martedì 23 dicembre 2014

Il Natale di Vittoria





Dal romanzo Vittoria, una storia degli anni Settanta (Giubilei Regnani) di Annalisa Terranova un estratto del capitolo "Natale". Auguri a tutti!


Due riti caratterizzavano in particolare il Natale in casa di Vittoria: l’allestimento del presepe e i fritti del cenone della vigilia. Anche l’albero di Natale aveva il suo ruolo, ma era sicuramente più marginale. Intanto doveva essere vero. Quando incominciarono a circolare i finti abeti il padre sentenziò che erano “cose fetuse” e che in casa alberi finti non ne sarebbero mai entrati. L’anno dell’austerity – cioè in occasione del Natale del 1973 – per far vedere alle figlie che la crisi nulla poteva contro la santità delle feste acquistò una serie di palline nuove per l’albero, una più bella dell’altra. Una era rosa circondata di merletti e decorata con pietruzze rosse. Un’altra era dorata e ospitava un piccolo presepe. Un’altra ancora era cosparsa di porporina verde e dentro ospitava un piccolo ramoscello di pungitopo. Nei Natali successivi, quando Vittoria, ormai grande, prendeva la valigia delle decorazioni per addobbare l’albero, quando le capitavano in mano quelle palline, proprio quelle, la mente tornava a figurarsi le feste passate, cedeva all’urto, indiscreto e avvolgente, dei ricordi. Tornavano i Natali dell’infanzia, con quel loro clima speciale, fatto di odori, di attesa, di affetti rafforzati, di un calore interiore che nessuna interferenza esterna poteva disturbare. 

Era però il presepe che assorbiva gran parte delle energie domestiche: anche per la localizzazione, si facevano grandi discussioni. Dopo di che si spostavano i mobili in modo che ci fosse spazio per una degna fabbricazione e si ammucchiavano nell’angolo scelto i sostegni del paesaggio sacro. Sgabelli, pile di volumi dell’enciclopedia, tavole di compensato. La prima cosa che il padre posizionava era la grande capanna di sughero. Dopo di che si acquistava il muschio fresco. Poi se ne andavano almeno altre due giornate per “fare le montagne” con la speciale carta colorata di verde e marrone. Quindi si sistemavano le luci, quasi tutte dentro la capanna perché era lì, diceva il padre, che succedeva la cosa più importante. Vittoria era impaziente, e provava a mettere fretta: “Ma quanto ci metti...”, diceva al padre. E lui: “La gatta presciolosa fece i gattini ciechi”. Finalmente, al momento di sistemare le statuine, anche Vittoria e la sorella facevano la loro parte. La madre le conservava avvolte nella carta di giornale e dunque ogni anno, quando si scartavano gli involucri, le frasi abituali erano: “Ho trovato San Giuseppe, ho trovato il pastore con la pecora in spalla, ho trovato la panettiera...”. Ovvia-
mente loro erano felici quando trovavano il Bambinello, che poi veniva preso in custodia dal padre e messo in un cassetto per essere deposto nel presepe solo la sera del 24 dicembre. La neve costituiva l’ultimo tocco: a casa di Vittoria non si usava neve artificiale ma il cotone idrofilo. Si facevano dei piccoli batuffoli di ovatta e si poggiavano qua e là a imbiancare la scena. Se il presepe veniva particolarmente bene, il padre lo fotografava. Così, in molte foto di famiglia, apparivano Vittoria e la sorella, in ginocchio e a mani giunte accanto a uno dei presepi paterni meglio riusciti, illuminato ad arte. 

Una volta alla parrocchia di quartiere realizzarono però un presepe più realistico, con scenografia arabeggiante con alte palme e con i re magi che attraversavano il deserto. Niente montagne, niente neve, niente grotta, niente paesaggi appenninici, e non c’era neanche la vecchina che vendeva le caldarroste, uno dei personaggi che Vittoria amava di più. L’insolito allestimento fu commentato in famiglia. Tutti erano delusi e il padre bollò l’iniziativa come un cedimento alle mode straniere. La madre però difese il fondamento storico della scelta: Gesù era nato in Palestina, a conti fatti. E il padre si inalbero: “E che c’entra? Il presepe l’abbiamo inventato noi, e va fatto secondo la tradizione, 
se no non è presepe, è un’altra cosa...”. 

I genitori di Vittoria si erano sposati a Greccio, cioè proprio nel luogo in cui Francesco d’Assisi aveva allestito la prima Natività. E nella foto in cui guardavano il prete, inginocchiati nella piccola cappella del convento dei frati minori, erano giovani e seri seri, forse persino un po’ smarriti, sicuramente commossi. La madre aveva uno sguardo languido, il padre aveva una faccia ispirata: a Vittoria sembravano bellissimi, ogni volta che guardava quelle immagini. L’abito bianco della madre non era lungo, ma arrivava alle caviglie. Una vera novità, per l’epoca. C’era poi una foto che li ritraeva mentre scendevano la scalinata di pietra: il papà avrebbe voluto aiutare la mamma, ma lei faceva una faccia scocciata, come a dire: ‘Faccio da sola, lasciami in pace’. La madre confermava l’interpretazione: ‘Sì, tuo padre voleva darmi il braccio, ma io sono ’ncitosa, lo sapete”. “Incitosa” significava una che si inalbera subito, una con un bel caratterino incline ad infuriarsi per nulla. Il padre invece la giustificava: “Era emozionata, bisogna capirla...”. 

L’altro rito natalizio che si ripeteva ogni anno era la preparazione dei fritti per il cenone. Si acquistavano le verdure al mercato la mattina della vigilia e poi, da metà pomeriggio, la cucina veniva chiusa agli estranei, cioè a Vittoria e alla sorella, e la mamma e il papà friggevano cavolfiori, 
zucchine, carciofi e cardi avvolti nella pastella. Una quantità che avrebbe sfamato un esercito. Senza la frittura il cenone della vigilia non sarebbe stato degno dell’occasione speciale e sembrava davvero che il padre ne traesse grande soddisfazione, presentando poi i piatti ricolmi con orgoglio da chef provetto. In quei giorni era consentito usare il cosiddetto servizio buono, che la madre custodiva con 
cura certosina. Si trattava dei piatti di porcellana bianca con decorazioni color oro, regalo di matrimonio, che facevano la loro comparsa a tavola solo una volta l’anno, cioè per il cenone di Natale. Oltre ai fritti si mangiavano spaghetti al tonno, merluzzo bollito, panettone e torrone. 

Tra le numerose famiglie del condominio di Vittoria quella di Agnese e Sebastiano, che era stato per anni emigrante in Germania a fare l’operaio, organizzava per la sera di Santo Stefano tombolate e giochi di carte con parenti e vicini di casa. Si mangiava panettone fino a tarda notte, poi Agnese serviva i torroni di tutti i tipi e si passava al gioco del mercante in fiera o del sette e mezzo. Vittoria giocava con troppa timidezza, non aveva voglia di sperare nelle carte per non restare delusa, atteggiamento che i giocatori provetti disapprovano: “Se non credi nelle carte, le carte ti puniscono...”. Però assisteva felice al giro della sorte, cercando ogni volta di indovinare chi sarebbe stato toccato dalla buona stella. La vincita ammontava a un massimo di cinquemila lire ma procurava comunque esultanza in quella compagnia di gente abituata alla fatica, che si godeva le feste con animo semplice. C’era in particolare un cugino della signora Agnese che faceva anche lui l’operaio e, prima di mettersi a giocare, si metteva al collo un fazzoletto rosso contro la jella e chiedeva scusa al padre di Vittoria: “Lo so – diceva – è il colore dei comunisti, ma io lo metto solo perché voglio vincere tutto, nun me guarda’ male...”. Poi aveva anche un altro fazzoletto rosso portafortuna in cui metteva le monete per giocare e diceva che non se ne sarebbe andato finché non lo avesse riempito con le cento lire vinte al gioco. Era lui che faceva il mercante in fiera ed era molto bravo a vendere una carta fingendo che fossero almeno tre. Sapeva animare le giocate facendo ridere tutti e, se mancava lui, le serate erano meno divertenti. Se vinceva, offriva vino rosso alla salute dei presenti e qualche goccia era consentita anche a Vittoria, che lo accettava volentieri pur non apprezzandone il gusto troppo aspro, di vino poco ricercato. 

Aveva sentito dire che gli operai erano tutti comunisti e le sembrava bizzarro che tra suo padre e quei lavoratori ci fosse così tanta cordialità, finché lui le spiegò che erano i comunisti ad imbrogliare gli operai, che i padroni sfruttavano le loro braccia e il Pci la loro rabbia, mentre il fascismo aveva concesso loro l’assicurazione contro gli infortuni e gli assegni familiari. Un Natale al figlio di Agnese fu regalato un mangiadischi e lui fece ascoltare a Vittoria e alla sorella il brano del momento, Jesahel, che si ballava dondolando le braccia avanti e indietro. Così passarono la serata a sentire e risentire sempre lo stesso ritornello, “Jesahel, nanananana... Jesahel”, finché i grandi non li vennero a cercare perché le giocate erano terminate e bisognava che ognuno se ne andasse a casa sua e quando li sorpresero a ballare col mangiadischi tutti ridevano tra loro dicendo che la sorella di Vittoria e il figlio di Agnese si sarebbero fidanzati, ma Vittoria sapeva che non era possibile perché alla sorella 
piaceva il figlio della signora Liliana, quella che faceva le iniezioni in giro per le case e non sorrideva mai. Il figlio era biondo e sempre immerso nei suoi pensieri e ignorava tutti gli altri ragazzini quando si radunavano in cortile. La madre consolava la sorella di Vittoria dicendole che quello non la filava perché era troppo grande, in realtà lui non filava proprio le ragazzine perché non voleva far coppia con le femmine ma con altri maschi, ma questo lo avrebbero scoperto solo più tardi. E quando lo scoprirono in famiglia si parlò del tema proibito dell’omosessualità. E il padre di Vittoria fu perentorio: “Sono persone diverse ma vanno rispettate come tutti gli altri, anzi a volte questo tipo di 
persone sono più sensibili, più umane. E poi quello che fanno nella vita privata sono fatti loro”. Il figlio di Agnese, invece, era uno spilungone un po’ allampanato, che da grande voleva fare il carabiniere, e sul possibile fidanzamento con la sorella di Vittoria la mamma scherzava dicendo che sua figlia doveva fidanzarsi minimo minimo con il figlio di un dottore e non certo con il figlio di un operaio. 





