella incredibile: una televisione di Skopje ci aveva fatto sopra un servizio e un’università voleva scavare la tomba e traslare le ossa nella loro capitale! La notizia era ridicola, perché la tomba, di chiunque fosse, era ridotta a un troncone di muro in cui non c’era nulla da trovare e traslare. Senza contare che Perseo era un usurpatore vigliacco e sanguinario, l’opposto di un Alessandro Magno di cui andare fieri. Però, per quanto poco professionali, quelli di Skopje avevano avuto il coraggio di sfidare il ridicolo per dare concretezza alla loro “voglia di antenati”, per cui anche un personaggio come Perseo andava bene. Ma perché un popolo slavo cercava di darsi progenitori greci?



Questa storia dura dal 1991, da quando la Macedonia, da stato federale della Jugoslavia in disfacimento divenne repubblica indipendente. Poco dopo il nuovo stato mise sulla bandiera la cosiddetta Stella di Verghina, un motivo decorativo scoperto da archeologi greci, che qualcuno riteneva il simbolo degli Argeadi, la famiglia reale di Alessandro Magno. Come il Nodo dei Savoia. Molto meno aulicamente, lo stesso simbolo anni dopo in Grecia è stato messo sulle bustine di zucchero, separandolo da questo dramma diplomatico. Ma allora fu l’inizio di guai.
Infatti tutto ciò avrebbe potuto essere un omaggio ad una tradizione antica da condividere pacificamente, un po’ come avviene in Italia con la bandiera di Trento, che è simile a quella del Tirolo e pure a quella dell’Austria, senza con questo offendere la memoria dei patrioti morti per l’italianità del Trentino. Ma in Macedonia non andò così, perché qualcuno contemporaneamente fece discorsi di rivendicazione di territori greci (o bulgari), con tanto di cartine, che non piacquero per nulla nei due stati vicini. In Grecia prevalse una linea allarmistica, portata avanti per motivi elettorali dal ministro degli Esteri Samaràs (oggi primo ministro) e nacque una politica di veti all’ingresso della repubblica di Macedonia in qualsiasi organismo internazionale, finché fosse stata mantenuta quella bandiera, che fu cambiata, e finché fosse stato mantenuto il nome di Macedonia, che invece è rimasto.


 È opinione comune che la politica di preclusione alla repubblica vicina del nome di Macedonia abbia provocato ai Greci più danni che vantaggi. Se non altro perché ha esposto la Grecia, che aveva ottenuto faticosissimi risultati, come l’adozione “ provvisoria” a livello internazionale del nome di “Former Yugoslavian Republic of Macedonia”, a continui ricatti diplomatici ogni volta che manifestava il minimo dissenso dagli Stati Uniti. Del resto, per constatare come il terreno sia infido basterebbe vedere in ultimo l’articolo sul quotidiano La Stampa del 30 ottobre, in cui Giuseppe Zaccaria non risparmia ironie. Alla fine i plenipotenziari greci hanno accettato che la Repubblica di Skopje si chiami Macedonia, ma solo con l’aggiunta di specificazioni riduttive (hanno proposto: slavo-albanese) sulle quali le trattative proseguiranno per anni. Una parte crescente dei Greci è stanca di questa storia, un’altra considera anche il minimo cedimento come un attacco all’integrità nazionale, ma per capirci qualcosa non si deve partire dai Greci, ma dagli altri. 
Le potenze occidentali, in particolare nel Congresso di Berlino del 1878, diedero il nome di Macedonia, che in epoca ottomana era stato in parte dimenticato, al territorio compreso tra la Serbia e la Tessaglia, che restava sotto sovranità turca. Noi siamo abituati adesso a guardare alla questione macedone come ad un problema greco-slavo, ma se pensiamo che i due personaggi nati nella Macedonia moderna più famosi al mondo sono stati un generale turco, Moustafà Kemal, e una missionaria cattolica di padre albanese e madre valacca, Madre Teresa di Calcutta, ci accorgiamo che in partenza ci fosse un quadro molto più articolato, con molte genti diverse che abitavano la regione. Un lungo elenco: Greci, Albanesi (musulmani, ortodossi e cattolici), Turchi, Slavi, soprattutto Bulgari, e ben tre gruppi latini: gli Ebrei catalani che erano la maggioranza a Salonicco, i Valacchi Aromei e Megleniti. Avevano convissuto per secoli, ma da allora si scatenarono i nazionalismi, ed i gruppi iniziarono a fronteggiarsi, o peggio.


