martedì 12 novembre 2013

Laicità non significa ateismo: dove s’incaglia Flores d’Arcais


Francesco Pullia
L’ultimo libro di Paolo Flores d’Arcais, La democrazia ha bisogno di Dio. Falso! (Laterza), partendo dall’assunto, per certi aspetti lapalissiano, dell’autonomia della sfera pubblica rispetto a quella religiosa e dell’estromissione della seconda dalla prima, offre lo spunto per alcune riflessioni di fondo. L’autore, infatti, nella sua foga antireligiosa, finisce per contrapporre alla visione totalizzante dell’integralismo un’altra, la sua, che di fatto ne è l’esatto speculare, basata sull’esaltazione della razionalità e di una scienza fideisticamente elevata a termine di confronto apodittico. È certamente condivisibile, e la facciamo nostra, la preoccupazione di salvaguardare la libertà di ogni credo e di ogni fede rifiutando il controsenso (o, se vogliamo, la bestemmia) di una religione di Stato. La questione è, però, un’altra ed è racchiusa nell’atteggiamento refrattario, affermato e ostentato dallo stesso autore, verso ogni forma di religiosità. L’esito materialistico, riduzionistico, appare palese soprattutto se la posizione espressa non concede appelli. Così ad un dogma se ne sostituiscono altri (scienza contro Dio, assolutizzazione antropocentrica al posto del senso del divino) e ad una concezione teocratica ne subentra un’altra (ateistica) parodistica. Come dire, parafrasando Artaud, Dio (inteso qui come sistema di valori) e il suo doppio, uguale e contrario, fondato sulla sua espulsione. Ma le cose stanno davvero semplicisticamente così?



È proprio vero che tolto Dio debba subentrargli, come accentratore e misura di tutte le cose, l’uomo, specialmente nella versione spocchiosa, arrogante, cartesiana? E, ancora, siamo sicuri che “laicità” debba essere, per forza, sinonimo di “ateismo”? E fino a che punto la scienza (che, come si sa, è umana, troppo umana, quindi parziale, faziosa e limitata) può essere assunta come paradigma di presunta oggettività? Il libro di Flores d’Arcais evidenzia, in questo senso, fortissime lacune e incongruenze e, senza nulla togliere al suo ruolo stimolante, merita alcune risposte o, se si preferisce, precisazioni. Innanzitutto è avvilente che in pieno XXI secolo si sia ancora al punto di partenza, ci si attardi, cioè, in nome di una razionalità fondante (quindi metafisica), su una dialettica degli opposti (Dio-uomo, Dio-ragione) che speravamo francamente ormai alle spalle. Flores d’Arcais non può ignorare la problematica complessità di visioni come quelle, tra loro differenti ma tutte con una effettiva radicalità in comune, prospettate da Bonhoeffer, Ernst Bloch (valgano Ateismo nel cristianesimo e Il principio-speranza), Walter Benjamin, dai teologi della “morte di Dio” (Hamilton, Altizer, van Buren), senza tralasciare Bataille e Klossowski. A fare da battistrada sono stati Nietzsche e Kierkegaard. Da loro in avanti è risultato sempre più evidente che lo smantellamento di Dio (e dell’apparato che lo sorregge) portasse inevitabilmente con sé lo smantellamento dell’uomo e delle nefandezze perpetrate dall’antropocentrismo.