lunedì 22 dicembre 2014

Una delle più belle favole di Natale



Una delle più belle favole di Natale è Cristallo di rocca di Adalbert Stifter (1845), il racconto che fa parte della raccolta Pietre Colorate, storie edificanti per bambini e adolescenti, narrate con la prosa ordinata, austera ma capace di picchi lirici inaspettati di un autore che meglio di altri ha saputo trasferire nelle pagine dei suoi libri la meraviglia dei paesaggi montani. In questo breve racconto Corrado e Sanna, due bambini figli del calzolaio del paese, attraversano la montagna per recarsi dalla nonna, la vigilia di Natale, smarriscono al ritorno la strada, si perdono nel bianco terribile e sterminato dello scenario innevato, affrontano con cuore fiducioso la prova. Assistiti dalla magica forza luminosa della Notte Santa attraversano senza saperlo un ghiacciao e un crepaccio sempre speranzosi che dalla montagna non può venire che vitale sicurezza. Finché al mattino non vengono ritrovati dai paesani, tutti in cerca dei bambini perduti. Il lieto fine coincide con l'alba, col levarsi del sole che porta luce e salvezza come il Bambino Gesù di cui si celebra l'avvento: "Un gigantesco disco sanguigno si alzò nel cielo all'orlo della neve, e in quell'attimo si colorò di rosso la neve intorno ai bambini, come vi fossero sparse milioni di rose...".    

Annalisa Terranova

lunedì 8 dicembre 2014

Finisce la storia dell'amica geniale con il quarto romanzo di Elena Ferrante




Di seguito la recensione di Goffredo Fofi della storia dell'amica geniale di Elena Ferrante che giunge a conclusione con l'uscita dell'ultimo dei quattro romanzi, Storia della bambina perduta (E/O, pp. 452, 18 euro). L'articolo è tratto da Internazionale

Giunge a conclusione il romanzo-fiume di Elena Ferrante in quattro volumi, un ambizioso e riuscito affresco napoletano che avanza per più di mezzo secolo della nostra storia attraverso quella di un'amicizia femminile. Elena, la narratrice, che va a studiare alla Normale di Pisa e diventa scrittrice famosa, che lascia Napoli per Torino, che si sposa con un uomo di sinistra scoprendo che "al mondo non c'era niente da vincere", ma che ha soprattutto un'amica, Lila, più forte di lei e più "geniale", che sceglie di restare e di patire la sua condizione di donna e di napoletana fino in fondo, con instancabile e proterva lucidità. Due "piccole donne" che crescono in una Napoli-Italia che è sempre più un pozzo nero. Ognuno di noi dovrebbe avere accanto un "beffardo", un demone che ci costringe a non mentirci, a non illuderci. Il confronto di Elena - dell'autrice - è infine con se stessa e con Napoli, descritta con rara sapienza nel suo corpo tra piccolo-borghese e sottoproletario, tra Viviani ed Eduardo, e nel suo degrado, ma anche con un'idea di donna, in anni di nuove idee delle donne sulle donne. Il solo limite (ma è forse la sua forza) di Ferrante, che conosce bene Morante, Ortese, Ramondino - cantatrici della sua città - è l'assenza di quel "di più" di inquietudini che queste avevano, e il chiudersi in una sorta di laicismo senza velo e trascendenza, mai. 

Goffredo Fofi 

Marco Tarchi al Fatto quotidiano: già ai tempi della Voce della Fogna si parlava di "cloaca romana"



Il 7 dicembre, "il fatto Quotidiano" ha pubblicato un'ampia parte dell'intervista qui allegata al politologo Marco Tarchi (dedicata ai recenti fatti di cronaca politico-delinquenziale romani) con il leggiadro titolo (tra virgolette!) "Tra noi camerati c'erano spostati e delinquenti".

Giustamente Tarchi ha inviato al quotidiano una sua lettera di precisazioni, che riportiamo dopo il testo dell’intervista, che intanto proponiamo:


Dice Carminati a Buzzi: “È la teoria del mondo di mezzo, compà”. Mafia Capitale ci restituisce l’ultimo capitolo della rivoluzione impossibile. Da camerata a compare. Come è stato possibile?

Non vedo nessi fra le aspirazioni utopiche di un microcosmo come quello neofascista degli anni Settanta-Ottanta e le squallide vicende odierne. Anche se dall’esterno molti faticano ancora oggi a capirlo, quell’ambiente politico non era, umanamente, agli antipodi di altri di diverso segno. Ci si trovava di tutto: dagli idealisti ai carrieristi, dagli onesti ai delinquenti, dai teppisti alla “gente d’ordine”. Io non ho mai giudicato, per dire, la sinistra extraparlamentare dal destino di un certo numero di suoi militanti finiti in pessimi giri. Certo, negli ambienti in odore di estremismo la proporzione di spostati, ribelli e marginali è sempre maggiore, e le conseguenze si vedono. Ma, anche se la battuta è scontata, non va fatto d’ogni erba un fascio.

Quando venne eletto, Alemanno fu accolto dai saluti romani al Campidoglio. È finita con un sistema rossonero dominato dall’affarismo e tante suggestioni da romanzo criminale.

A me, ma anche a non pochi amici provenienti dall’esperienza missina, quello spettacolo capitolino apparve patetico e ridicolo nel contempo. E indicativo della mancata risoluzione del nodo cruciale dell’identità che aveva accompagnato Alleanza nazionale in tutta la sua storia: mentre Fini esibiva la sua più o meno sincera conversione liberale, i ventenni di base continuavano a celebrare grotteschi riti nostalgici. Era il trionfo della linea della doppiezza, utile a conservare un potenziale di ricatto verso gli alleati, e nel contempo il sigillo della nullità propositiva di una classe dirigente che non aveva saputo imboccare la via di un’evoluzione coerente e meditata. In mancanza di quella, non restava che l’abbuffata del sottogoverno, con tutte le sue conseguenze.

In questo caso non è la politica che controlla il sistema ma il contrario. Burattini, non burattinai. Si ribalta il complesso di Mosè tra capo e militanti?

Da quando si è iniziato a celebrare il funerale delle grandi aspirazioni a cambiare il mondo, delle ideologie, dei progetti – magari ingenui – di rifondare da capo a piedi una società, è apparso chiaro che la politica si sarebbe ridotta, per chi intendeva praticarla a tempo pieno, a carrierismo. E in un contesto in cui è l’economia a segnare l’orizzonte dei valori e delle aspirazioni e l’arricchimento è il metro della considerazione sociale, non ci si può stupire se molti “politici di professione” non sono altro che arrampicatori spregiudicati, disposti a qualunque compromesso (per essere eufemisti). Il mondo già neofascista non ha fatto eccezione. Ma da qui ad equipararne tutti i militanti a reali o potenziali delinquenti, ce ne corre.

L’amministrazione Alemanno è sempre stata al centro delle polemiche per i rapporti con l’antico mondo nero, dai Nar a Terza Posizione per arrivare alla più recente Forza Nuova. Secondo lei, l’ex sindaco aveva un patto d’onore con i vecchi camerati?

L’onore è una parola forte. Penso che, volendo costruire una rete di sostegno dopo essere giunti a un successo inatteso, sia più facile e comodo puntare sulle vecchie conoscenze che partire da zero guardando ad altri ambienti. Anche se Alemanno, come è noto, soprattutto attraverso la sua fondazione Nuova Italia, ha cercato addentellati anche negli ambienti cattolico-conservatori. Credo che abbia contato anche, in certi contatti pericolosi e sgradevoli, la sindrome degli ex reclusi nel ghetto, che ha sempre connotato il neofascismo romano. Dove vigeva la mentalità del “siamo tutti camerati” (un po’ l’equivalente del “compagni che sbagliano”), che era bersaglio delle critiche di quanti avevano ben presenti le distanze tra Msi ed extraparlamentarismo e ci teneva a rimarcarle.

Alemanno è stato rautiano, come lei. Un mondo contrapposto al doppiopetto di Almirante. In ogni caso la Seconda Repubblica ha sancito il fallimento di entrambe le due maggiori correnti storiche del Msi. Fini è naufragato a Montecarlo, Alemanno su Carminati.

Sulla corrente di Rauti si è molto favoleggiato e travisato, sebbene uno studioso nettamente schierato a sinistra come Piero Ignazi fin dalla fine degli anni Ottanta ne abbia disegnato un profilo corretto, dipingendola come l’ambiente interno al neofascismo in cui più si era attenti al dibattito culturale, si accettava il confronto con la modernità e si demolivano gli stereotipi nostalgici. Quel che non si dice è che da quell’ambiente non sono usciti solo gli Alemanno e altri mestieranti della politica, ma anche accademici, dirigenti di vertice di associazioni ambientaliste “ufficiali”, managers che sono finiti sulle prime pagine dei maggiori quotidiani per le loro qualità inventive, personaggi di successo del mondo della informazione e dello spettacolo, funzionari statali di grado elevato, membri del Csm e perfino un giudice della Corte costituzionale. Tutto questo non risulta – e non risalta – perché, nel loro caso, non si è costituita alcuna lobby come quella accreditata agli ex di Lotta Continua. Sono stati tutti percorsi individuali indipendenti. Ma sta a dimostrare che non si trattava certo di un’accolita di sprovveduti estremisti con velleità golpiste o insurrezionali. 