Nel 1912 si stabilirono più o meno le frontiere attuali, dopo che i Greci si concentrarono a Sud e gli Slavi e gli altri a Nord, e la Macedonia fu divisa tra Grecia e Serbia. In realtà nella parte toccata alla Serbia la maggioranza della popolazione, tra espulsioni di Greci e Turchi ed assimilazioni forzate di Aromei, era bulgara. Ma Greci e Serbi, che insieme erano riusciti ad escludere dalla zona il Regno di Bulgaria, decisero che tutti si sarebbero chiamati Macedoni. Così fu. Ai bambini fu insegnato di non essere Bulgari ma Macedoni, la gente fu obbligata a un inutile sradicamento, e così nacque la Macedonia dipendente da Belgrado. Andava tutto bene, poi la crisi della Jugoslavia ha trasformato questa regione inventata a tavolino in uno stato sovrano!
A questo punto i Macedoni (che si fanno chiamare così perché non gli è rimasto altro nome) sono stati costretti innanzitutto a differenziarsi il più possibile dalla Bulgaria, dove invece nelle scuole si insegna che la lingua macedone è soltanto un dialetto bulgaro, e si lascia intendere che prima o poi ci sarà la riunificazione. Così hanno scoperto la Macedonia antica. Filippo, Alessandro e tutto il resto. Avrebbero potuto farlo con più accortezza, in modo da suscitare l’amicizia e non l’ostilità greca, ma comunque non avevano scelta per sfuggire alla morsa bulgara. 
Questo pasticcio, in cui ai Greci non secca tanto che uno stato estero si possa chiamare Macedonia, quanto che i loro vicini si sentano autorizzati a chiamarsi Macedoni, poggia su un grossolano equivoco culturale: la sovrapposizione dei concetti di Macedonia antica e moderna. Certo, è uno sbaglio che si fa anche altrove (ricordiamoci delle sbrodolate leghiste su Celti e Veneti, o anche, all’altro capo dell’Italia, di certi discorsi sulla Magna Grecia), e dappertutto suona un po’ da operetta; ma per la Macedonia è una mela avvelenata. Infatti gli studiosi di tutto il mondo dibattono da secoli se gli antichi Macedoni fossero davvero Greci. Discussione erudite, non sempre di qualità eccezionale, che portate fuori dai palazzi del sapere producono effetti dirompenti. A volte sembra quasi che gli Slavi dicano ai Greci, così, tanto per provocare: “Lo sappiamo che Alessandro non era slavo, ma non era neppure dei vostri, perciò non potete impedirci di prendercene un pezzetto”. La questione in realtà è mal posta, dato che sappiamo che tutti i grandi popoli europei, senza eccezioni, si sono formati con la confluenza di più stirpi, e che il discorso della continuità genetica con l’antico è insensato. Malgrado questo, però, dato che ci sono problemi più seri di questo, la soluzione si sarebbe potuta trovare da anni; invece non è successo. Forse perché sotto la cenere covano tragedie che si vorrebbero considerare rimosse, ma che a quanto pare non lo sono. Tanto vale allora parlarne.
Le guerre balcaniche furono un susseguirsi di episodi efferati, forse meno massicci delle “pulizie etniche” che hanno distrutto la Jugoslavia, o di sicuro meno pianificati degli eccidi e deportazioni dell’Anatolia; ma hanno lasciato una scia di sangue. Non si ama parlarne, ma questa scia è rimasta. Infatti in Grecia si parla sempre di Olocausto di Smirne e di tragedie anatoliche, ma di rado dei fatti del Nord. Chi ama la letteratura ne trova la principale traccia sulla spiaggia meridionale di Creta, al cospetto dell’Africa, dove Zorbàs, operaio macedone lontanissimo da casa, si lascia andare a ricordi terrificanti di massacri durante la guerra con i Bulgari. E sappiamo adesso che i Bulgari di cui parla Zorbàs avevano nel frattempo cambiato nome. 
Quell’antica ostilità, quei bagni di sangue, hanno prodotto una separazione innaturale e controproducente tra popoli che avevano tutto l’interesse ad allearsi e collaborare. All’inizio dell’800 Daniil Moschopolitis aveva teorizzato la collaborazione dei quattro popoli dell’area, Greci, Bulgari, Albanesi e Valacchi, riconoscendo nell’interesse di tutti una supremazia greca, funzionale alla liberazione dai Turchi ed al mantenimento di una maggiore tradizione culturale, e Rigas Fereos aveva iniziato un’attività politica in questo senso, purtroppo sfortunata. Il nazionalismo ottocentesco mise inutilmente gli uni contro gli altri, ma forse è arrivato il momento di ricordarsi che l’argomento della collaborazione e dell’amicizia tra i popoli dell’area ha una tradizione secolare. Forse si potrebbe fare uno sforzo per riprenderlo, invece di trastullarsi con l’origine dei Macedoni e il nome della Macedonia, da cui finora non sono venuti che guai per tutti. E si potrebbe anche riconoscere l’esistenza di episodi di guerra terribili, compiuti da tutti, per esorcizzarne i fantasmi, che a quanto pare continuano a riaffiorare. A volte questa faccenda sembra una farsa, ma è l’eco di lontane tragedie.