Albert Camus (nella foto qui sopra) e Günther Anders hanno dato, a questo proposito, il loro fecondo apporto. Riportare l’uomo al centro e divinizzarlo significa fare un pericolosissimo passo indietro (“l’uomo è antiquato” direbbe Anders) e cadere in una metafisica che non ha il coraggio di confrontarsi con i mostri causati dalla prometeica esaltazione dell’umano, con orrori che si chiamano Auschwitz e Treblinka, Hiroshima e Nagasaki, i gulag “tritacarne” del comunismo reale, genocidi, stermini a non finire e, last but non least, olocausto degli altri esseri viventi animali, specismo (senza dubbio il primo degli abomini, perché dalla pretesa dell’uomo di avocare a sé una presunta superiorità sulle altre specie viventi, arrogandosi il diritto di dominarle, sfruttarle, annientarle, deriva tutto il resto). Non solo. Flores d’Arcais non prende in considerazione quanto, nel nostro ambito, è stato elaborato da filosofi come Michelstaedter, Martinetti, Rensi e, soprattutto, Capitini (che anziché “credente” preferiva definirsi, con chiara influenza michestaedteriana, “persuaso”) e Tartaglia, fino ai più vicini Italo Mancini, Sergio Quinzio, Ferruccio Masini (si pensi alla sua rilettura di Nietzsche e nonché di autori scomodi come, ad esempio, quel Jean Paul, alias Friedrich Richter, che scrisse il Discorso del Cristo morto in cui Cristo, dall'alto dell'edificio del mondo, proclama che non vi è alcun Dio). Cosa vogliamo, dunque, sostenere? Che la contrapposizione Dio-uomo (o Dio-Dea Ragione) è fittizia e, anche nelle implicazioni politico-sociali, è stata ampiamente oltrepassata da una congerie di visioni ben più profonde di quella perorata da Flores d’Arcais. Il passaggio è dalla contrapposizione di comodo allo sfondamento della metafisica e da quest’ultimo alla costruzione di una nuova socialità in cui la religiosità svolga un ruolo dirompente. Ma di quale religiosità parliamo? Della compresenza omnicratica capitiniana che s’appella ad ogni essere senziente, senza alcuna distinzione di specie, chiamandolo a dare un diuturno e fecondo apporto di “aggiunte”. Dimensione nonviolenta e dialogica che, oltre Capitini, motivò e appassionò Danilo Dolci. Una società “laica” non è, dunque, atea (laicismo e laicità non possono essere equivocati con ateismo, tanto meno ne sono sinonimi) ma, al contrario, religiosamente aperta, orizzontale, dove l’apertura va intesa nell’accezione di non dogmatica, non irretita e immiserita in sterili cristallizzazioni (già Bergson, in ben altri contesti, aveva parlato di “religione statica” e di “religione dinamica”). Professarsi, poi, come fa l’autore, devoti della scienza significa cadere e scadere in aporie tardo positivistiche, nelle sabbie (im)mobili del riduzionismo.



La scienza, come non solo Feyerabend ma Bateson, Capra, Mathurana fino alle frontiere più avanzate della fisica odierna insegnano, tutto è fuorché il terreno dell’obiettività. Al contrario, è il regno dell’opinabilità in cui s’annidano le ingannevoli seduzioni del mercato, delle multinazionali farmaceutiche. Pietro Croce e Hans Ruesch hanno detto in merito molto, moltissimo. Il “progresso” dell’umanità non si misura sulla possibilità o meno di staccare spine e spinotti, di modificare geneticamente, e pertanto di violentare, la natura (a ridurre la fame nel mondo contribuiscono più gli ogm, le sementi brevettate, o non piuttosto, come Jeremy Rifkin ha ampiamente dimostrato, nero su bianco, in Ecocidio, un’alimentazione radicalmente diversa dalla “cultura della bistecca”, da quella che Melanie Joy ha efficacemente chiamato “carnocrazia”?). Più “scienza per tutti” ricorda tanto uno slogan coniato dal comico Antonio Albanese. Il guaio è che non siamo al cinema, non siamo comparse, ma protagonisti della nostra vita. Una vita che, almeno secondo le convinzioni di chi scrive, nella sua finitudine, nella sua transitorietà, reca in sé la responsabilità di un passaggio che inevitabilmente si ripercuoterà nel futuro, sugli altri esseri (di ogni specie) che dopo di noi verranno, senza dimenticare il famoso “effetto farfalla”. 

Nessun commento:

Posta un commento