Lei che ha inventato la Voce della Fogna si sarebbe mai aspettato questa trasfigurazione criminale della Terra di mezzo tolkeniana?

No davvero. Quel giornaletto politico-satirico era nato, prima ancora che per replicare agli avversari, per fare autocritica dei tanti insopportabili vizi che affliggevano il neofascismo, e non a caso fu proprio su quelle colonne che si tentò di far trasmigrare l’immaginario collettivo di quell’ambiente dal Ventennio alla Contea tolkieniana. Spero comunque che fra il “mondo di mezzo” di cui si parla in questi giorni e la Middle Earth di Bilbo, Frodo e soci non ci sia altro che una vaga assonanza linguistica.

Un’altra frase di Carminati, prima spontaneista armato, poi in contatto della banda della Magliana, che colpisce è questa: “Bisogna vendersi come le puttane, adesso”. Il fascino del male (assoluto) è sempre corrotto dal denaro. È Sauron che riesce a riprendersi l’anello del potere?

Volerei molto più basso. È una delle tante prove che la passione politica non preserva dalle miserie antropologiche. Tutt’altro.

È mai esistita, a questo punto, una diversità nera, tenendo presente anche i rapporti storici tra ambienti di destra e massoneria e servizi deviati?

Per certi versi sì, perché quell’ambiente ha sempre celebrato propri culti, innalzato propri idoli, coltivato propri sogni che non coincidevano con quelli del mondo che gli era estraneo (e a cui era estraneo). Per altri no, perché nei vizi molto spesso comunicano ambienti e individui che per il resto sono molto diversi. È una regola che non vale solo per l’ambito politico.

Lei spiegò così la Voce della Fogna: “Tutto fuori puzza. Il profumo si è rifugiato nelle fogne”. Quarant’anni dopo quel mondo è solo gestionismo del potere, solo soldi e opportunismo?

Quell’affermazione, che prendeva di mira lo slogan “fascisti carogne, tornate nelle fogne” e mirava a considerare queste metaforiche ridotte come le nuove catacombe da cui sarebbe partita una riscossa culturale ed esistenziale, era indubbiamente spropositata e oggi può sembrare insensata. Ma se i giovani missini di allora avessero accolto quel messaggio, invece di farsi abbindolare dai proclami ondivaghi e talvolta ipocriti dei loro maggiorenti, parecchie pagine oscure non sarebbero state scritte.

C’è uno specifico romano in questa vicenda? In fondo anche il fascismo una volta al potere si rammollì nei palazzi della capitale, come per esempio ha scritto Fusco.

Altroché se c’è! Ai tempi de “La voce della fogna”, si parlava apertamente di “cloaca romana” per descrivere i maneggi, gli intrecci sgradevoli e il pressapochismo che caratterizzavano buona parte (c’erano, ovviamente, eccezioni lodevoli) del panorama missino della Capitale. Ma era roba da niente rispetto alle porcherie odierne.

Che impressione le fa il nuovo termine fasciomafioso?

Come molti neologismi dei nostri anni, mi pare buono per attirare l’attenzione, molto meno per capire ciò che vorrebbe descrivere. Perché questa associazione delinquenziale, a quanto pare, di addentellati politici ne aveva di vari colori: rossi, neri, bianchi…

P:S:
Ecco gli appunti di Tarchi soprattutto sul titolo e sull’incipit dell’intervista, lì dove si legge: "A destra, il politologo Marco Tarchi, che insegna alla "Cesare Alfieri" di Firenze, è un'istituzione".

Questa le lettera inviata al quotidiano: “Ho letto. Insegnando comunicazione politica da quindici anni, non fingo stupore sul titolo - che, lo so, non dipende dall'intervistatore -, che al giornale serve, anche con i falsi virgolettati come in questo caso, per accreditare la propria versione dei fatti a prescindere da ciò che sostiene l'intervistato. Mi stupisce invece di essere considerato da Lei "un'istituzione a destra". Per la verità, a destra da vari decenni mi censurano, mi attaccano, mi discriminano. Se non avessi avuto interlocutori in altre aree, e soprattutto nel mondo scientifico, di occasioni di espressione ne avrei avute, più che poche, "punte", come dicono i fiorentini veri (io, ohimè, sono... reimmigrato da Milano a 16 anni). Avendo io espresso il mio ultimo voto a destra (Msi) nel 1979, e non considerandomi minimamente appartenente a quell'area malgrado gli sforzi altrui di infilarmici a forza, non posso dolermene più di tanto. Ma che ora debba scoprire, invece, di essere "un'istituzione" di quell'ambiente, mi sorprende non poco. Temo proprio che gli stereotipi siano duri a morire. Durissimi, direi. Vuol dire che mi consolerò pensando che un ex redattore de "La voce della fogna" è stato nominato alla Corte costituzionale da Napolitano. Chi l'avrebbe mai immaginato...”

martedì 2 dicembre 2014

Filippo Tommaso Marinetti 70 anni dopo



articolo apparso sul quotidiano "il Garantista" martedì 2 dicembre


Luciano Lanna

No, non è facile separare la maschera (impostasi con gli anni) dal volto (reale) di Marinetti. La difficoltà sorge comunque spontanea ogni qualvolta si viene invitati a ricordare, a celebrare, inevitabilmente a codificare un personaggio quale Filippo Tommaso Marinetti che, per tutto quello che è stato e ha fatto, risulta costitutivamente refrattario a qualsiasi incasellamento. Come si fa del resto a sintetizzare e a sistematizzare la vita, il pensiero e l’opera del padre del futurismo, di chi cioè – mettendo in azione la prima avanguardia storica del Novecento – aveva esordito invitando a “distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie” e a “combattere contro il moralismo” di ogni tipo? Essendo costretti a farlo, anche perché ricorre il settantesimo della sua morte, proviamoci cercando di fare emergere il volto e mettendo in secondo piano la maschera sia di Marinetti che del futurismo.
Filippo Tommaso Marinetti (FTM o effe-ti-emme), padre di un approccio nuovo alla cultura e alla vita fatto di “comprensione” reale del Novecento, di sintonia con il concetto (e la prassi) di simultaneità e con una concezione del tempo non lineare ma circolare e compresente, e quindi con lo spirito di mescolamento dei linguaggi e dei generi, dei materiali e delle sensibilità estetiche, della rottura della tradizione canonica ottocentesca, con la rottura di ogni compostezza formale di tipo borghese, di ogni chiusura identitaria, era nato non a caso ad Alessandria d’Egitto il 21 dicembre 1876, cullato – come lui ha più volte ricordato – dal richiamo dei muezzin e dal vociare dei bazar musulmani. Ancora nel 1930, nel suo libro Il fascino dell’Egitto, confessava d’altronde la sua insopprimibile passione “per il sacro meccanismo dei dervisci” sino a lasciarsi andare a un atto sincero di ammirazione per l’universo e la religiosità dell’Islam: “La polvere nostalgica di tutte le strade d’Africa e d’Asia che le tinge, dialoga con la vicina grande nicchia santa rivolta alla Mecca, dramma sintetico d’oggetti muti che riassume l’immenso Islam…”.
Più di qualche critico, in tempi recenti, ha non casualmente ricollegato proprio a questa situazione infantile la genesi stessa del paroliberismo e di un’idea non figurativa dell’arte. Ma ripercorrendo il vero Marinetti (e il vero futurismo) riemergono tante altre dimensioni che inevitabilmente lo collocano oltre e al di là l’universo culturale in cui – per pigrizia politicistica – si tenderebbe invece a sistematizzarlo.  Si pensi alla sintonia con le altre avanguardie e con tutta l’arte cosiddetta “degenerata”, al rifiuto del razzismo, allo spirito libertario, all’idea di svaticanizzare l’Italia, all’anticipazione profetica di un’estetica televisiva e di una percezione multimediale e da internet della comunicazione, alla passione per la musica jazz, al fatto che uno dei primi a parlare bene di Marinetti e dei futuristi fu Antonio Gramsci, annotando nel 1921: “Hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio…”.
Certo, Marinetti fu interventista e, con i suoi futuristi, fu tra i primi a dare corpo e anima al movimento fascista delle origini. Ma, tanto per dire, gli ex anarchici e futuristi Mario Gioda, segretario del Fascio di Torino, insieme al suo sodale Libero Tancredi, che si rese poi noto con lo pseudonimo di Massimo Rocca, già nel dicembre del 1922 avevano avviato un’aspra polemica contro il notabilato fascista locale, il rassismo e la deriva violenta e illiberale degli squadristi. Poi, tra alti e bassi, distacchi, polemiche e rapporti ripresi, sarà sempre il regime ad avere bisogno dei poeti, dei pittori, degli artisti futuristi. Ed è anche vero che Marinetti, dopo essere andato volontario nella campagna di Russia a sessantasei anni, aderì a Salò, accettando anche di presiedere l’Accademia d’Italia, lui che pure da giovane voleva abolire tutte le accademie… E proprio nella Repubblica fascista, si spegnerà a Bellagio sul lago di Como, il 2 dicembre 1944, mentre dettava alla moglie Benedetta il poemetto Quarto d’ora di poesia della Decima Mas: “Salite in autocarro aeropoeti e via che si va finalmente a farsi benedire dopo tanti striduli fischi di ruote rondini critico mani lambicchi di ventosi pessimismi…”.
Fatto sta, comunque, che Filippo Tommaso Marinetti, fondatore e animatore di quella che sarebbe stata definita “l’avanguardia della contestazione”, tornerà centrale nell’immaginario e nel dibattito pubblico italiani solo dopo il ’77 e grazie a due artisti, libertari e figli del miglior ’68: Pablo Echaurren e Andrea Pazienza. Accadde infatti che a un indiano metropolitano di 26 anni come Echaurren, impastato in realtà di dada-surrealismo, i conformisti dell’epoca sputassero addosso tutta la loro insofferenza tacciandolo tout court di “marinettismo”. Lo ha raccontato lui stesso: “Io, per esempio, mi sono impegolato nel futurismo italiano in pieno clima degli anni di piombo. E mi ci sono ingolfato perché un tizio, in un volantino cretino da lui stilato e firmato, mi aveva accusato di esserne un verace seguace”. Ma Echaurren invece di subire e indignarsene, prese a studiare, a fissarsi che doveva risalire alle origini marinettiane, far proprie le scaturigini del suo pensare e agire controcorrente. All’epoca, del resto, in quel triennio 1977-78-79 Marinetti non era stato riscoperto e capito: “Per dirla tutta, a destra – ha ricordato Pablo nel suo libro Nel paese dei bibliofagi – il suo futurismo era considerato roba da sovversivi e dissacratori dell’ordine costituito e costruito di tipo Brasini e Piacentini, da adoratori dei trimotori e spregiatori delle aquile imperiali e dei fori romani. A sinistra la si riteneva cianfrusaglia da bastonatori, diciannovisti, squadristi pseudo artisti”. I capoccioni, i solini, i tromboni, i benpensanti di ogni colore politico gliela facevano pagare cara a Marinetti e al futurismo, a quelli cioè che le biblioteche volevano bruciarle e i musei abolirli. Risucchiata nei buchi neri della memoria, criminalizzata dai censori, di sinistra o tradizionalisti essi fossero, ostracizzata dai redattori delle pagine culturali che contavano e dai compilatori delle antologie scolastiche, l’opera di Marinetti giaceva solo nelle bancarelle dei libri usati, sui cataloghi antiquari, nelle cantine e nelle soffitte degli ex futuristi. Da qui una sorta di bibliofagia compulsiva che in trent’anni ha fatto di Pablo, insieme con sua moglie, la critica d’arte Claudia Salaris, i più grandi collezionisti di futurismo in Italia. E non solo: Echaurren realizzerà anche una storia a fumetti di Marinetti: Caffeina d’Europa che, dopo decenni, riproporrà il ruolo effettivo del padre del futurismo al grande pubblico della cultura pop.
Lo stesso approccio e la stessa passione per il futurismo verranno celebrati anche da Andrea Pazienza, il celebre Paz, altro grande artista e fumettista della generazione degli anni Settanta, scomparso prematuramente nel 1988 a 32 anni, in una poesia risalente proprio al 1977 e il cui manoscritto è stato riprodotto nel bel libro a fumetti Le straordinarie avventure di Pentothal. E lì Paz celebrava le matrici profonde dell’immaginario della sua generazioni: “Amo Lacerba e Giovanni Papini / Amo Georges Mathieu / amo Ezra Pound, fascista… / e Balla Boccioni Segantini Severini Carrà; / Marinetti Filippo Tommaso, fascisti / li amo…”. Una dichiarazione, un omaggio postumo che, in qualche modo, riusciva a ricollocare FTM all’interno dell’incandescenza creativa del miglior Novecento. Se infatti qualche nome dovesse essere fatto per immaginare gli eredi di FTM si dovrebbe andare a Marshall McLuhan, a Guy Debord, a Steve Jobs e a Bill Gates… Il resto, avrebbe detto Filippo Tommaso, sarebbe solo passatismo…


giovedì 20 novembre 2014

In sezione o dall'estetista? Ecco quando le camicette nere hanno cominciato a perdere

L'ormai arcinota intervista della lady renziana Alessandra Moretti mi ha fatto venire in mente il finale di un mio libro per fortuna poco letto, Aspetta e spera che già l'ora s'avvicina (Settimo Sigillo). L'ho riletto e lo riporto qua sotto, perché le Moretti, le Madia, le Biancofiore, le Minetti ecc. ecc. ecc. sono il prodotto di ciò che osservavo allora. Era il 2002. Un'onda inarrestabile dinanzi alle quali le militanti di un tempo, a destra e a sinistra, erano e sono destinate a soccombere



"Quanto alle donne bè, aspetto ancora di assistere a un bell'inizio danzante di una vera politica femminile al di là della destra e della sinistra. Ho l'impressione che si faccia fatica a credere che sia esistito un impegno femminile sul nostro versante, invece furono disperati tentativi di rettificare lo spericolato verbo femminista. Una storia che, forse, prima o poi qualcuno racconterà. Stranamente, mi capitò di accennarvi davanti a una platea di femministe. Ho cercato di spiegare come eravamo. Alla fine una matura signora si alza e mi trafigge: 'Io credo che lei abbia deciso di essere di destra ma sotto sotto abbia aspirazioni di sinistra'. Che sia vero? Che non rimanga altro che la sconfitta della psicanalisi per quelle ragazze un po' così che si aggiravano nelle sezioni missine? 

In missione da Almirante

Una mattina di venti anni fa ci trovavamo a fare anticamera davanti all'ufficio di Giorgio Almirante . Una sparuta delegazione femminile (Marina Maugeri, Isabella Rauti e io) con la missione di ottenere il via libera al bozzetto di un manifesto per l'otto marzo. Il segretario modificò il disegno, un ramo verdeggiante che formava un profilo femminile, col garbo severo di chi non ammette repliche e il risultato fu che quel ramo andò a formare il profilo di una donna calva. Contente lo stesso, lo facemmo stampare da Pasquale Toppeta, mitica figura di tipografo militante, che maneggiava i segreti della grafica con eccessiva disinvoltura asserendo 'Lascia fare a me, che faccio lo stampatore, mica il pizzicagnolo...'. E la donna calva fece la sua comparsa sui muri di Roma stagliandosi su un orribile fondo celestone. Quel manifesto aveva la fragile inconsistenza dell'impegno femminile a destra.
Estemporaneo e passionale come il primo sit-in al quale ho preso parte, quando la federazione ci aveva fornito una serie di cartelloni sul carovita e aveva chiamato a raccolta le infuriate massaie della Fiamma... deposti i cartelloni coi disegni del pane, dell'olio, delle uova e delle patate che costavano troppo, alle signore tricolori restava unicamente la battaglia per l'assegno alle casalinghe. Un orizzonte che a noi più giovani appariva misero e angusto ma che oggi conosce insperati revival. 

Eowyn e la celtica

L'impegno femminile aveva anche altre facce. Quella simpatica di Marilena Novelli, che riuniva a casa sua la redazione di Eowyn e mi spiegò con materna pazienza perché non potevamo andare d'accordo con le femministe. Il marxismo - disse più o meno - traduce il mondo in termini di conflitto: gli operai contro i padroni, i figli contro i genitori, le donne contro gli uomini. Dunque i marxisti odiavano il mondo, e noi lo dovevamo salvare. Eowyn era un'eroina del romanzo cult della giovane destra Il Signore degli Anelli e il suo nome fu scelto per la testata di una rivista scritta solo da donne, nata per scrollare il settore femminile del partito dal suo letargo e per far capire alle femministe che dall'altra parte non c'erano solo virili saluti romani ma anche riflessioni dignitose sul destino dell'emancipazione. L'iniziativa fu apprezzata più all'esterno che all'interno. Dieci anni dopo, Eowyn era diventato un fenomeno di antropologia culturale, un ossimoro politico racchiuso nell'etichetta "femminismo di destra" secondo la sociologia di sinistra che si interrogava sulla nostra cultura. Nel Msi invece Eowyn fu accolto come un'eresia. Capitò persino, a un convegno di partito, che fummo messe alla porta perché pretendevamo di distribuire un numero che aveva la croce celtica in copertina. Estremiste quando si giocava in casa, reazionarie quando si giocava in trasferta, eravamo rassegnate all'invisibilità politica. 



Le femministe e Francesca Mambro

Presuntuose come si può esserlo prima dei vent'anni, non ci importava molto il confronto con le avversarie, impedito comunque dal vezzo di considerare i fascisti dei paria della cultura. Le femministe del mio liceo erano inquadrate come soldatini di una guerra perduta. Parlarci era impossibile. Qualche anno fa ci siamo scambiate i numeri di telefono con le femministe più sensibili alla storia di Francesca Mambro, insieme abbiamo fatto un convegno per chiedere la verità sulla strage di Bologna, insieme abbiamo detto di cercare i veri colpevoli e di non infierire su due comodi capri espiatori.

I maschi d'ambiente

I sacri testi di riferimento erano ardui da affrontare. La dura prosa di Evola, le stilettate antifemministe di Nietzsche, non le digerivi mica a cuor leggero. Il cameratismo era un sentimento elitario, che metteva fuori gioco le donne e le obbligava a una paradossale durezza nei comportamenti per meritare il rispetto dei maschi. Non che gli uomini fossero contrari al protagonismo femminile: diciamo che per loro eri un'assistente, quasi mai una pari. Ciò comportava reciproci doveri: loro badavano a che tu non ti facessi male, tu badavi a fingere che la cosa ti riempiva di gratitudine.   



I tacchi a spillo

... Dopo la vittoria del '94 scoprimmo che i simboli della donna di destra erano le scemenze di Ambra Angiolini e i tailleur di Letizia Moratti. Ci dissero che le signore del Polo erano Ombretta Colli e Tiziana Maiolo. Pazienza. Era una consolazione l'idea che fosse stata spazzata via una politica femminile fondata sulla pura rivendicazione e sul protezionismo delle quote. Nonostante tutto, avevamo vinto sul femminismo. Sulla macerie di quelle rivendicazioni la donna del Duemila camminerà più sola e più debole ma nessuno lo dice perché tra i lasciti meno importanti delle ideologie c'è la retorica, e la retorica è un comodo rifugio per la politica. ... Oggi quei lampi di anticonformismo che ho avuto la fortuna di intercettare prima dei vent'anni sono estinti, temo che non covino più nemmeno sotto la cenere. Ho letto che tra donne di destra e donne di sinistra la partita si gioca sugli stilisti di riferimento e la Cdl ha marciato a Roma anche tra i battiti aggressivi dei tacchi a spillo di Daniela Santanché. Per questo ho indugiato sui miei ricordi preziosi. Magari aiutano a non perdere l'orientamento. Tutto il resto, lo sappiamo, è branco rosa".  

(Annalisa Terranova, Aspetta e spera che già l'ora s'avvicina. Dove vanno o dove vorrebbero andare i camerati sdoganati, Settimo Sigillo, pp. 101-107)



domenica 16 novembre 2014

Una domenica di buone letture tra Péguy e Pérez Reverte (passando per Enrico Vanzina)



Luciano Lanna

Cosa segnaliamo dalle pagine culturali di questa domenica? Innanzitutto, l’articolo “Péguy vero umanista” del filosofo francese Alain Finkielkraut che compare oggi su Avvenire. Il testo contiene le linee guida della relazione “Ogni cosa è ‘avvenimento’. Ripartiamo da Péguy” che Finkielkraut terrà domani, lunedì, a Milano. “Péguy – scrive il pensatore riferendosi al grande intellettuale di cui quest’anno ricorre il centenario della morte – è un autore ‘maledetto’: ma la sua è una maledizione estremamente paradossale. È uno degli autori più celebri della letteratura francese: nessuno ignora il suo nome, eppure nessuno lo legge. È un nome vuoto, una specie di illusione…”. E Filkielkraut definisce Péguy un “umanista sperduto nel mondo moderno”. Non certo un tradizionalista e un antimoderno, come spesso è stato presentato. Annora e precisa Finkielkraut: Péguy non è moderno, ma non è nemmeno un pensatore della tradizione… Noi, invece, vogliamo che il moderno sia il valore fondamentale: non vogliamo più condannare qualcosa del passato perché è passato. Ma noi siamo ‘turisti’ dello spazio e del tempo: e questo è il mondo postmoderno”. Il cosiddetto ‘turista’ è, insomma, per Finkielkraut, la figura ultima della modernità. Il turista, nella sua visione, è precisamente l’uomo contemporaneo, chi vede il mondo come pura e semplice disponibilità: "Il pericolo nel quale ci troviamo oggi è quello di essere rinchiusi in un’alternativa nella quale da una parte c’è il turista, che cammina nel giardino della storia, che colleziona modelli, che passa con superficialità da una cosa all’altra; e di fronte a lui sta una sorta di avversario costruito su misura, che sarebbe poi l’uomo radicato nel suo territorio”. Vale davvero la pensa leggersi le conclusione di Finkielkraut: “L’ideologia turistica consiste oggi nel far passare per fascista tutto ciò che contesta: è il destino di Péguy, è il destino di molti altri pensatori. Se non facciamo attenzione, rischia di instaurarsi così una specie di movimento politically correct. Rischiamo oggi di essere condannati a quest’alternativa e di essere immediatamente tacciati di fascismo se ci rifiutiamo di ritrovarci nel turista e di vedere in esso la figura ultima dell’umano. Però questo è il nostro compito: penso che Péguy più di chiunque altro ci possa aiutare in questo…”.
Molto interessante anche l’intervista di Rita Sala allo scrittore spagnolo Arturo Pérez Reverte che compare sulle pagine culturale del quotidiano Il Messaggero. “Con i tempi che corrono, mentre – dice il narratore – l’Europa crolla poco a poco e sull’Acropoli, ad Atene, il Partenone serve solo da sfondo a stupidi turisti per farsi uno stupido selfie, abbiamo un’unica via d’uscita: consolarci con la cultura. La cultura è l’unico analgesico che lenisce il dolore di veder tramontare il mondo al quale apparteniamo”. Ma non è un pessimista lo scrittore nato a Cartagena. Tanto da dedicare il suo ultimo romanzo – in italiano Il cecchino paziente – ai grafiteros, i ragazzi che come forma di ribellione creativa scrivono e disegnano sui muri delle metropoli di tutto il mondo. Il fascino dei ragazzi con la bomboletta? “C’è dentro l’amore per l’indipendenza, la libertà di demolire, almeno intenzionalmente, ciò che non ti sta bene, la possibilità di scegliere il colore della tua protesta e il momento in cui farla”. Ma i responsabili della crisi globale e del disorientamento di civiltà di questi ultimi anni? Pérez Reverte mostra di avere le idee chiare: “Non mi va di dare la colpa, come si fa tutti i giorni da anni, ai politici e ai banchieri. Ci siamo dimenticati che siamo noi stessi i responsabili, almeno quanto loro del disastro. Anzi, siamo stati noi a crearne le cause. Nessuno ci obbligava a incollarci mutui proibitivi, a compraci due automobili, a fare debiti per andare in vacanza, per disporre di una seconda casa o comprare la moto ai figli. Il gioco sporco ce lo hanno proposto politici e banchieri ma noi lo abbiamo accettato. Per questo mi ha intrigato l’universo clandestino dei grafiteros: sono gente a cui basta dipingere e scrivere. ‘Scrivo, dunque sono’ è il loro motto…”.

Ultima segnalazione, sempre dal Messaggero, per la consueta rubrica domenicale “Che ci faccio io qui?” dello sceneggiatore e scrittore Enrico Vanzina, dove alla fine si legge: “In questi giorni sono stato colpito da una serie a raffica di sciagure. Roba da dover scegliere tra Lourdes e l’Esorcista. Ma non voglio assillarvi con i miei guai personali. Vi dico solo che, alla fine, ho pensato a cosette serie, cose che possono riguardare anche voi. Ho pensato che avere una moglie che ti ama è la cosa più bella del mondo. Ho pensato che volersi bene tra fratelli è una cosa altrettanto bella. Ho pensato che non bisogna mai dimenticare i parenti anziani. Ho pensato che quando subisci un torto bisogna saper perdonare la cattiveria degli altri. Loro continueranno a dormire male, noi no…”. Buona domenica a tutti.

lunedì 10 novembre 2014

Anarchici e cristiani? L'ossimoro possibile per essere liberi dal potere



Alessandro Pertosa

L’ultimo libro di Lucilio Santoni, Cristiani e anarchici. Viaggio millenario nella Storia tradita verso un futuro possibile (Infinito, Modena 2014), è un topos commovente, ma è anche un topos che non si può abitare del tutto, perché appare e scompare fra le righe del testo, è sempre un passo più in là rispetto al lettore, è sempre oltre la possibilità umana di coglierlo, di farlo proprio: è un topos spirituale, non certo uno spazio fisico tangibile: affollato di esperienze, di sussurri e di parole che «contendono al silenzio il coraggio di dire la miseria di stare al mondo. L’inquietudine dello spirito che ci fa vedere cosa ci rimane quando ormai non ci rimane più nulla».
E non deve rimanerci più nulla, perché il «qualcosa» che ci resta fra le mani è un «qualcosa» per il mondo, è un qualcosa di cui si pretende avere il possesso. La proprietà, appunto, è il vero male radicale, l’idea che di qualcosa si possa dire «è mio», mentre in questo viaggio millenario nella storia tradita si incontrano esperienze di coloro che sono rimasti indietro, gli ultimi, i miti di cuore, i poveri per lo spirito, gli emarginati: coloro che non hanno nulla perché non vogliono avere nulla. Si tratta di cristiani e di anarchici che orientano i sogni quotidiani in un altrove. Perché il Regno per cui si resiste non è di questo mondo. Il Regno di questo mondo è retto da un árchon, da un capo, che il Vangelo di Giovanni identifica con Satana. Il cristianesimo è dunque anarchico – come ricorda giustamente Davide Rondoni nell’introduzione – perché ha patroni in cielo e non padroni in terra.
Le pagine del libro sono illuminate da volti di persone che hanno coltivato testardamente nella propria vita la virtù della disobbedienza alla razionalità dominante. «Ho osservato a lungo lo sguardo di chi ha avuto nel cuore la rivoluzione dell’utopia e della speranza», scrive l’autore. E aggiunge: «Gli uomini che mi stanno a cuore smontano ogni giorno la fretta del vivere; danno ampio spazio al respirare; sentono il dolore degli altri».
Santoni sa scavare nell’intimità, sa toccare le corde profonde dell’animo umano, presentando storie straordinarie. Il suo è un interesse per l’uomo a tutto tondo, per le debolezze, le gioie, le ansie e le trepidazioni dei puri di cuore. E in questo rimanda a Tarkovskij che scrive: «Mi interessano le vite delle persone che vivono con un logica diversa da quella comune, che lo facciano per fede, per follia o per i più diversi ideali possibili non mi importa». La chiave che consente di aprire le segrete del libro è allora qui messa in mostra: sovvertire la logica dominante, oltrepassare il comune sentire, essere folli, ma liberi.
Si tratta di quella follia e libertà che accomuna i cristiani e gli anarchici condannati alla damnatio memoriae, a causa della loro fiducia incondizionata nell’uomo. Chi non si aspetta molto dai propri simili invoca lo Stato, la legge, la norma, la tradizione, le Chiese trionfanti, i magisteri. Chi, al contrario, cerca disperatamente di dare un senso alla tragedia che chiamiamo vita, si consegna all’Altro, gli si dona, e si immerge nel pelago intenso dell’essere che tutto avvolge e vivifica. I cristiani e gli anarchici, è questa l’idea di Santoni, dedicano la loro intera vita al più straordinario capolavoro della natura: l’essere umano. Operano nel medesimo contesto, e sognano lo stesso sogno. Ha quindi ragione Maurizio Pallante quando scrive che «i teorici dell’anarchia si sono proposti di tradurre in prassi politica i principi etici formulati da Gesù».
Mi pare sia proprio questo l’insegnamento principale che si può trarre da questo splendido libro di Lucilio Santoni. Che in verità è una perla poliedrica, smagliante! Una perla da osservare in continuazione e ripetutamente, perché ogni volta riflette una nuova luce, una luce scintillante che arriva da chissà dove.




domenica 9 novembre 2014

Col pretesto di "Vittoria", dibattito a Napoli sugli anni Settanta ed è subito caos (ma salutare...)




Considero la presentazione del romanzo Vittoria a Napoli (per la quale ringrazio Francesco Bellofatto)  un po' una conclusione della serie di incontri e discussioni suscitati dal mio libro, molto interessante per l'eterogeneità del pubblico (una signora è anche andata via in segno di dissenso). Il confronto con Ugo Maria Tassinari è stato per me importante perché ha fatto "deragliare" dal tema per andare al nocciolo di una questione che non si affronta volentieri: quanto sanno i "camerati" delle esperienze dei loro coetanei sull'altra parte della barricata e viceversa. Ora, Tassinari è uno che sa. E' un interlocutore sui generis (di certi fatti, personaggi, ambienti lui sa anche molto più di me), ma non è rappresentativo di un mondo, così come non lo sono io (infatti lui stesso ha detto, a un certo punto, che sono isolata, ed è vero, e ne sono anche abbastanza fiera, così come lo è lui per il fatto che i compagni lo accusano di avere legittimato i "fasci"). E i punti sono stati questi, anche se il romanzo li evita accuratamente perché, se non sei in grado di dare una risposta, è inutile lanciare interrogativi al vento. 
Il primo è che oltre la visione esistenziale degli anni Settanta (le emozioni, il dolore, l'attivismo, le persecuzioni, la violenza, il manicheismo nelle scuole ecc. ecc.) c'è un livello non detto, non conosciuto, che comprende anche la conflittualità tra fascisti e antifascisti ma non solo, comprende le stragi, comprende Gladio, comprende i Servizi e le ingerenze di altri paesi nella politica italiana. Nessuna pacificazione sarà mai possibile se alle generazioni future non sarà consegnata una narrazione convincente su tutto questo (e qui apro una parentesi: se la destra si accontenta di parlare di quel decennio di lutti solo attraverso la mistica dei caduti commette un errore enorme). In questo le revisioni e le autocritiche sono necessarie. A sinistra ci sono stati casi individuali di autocritica sull'atteggiamento tenuto in quegli anni ma è mancata una presa di distanza consapevole dall'idea che i fascisti si potessero ammazzare impunemente come nemici del popolo, come persone "infette" e pericolose per il paese. Questo non c'è stato perché l'antifascismo è ancora un tabù di comodo, così come dall'altra parte si agita la bandierina del Duce a scopi politici impedendo la necessaria storicizzazione del periodo e il suo superamento. 
Il secondo punto è la cattiva coscienza della sinistra, il fatto che tanti ex militanti di allora pensano in fondo in fondo che il disprezzo e l'ostilità verso i neofascisti erano giustificati e non si domandano chi fossero i veri giostrai che mandavano avanti un girotondo tragico. Tassinari ha detto che le morti di quel periodo erano in fondo un doloroso "dettaglio" rispetto ai milioni di morti che le ideologie del Novecento hanno provocato e che avevano un loro "perché" più dignitoso rispetto alle morti provocate ad esempio dal tifo da stadio. E' una visione dialettica dei fatti storici che non mi appartiene: ogni morte violenta è una ferita che strappa un'energia vitale al suo contesto naturale. E' un evento cui guardare con un senso di sgomento, avvertendo che c'è stata una perdita, un'assenza. Che nulla è necessitato storicamente su quel piano inclinato e che la soppressione di una vita implica responsabilità personali, che il contesto può agevolare ma mai sostituire. Per questo detesto la retorica sugli anni Settanta e mi auguro che nessuna operazione "identitaria" conduca a letture distorte di quegli anni. Poi, la pacificazione - nella quale non credo - può avvenire come ho detto anche durante il dibattito a Napoli, solo se non sarà più importante dare a uno del "comunista" e a un altro del "fascista" e quando a queste parole sarà dato un significato che ha lo stesso valore "neutro" per l'intera comunità dei "parlanti". Se non si pacifica il linguaggio, in altri termini, non ci sarà alcuna memoria condivisa.
Infine, dopo tanti incontri fatti sul tema col pretesto del mio libro, non si è venuti a capo di nulla: la rappresentazione di quel periodo è del tutto irrisolta e "aperta". Io ho voluto solo dare qualche pennellata, con un punto di vista molto individuale e con un lessico "pacificato". Il mio piccolissimo, insignificante contributo all'elaborazione del lutto di una generazione (sono parole importanti, ma l'ha detto Tassinari, io non avrei mai dato di una cosa scritta da me una definizione così seria). Elaborare però fa bene, è la "fissità" della visione che fa male. Perché si perdono troppi particolari. Troppe sfumature. 
a.t.

domenica 26 ottobre 2014

Cancogni e Leone cattolici, Zizek fascista di sinistra



Luciano Lanna

Come altre volte, segnale alcune interviste apparse oggi sui giornali, anche perché le ritengo la cosa più interessante da leggere, soprattutto di domenica. Cominciando dalla bella conversazione di Antonio Gnoli con lo scrittore novantottenne Manlio Cancogni  su la Repubblica. Dove si scopre che, dopo una giovinezza laica e atea, Cancogni oggi si riconosce come credente: “La fede non si rivendica, si testimonia semmai. Sono cresciuto in una famiglia cattolica. Non ho avuto un rapporto facile con la religione. Mia madre se ne serviva per terrorizzarmi. Ogni volta che andavo a confessarmi era una sofferenza enorme. A vent’anni ero un ateo convinto. Poi a poco a poco mi sono riavvicina al cattolicesimo….”. La svolta è datata 1993: “Il rapporto con la fede si è rafforzato con la scomparsa di mia figlia. Ho reagito cercando un senso al dolore”. E quindi la conclusione: “Ma cosa vuol dire laico? È solo un’etichetta. Sono convinto che senza un apporto dell’aldilà non andiamo da nessuna parte”. Non manca, in altra parte dell’intervista, un’analisi del fascismo. I fascisti vengono descritti da Cancogni come “arroganti, violenti, illiberali, retorici”. E il regime con la dittatura produsse, aggiunge lo scrittore, “un diritto che faceva schifo e delle leggi omicide”. L’unica nota positiva, in controtendenza rispetto alla interpretazione canonica e crociana, è sul versante culturale: “La cultura è la cosa migliore che il fascismo abbia prodotto. Sono state realizzate cose che sono sopravvissute: architettura, arte, cinema, editoria, musica. Molto di quello che conosco – conclude Cancogni – e delle mie ambizioni letterarie è nato in quel periodo”.
Sempre su la Repubblica segnalo anche l’intervista postuma di Christopher Fryling a Sergio Leone (anticipazione dal libro C’era una volta in Italia. Il cinema di Sergio Leone, dal 29 ottobre in libreria per le Edizioni Cineteca Bologna). “Alle mie spalle – ammetteva Leone – c’è ovviamente tutta una cultura di cui non posso sbarazzarmi. E non posso neppure negarla. Per esempio, respiriamo quotidianamente il cattolicesimo, anche chi non crede. E ciò traspare in certi aspetti dei miei film. È nell’aria. Inoltre, quando faccio un western, ho delle cose da dire. Mentre preparavo Per un pugno di dollari, il mio primo western, mi sentivo come William Shakespeare che, ho scoperto, avrebbe potuto scrivere ottimi western... Così come sono convinto che il più grande scrittore di western sia stato Omero. Ha scritto storie favolose sulle vicende di singoli eroi come Achille, Aiace, Agamennone, tutti prototipi per i personaggi interpretati da Gary Cooper, Burt Lancaster, Jimmy Stewart e John Wayne…”.
Terza e ultima intervista da segnalare quella di Luca Mastrantonio al filosofo sloveno – hegeliano e lacaniano – Slavoj Zizek e che compare sull’ultimo numero de La lettura, il supplemento domenicale di cultura del Corriere della Sera. Nel suo studio, descrive il giornalista. campeggiano mini-busti di Marx e Lanin, eppure Zizek viene criticato per alcune sue uscite provocatorie e per il suo modo di vestire, gira ad esempio con una maglietta nera di Melville press: “Dicono che è da fascista! Io rispondo con un motto di Mussolini: ‘Cari amici soldati, i tempi della pace sono passati!’…”. Lui è un avversario dichiarato del neoliberismo trionfante e sogna “un super-Stato contro le derive di finanza e biogenetica”. Eppure, qualcosa non gli torna: “Sono uno di sinistra e bla bla… Ma ho avuto problemi con i sindacati che sono nelle mani dei lavoratori, come gli statali, che difendono i propri privilegi e non i diritti dei poveri: giovani, precari, disoccupati. E se li tocchi dicono che sei un neoliberale”. I suoi prossimi lavori? “Mi piacerebbe fare un libro su personaggi da rivalutare, come Cesare Borgia o Galeazzo Ciano: l’Albania fascista con lui visse un’età d’oro…”. Non è un caso che a molti Zizek risulta un po’ urticante. Lui ammette: “Mi odiano, mi danno del fascista di sinistra, dello stalinista, mi accusano di plagi: accetto però il rischio di essere frainteso…”.


venerdì 24 ottobre 2014

Il libro di Griner sulle "anime nere": chi erano gli stupratori del Circeo



Di seguito ampi stralci del capitolo "I fatti del Circeo" dall'ultimo libro di Massimiliano Griner "Anime nere. Personaggi, storie e misteri dell'eversione di destra" (Sperling & Kupfer)

"Una delle foto simbolo della violenza degli anni Settanta l'ha scattata il fotografo del Tempo Antonio Monteforte. La sera del primo ottobre 1975 la sua radio era sintonizzata, come al solito, sulle frequenze della polizia. Aveva captato una richiesta di intervento per uno strano 'miagolio' che proveniva dal bagagliaio di una Fiat 127 parcheggiata in via Pola, nel signorile quartiere del Salario. L'obiettivo del fotografo inquadra il bagagliaio aperto e una ragazza viva, pesta e stravolta, che viene aiutata a uscire dalla polizia. Si chiama Donatella e ha solo 17 anni. Nel bagagliaio c'è anche il corpo della sua amica Rosaria Lopez, diciannove anni, avvolto dal cellophane. Sono sufficienti poche ore per chiarire che cosa si nasconde dietro quell'immagine orribile. Il pomeriggio del 29 settembre le ragazze sono state attirate con il pretesto di una festa in una villa di San Felice Circeo dal ventenne Angelo Izzo e dal suo coetaneo Gianni Guido. Per due giorni i due, sotto l'effetto di cocaina e anfetamina, le hanno denudate, segregate, minacciate con una pistola, costrette ripetutamente a compiere sesso orale e a inscenare un rapporto lesbico. La situazione è precipitata con l'arrivo di un amico dei due carnefici, Andrea Ghira, che ha violentato Rosaria per via vaginale e anale. Tutti poi hanno concorso a toglierle la vita immergendole la testa nella vasca da bagno piena d'acqua. Donatella si è salvata solo perché gli assassini, dopo averle fatto un'iniezione di sedativo, averla percossa con un bastone e soffocata con un cuscino, la credevano morta. Rintracciare Guido, al cui padre è intestata la Fiat 127, e fermare Izzo, è solo questione di ore. La polizia invece non riuscirà mai ad arrestare il più scaltro Ghira, che gode di un'efficace rete di protezione e sparirà nel nulla.
(...)
Lo stupro è ancora considerato un delitto contro la morale, e in molti casi a finire sul banco degli imputati è la donna. Perché se è stata violentata forse è di cattivi costumi, indossava abiti succinti o aveva scatenato il desiderio del maschio, Per il movimento femminista il Circeo rappresenta così un'ottima occasione per denunciare le storture, l'arretratezza e il maschilismo dell'intera società italiana degli anni Settanta dove la condizione della donna rimane quella tipica di un paese premoderno. La presenza in corteo delle donne femministe anima il processo che si tiene a Latina. Le femministe fanno di Donatella un simbolo (...)



Il padre di Izzo, Rocco, è un professionista affermato. La madre di Ghira è una triestina di origini nobili; il padre, Aldo, è un ex atleta olimpionico di nuoto, animatore della squadra Settebello alle Olimpiadi di Londra del 1948, e possiede un'impresa edile. Il padre di Guido è un importante funzionario di banca. Tutti poi li conoscono come fascisti...Izzo era già finito sotto processo, insieme con altri due amici, per aver sequestrato due minorenni, in questo caso di buona famiglia, e averle costrette a un rapporto orale. Era stato condannato a due anni per violenza carnale, ma la pena era stata sospesa con la condizionale. Anche perché Izzo era stato in cura da uno psichiatra, che aveva riscontrato un'alterazione della personalità provocata da un iposviluppo anatomico, da una fimosi operata solo tardivamente, a sedici anni. Ghira invece era stato condannato per rapina a tre anni, ma era uscito dopo soli 18 mesi. La giustizia era stata particolarmente clemente nei loro confronti anche perché i loro famigliari avevano messo mano al portafoglio e risarcito le vittime.



Per l'Europeo sono semplicemente di razza fascista... Antonio Caprarica, che in quel tempo scrive per l'Unità, li definisce "i discendenti dei dignitari del regime mussoliniano". Sulle colonne del Corriere Lietta Tornabuoni parla di "ragazzi della Roma-male, figli di ricchi professionisti, facce carine, pullover alla moda, belle automobili, belle case, belle estati e dietro tutto il nero brulicare che può fare d'un ragazzo un assassino... gli ultimi eredi della colce vita sono neri, e ammazzano"!. Italo Calvino non ha dubbi. Quelli del Circeo sono picchiatori fascisti e quello che hanno commesso è intimamente legato alla loro idoelogia politica. Ancora una volta l'unica voce dissonante dal coro è quella di Pier Paolo Pasolini: 'I poveri delle borgate romane possono fare e fanno effettivamente le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli...'.
(...)
Ogni qualvolta Izzo entra in un nuovo carcere, così come farà Guido, si qualifica come detenuto di destra. Fin dalla terza media ha frequentato la sezione del Msi di via Tolmino e la Giovane Italia, e ha un nonno che è stato un acceso fascista ancora prima della marcia su Roma. Ma se riesce a convincere i carcerati per reati comuni non sempre ha successo con i 'politici'. Valerio Fioravanti e Franco Freda, per esempio, lo guardano con fastidio. Per loro non è un fascista ma solo uno stupratore. Questo però non gli impedisce di coltivare rapporti con personaggi noti dell'ambiente, da Ermanno Buzzi a Mario Tuti, da Pierluigi Concutelli e Edgardo Bonazzi. Contatti che gli consentiranno di raccogliere informazioni che poi, a partire dalla metà degli anni Ottanta, quando si trasforma in collaboratore di giustizia, gli risultano estremamente utili.

(Izzo ottiene la libertà anticipata nel 2005 e uccide una donna e sua figlia di soli 14 anni. Gianni Guido fu condannato in primo grado all'ergastolo, poi a 30 anni in appello. Nel 1981 evade e scappa in Argentina. Nel 1994 viene intercettato a Panama e scattano le procedure per l'estradizione. Andrea Ghira, da subito latitante, si arruola nel Tercio spagnolo e muore di overdose nel 1994)

Queste le parole di Donatella Colasanti sui suoi aguzzini: "Sono ragazzi malati che andavano curati. Né estremisti di destra né pariolini. Solo malati bisognosi di cure". (intervista a La Stampa del 3 settembre 1993)

martedì 7 ottobre 2014

"Confini e conflitti" di Marco Valle: il filo perduto dell'identità italiana





Dall'introduzione al libro di Marco Valle "Confini e conflitti. Uomini imperi e sovranità nazionale"(Eclettica)

La memoria di un popolo è il risultato di innumerevoli, minuscole memorie, di una miriade infinita di carte, appunti, documenti, racconti. Un patrimonio immenso di conoscenze, esperienze, sentimenti che, attraverso il passato, si trasmettono da padre in figlio, da generazione a generazione. L'identità di un popolo è un sottile filo d'Arianna snodato tra le porte del tempo, un giacimento spirituale che dà sostanza, forza ai nomi illustri, alle ricorrenze ufficiali. Alla retorica dei vivi, al ricordo dei morti.
La storia di un popolo è un colorato mosaico formato da tante piccolissime tessere, tutte da leggere e interpretare. Per ritrovare un senso. Un destino.
Purtroppo in questo presente superficiale, liquido, comprendere il passato diventa sempre più questione complessa, complicata e la memoria rischia - come nell'Egitto post Tolemaico - di sembrare un incomprensibile geroglifico e l'identità somiglia ormai a una vuota piramide. Immagini pittoresche e inoffensive. 
Per ritrovare il mitico filo e tentare di capire l'Italia - una realtà complessa e incompleta, sorta tra mille incertezze e sviluppatasi in modo strampalato e confuso - non basta l'incandescenza delle passioni, non servono ragionamenti algidi o visioni moralistiche e, tantomeno, ubbie nostalgiche. Per comprendere i crinali di crisi della contemporaneità è urgente scardinare gabbie ideologiche, abbandonare vecchie abitudini e indagare le contraddizioni, ricostruire i contesti, sforzandosi di ritrovare le motivazioni che mossero i protagonisti del nostro ieri. Come ci insegna il grande Marc Bloch non è più tempo d'antiquari rassicuranti ma è ora di "analizzare il passato in funzione del presente e il presente in funzione del passato". Da qui questo libro. Un tentativo di esplorare, attraverso una somma di ipotesi di lavoro aperte e volutamente frammentarie, alcuni passaggi... L'Italia come una tavolozza confusa in cui i colori fiochi del conformismo si alternano ai bagliori d'intelligenza e coraggio dei soliti pochi, un'equazione impossibile in cui l'ignavia dei più si oppone pervicacemente all'orgoglio lungimirante delle minoranze. Ecco, quindi, Luigi Rizzo e Mattei, Missoni e Broglio, Brazzà, Verdi e Cavour. 

L'indagine sul Novecento del libro di Marco Valle esamina anche il "miraggio cattivo" del comunismo e la sua influenza nello scacchiere geopolitico e infine la decolonizzazione in Asia e in Africa dalla quale non si può prescindere per capire la catastrofe umanitaria che oggi oscura il Mediterraneo. 

Occhio all'etichetta/3 Acquistare l'olio



Prosegue il nostro viaggio tra le etichette degli alimenti sulla base della guida di Pierpaolo Corradini "Quello che le etichette non dicono" (edizioni Emi). Dopo uova e latte ci occupiamo dell'olio. 
Com'è noto l'olio extravergine di oliva è solo quello "ottenuto dal frutto dell'olivo mediante processi meccanici o altri processi fisici in condizioni che non alterano l'olio stesso", quello vergine è identico al primo ma di qualità inferiore, mentre la dicitura "olio d'oliva" si riferisce a miscele di olio d'oliva, anche raffinato, e altri oli vegetali in proporzioni variabili.

"Prima spremitura a freddo" significa che le olive sono state spremute meccanicamente a meno di 27 gradi mentre gli "oli estratti a freddo" sono quelli in cui la temperatura è la stessa ma l'estrazione avviene tramite un procedimento di percolazione e centrifugazione della pasta di olive. 
Dal 2009 l'etichetta deve riportare lo Stato o gli Stati in cui le olive sono state raccolte e deve avvertire se l'olio e comunitario o no (l'Europa produce circa l'80 per cento dell'olio di oliva mondiale, e la sola Italia il 40% della produzione europea). Gli altri oli (mais, arachide e girasole) vengono tutti raffinati prima di essere messi in circolazione per la vendita. La raffinazione consiste in una serie di processi utili come la deacidificazione, ma anche superflui, come la decolorazione. Alternativi all'olio di oliva sono l'olio di riso, l'olio di semi di sesamo e l'olio di semi di lino, ricco di Omega 3. 

lunedì 6 ottobre 2014

Perché il contrario dell’amore non è l’odio, ma il potere





Lucilio Santoni

Prendo spunto da una lezione che recentemente Emilio Gentile ha tenuto al Festival del Diritto di Piacenza. Gentile ha trattato con intelligenza e precisione, da par suo, la modalità con la quale il capo gestisce le masse, facendo particolare riferimento alla celebre opera di Gustave Le Bon Psicologia delle folle. Volendo sintetizzare, potremmo dire che la massa segue le opinioni e non certo il pensiero, il quale è troppo difficile e faticoso da coltivare. Allo stesso tempo ha bisogno di un capo, proprio perché le è confacente comportarsi come un gregge. Pertanto, ad esempio nel linguaggio, il capo deve adottare uno stile semplice, chiaro, aforistico e al contempo perentorio, assertivo e ripetitivo. In definitiva, il capo deve guidare la folla dei suoi sottomessi che lo osannano proprio seguendo le loro opinioni, le quali ondeggiano continuamente in modo irrazionale. E proprio in quest'ultimo dato risiede la difficoltà dell'impresa di conquistare e mantenere il potere, impresa non alla portata di tutti, bensì solo di chi ha quella particolare qualità di cogliere tale continuo ondeggiare e legarlo al proprio prestigio personale. A quel libro, datato 1895, novello Principe di machiavelliana memoria, si sono direttamente ispirati Mussolini, Hitler, Lenin, Roosevelt, Da Gaulle, Ataturk e molti altri, evidentemente fino ai giorni nostri, che non nominiamo ma che nessuno farà fatica a riconoscere.
Io vorrei qui, invece, ragionare su coloro che si sottraggono alla logica del potere, sul perché lo fanno e, soprattutto, scoprire se ne traggano “vantaggi” concreti. Per cominciare, mi avvarrò di un semplice schema costituito da una figura geometrica: il triangolo. La base sarà costituita dagli ondeggiamenti, sopra nominati, della massa. Tali ondeggiamenti sono causati da un’infinita serie di paure, angosce, sensazioni, fugaci pensieri, suggestioni, ma anche cose materiali, quali sono i fenomeni della natura o le più recenti invenzioni della tecnica che permettono, apparentemente, di dominare il mondo. Voglio dire che, come infiniti sono i punti che costituiscono la base del triangolo, infinite sono la cause e le ragioni del continuo ondeggiare della massa. Ma, come nel triangolo, salendo verso l'alto, i lati si congiungono in un solo punto, il vertice, così nel nostro caso riguardante il capo e le folle, i molteplici dati di partenza convergono in un unico punto: la vendita del prodotto, cioè la presa del potere. Se questa non si verifica, tutta la costruzione si rivelerà priva di senso. La pubblicità più bella e costosa, se non porta a far decollare le vendite, sarà un disastro su tutti i fronti. Se un aspirante tiranno, seguendo fedelmente l’analisi di Le Bon, non arriverà a conquistare il potere, avrà per sempre le stigmate del fallito.
Si potrà dire che così è la vita. Che è sempre stato così: un gioco di potere. A tutti i livelli, dall’ambito della famiglia, al gruppo, alla nazione, al mondo intero. Che non ci si può sottrarre, a meno che non si voglia scioccamente essere rinunciatari e perdenti. Che vale la pena provarci, salire sul ring e combattere.
Invece, io vorrei ragionare su un altro aspetto della vicenda umana. Vorrei, per esempio, iniziare dicendo che se quella molteplicità, la base del triangolo, viene fatta convergere verso un punto, unico e imprescindibile, allora quella molteplicità verrà necessariamente sacrificata a quell'obiettivo. Ogni sentimento, ogni relazione, ogni poesia, ogni amore, ogni sensibilità, ogni intelligenza verrà sacrificata all'altare del potere e della vendita (i quali termini sono qui intercambiabili). Tali prerogative della natura umana saranno cancellate e non avranno alcuna possibilità di fiorire se costantemente soffocate dalla venerazione di quell’unico dio. Già lo diceva con parole infuocate di poeta Charles Baudelaire quando parlava dei commercianti come di coloro dei quali non ci si può fidare perché ogni momento della propria vita, anche il più intimo, tentano di trasformarlo in denaro e hanno la testa solo lì e da nessun’altra parte.
Il poeta, in effetti, è il contrario del commerciante. È colui che rovescia il triangolo: parte da un punto, parte da quell'unica cosa che dicono (che tentano di dire) tutti i poeti di ogni luogo e di ogni tempo, per arrivare alla massima apertura di senso, per arrivare all'infinito. Pensiamo solo alla differenza abissale che esiste tra la povertà del linguaggio asfittico usato dal capo e dalle folle, descritto da Le Bon, e la ricchezza della poesia. La prima un inferno di stupidità e deprimenti luoghi comuni; la seconda una macedonia di frutti freschi, talvolta aspri e talvolta dolci, ma sempre portatori di eros.
Ma lasciamo un attimo la poesia e torniamo al sistema della vendita e del potere. Se tale sistema è così indiscusso e, molti dicono, connaturato all’uomo, io mi sono sempre chiesto da dove derivi la volontà, che alcuni uomini evidenziano, di sottrarvisi.
Io, personalmente, prendo il mio nome da Lucilio Vanini, un frate carmelitano che aveva grandi doti di intelligenza e di seduzione delle masse. Avrebbe potuto facilmente scalare la gerarchie ecclesiastiche e acquistare un potere enorme. Non lo fece. Si mise contro la Chiesa, scegliendo di coltivare la scienza e la filosofia. Andò in esilio in Inghilterra e Francia. A trentaquattro anni l’inquisizione lo inchiodò con l'accusa di ateismo e lo condannò al rogo. Allora, mi chiedo, se il sistema di potere è connaturato agli uomini, perché Lucilio Vanini fece la scelta opposta? Perché preferì morire pur di seguire la ricerca, sdegnando il potere? Domande che mi hanno accompagnato tutta la vita e alle quali cerco continuamente di dare una risposta. E mi appassiono, e fatico, e dedico amore, e spreco il mio tempo, che non vale denaro alcuno naturalmente, nel dare una risposta possibile.
Utilizzo ora un’immagine fornitami dall'amico e filosofo Alessandro Pertosa. Egli si chiede: se io rifiuto il potere, in tutte le sue forme, mi sfoglio come un carciofo, o come una cipolla se si preferisce, togliendomi via via le strutture, le protesi e gli strumenti che mi consentono di esercitare il potere, anche quello minimo e impercettibile nei confronti di chi mi sta vicino o semplicemente nei confronti di coloro con i quali vengo in contatto, se insisto in tale opera di spoliazione di me stesso, alla fine, cosa rimane? E, soprattutto, rimane qualcosa?
Mi sembrano queste domande fondamentali. La domande che gli anarchici e i libertari di sempre, per esempio, hanno incarnato nella maniera più evidente. Non volendo esercitare potere alcuno, hanno sempre avuto il problema di persuadere gli altri ad abbracciare il proprio ideale di libertà. Ma anche la regola delle suore carmelitane dice: “Le sorelle non devono parlare troppo e, in ogni caso, non tanto da generare ammirazione nelle altre”. Anarchia e cristianesimo si incrociano in questo punto.
La questione è tutta lì, nel carciofo. Forse, davvero, a sfogliare e sfogliare, non rimane nulla. Forse nell’uomo non esiste un nucleo che si possa sottrarre completamente al potere. E allora, questa ammissione vuol dire abbracciare definitivamente la logica del potere? Vuol dire ignorare i tanti Lucilio Vanini che vi si sono opposti nel corso della Storia? Io credo di no. E mi associo a Jean-Jacques Rousseau quando dice: “È molto difficile far obbedire chi non ama comandare”. Voglio dire che qui entra in gioco un elemento basilare nella vita dell'uomo: l’utopia.
La vita dell’uomo, quella vissuta con dignità e passione, non può prescindere da un oltre, un altrove, un mondo da riscattare, un paradiso, terrestre o celeste poco importa, fatto di libertà, di amore e di verità, nel quale vivere bene insieme agli altri. La sua realizzazione non è prossima, certo, forse non è neppure possibile, ma l’anelito verso di essa è scintilla primaria nell'animo umano. Il capo e la massa che lo osanna possono anche vivere senza tale utopia che, per usare un termine soprattutto cristiano, possiamo definire della speranza, ma lo faranno sacrificando ogni poesia, ogni amore, ogni contatto sacro con le cose e ogni dolce ozio creativo. Coloro che, invece, vivono nella propria carne quell’utopia saranno perenni ricercatori, avranno la gioia e il dolore di camminare insieme ad altri, non saranno vincitori ma neppure vinti, saranno se stessi, potranno addirittura arrivare ad assaporare quell'ineffabile sentimento che è l’amore. “Il contrario dell’amore non è l’odio ma il potere”, dice Jacques Lacan.