venerdì 28 febbraio 2014

Modello Agnese






Annalisa Terranova

A me Agnese sta simpatica. Voglio dire lei, la moglie di Matteo Renzi, che sceglie di stare a Firenze con i figli invece di seguire il marito a Roma. In questi giorni di inattività di un governo appena insediato sono le "donne" del premier ad attirare l'attenzione di media pigri e conformisti. Tutti convinti che Dagospia sia il massimo che l'informazione può elargire. O forse è un triste lascito dell'uomo delle "cene eleganti". Lui che mandava bigliettini alle sue deputate sgargianti mentre Matteo, poveraccio, manda pizzini ai grillini (che lo sputtanano sul web). Dunque per ora ci si lascia andare a cadute di stile su Maria Elena Boschi e il suo tailleur blu savoia al giuramento, o peggio si fa una colpa a Marianna Madia del suo essere incinta. L'eterno maschilismo italiano (che del pari si esercitò sulle ministre di Berlusconi). E la povera Agnese, che se ne sta lontana da Roma, viene tirata per la gonna, per la giacca, per i capelli, perché deve stare qua, al centro della scena, a offrirsi in pasto ai giornalisti twittaroli, ai blogger, agli esperti degli spifferi di palazzo. Deve fare come le regine di Francia che assistevano pallide e altere allo sculettamento delle possibili favorite. La first lady, perbacco, deve fare la first lady. Un invito che non tiene conto di un fatto che non sfugge anche ai più disattenti: l'Italia non è una repubblica presidenziale e poi il "modello Veronica" non fu così diverso dal modello Agnese. Un venticello sottile e perfido investe Agnese. E tutti fanno spallucce perché in fondo è questo il prezzo della notorietà. E chi dice che Agnese somiglia a Luxuria. E chi scrive su Twitter (la forzista Licia Ronzulli): vieni a Roma carina, perché gli spazi vuoti vengono sempre occupati. Agnese inesperta, Agnese inadeguata, Agnese che se ne sta in disparte, Agnese che pensa ai ragazzini, Agnese che insegna Lettere. Mi sta simpatica Agnese. Mi sta simpaticissima. A lei tutta la mia solidarietà. 

giovedì 27 febbraio 2014

Il libro di Amorese sul Fronte della Gioventù: l'esempio Milano e ciò che è venuto dopo



Annalisa Terranova

Consigliabile lettura la storia del Fdg scritta da Alessandro Amorese (Fronte della Gioventù, la destra che sognava la rivoluzione: la storia mai raccontata, Eclettica) perché mette a fuoco, lungo il decennio degli anni Ottanta,  un metodo fondato sull'inclusione e non sulle affermazioni sovrane e sulle negazioni assolute nell'approccio con il mondo giovanile e studentesco. Qualche volta la forma è anche sostanza, qualche volta dalla sostanza viene fuori uno stile differente. Quanto il mondo giovanile abbia perso in creatività e capacità di mobilitazione ripudiando quel metodo (e quella sostanza) per rifugiarsi nel recinto della destra identitaria o peggio per abbracciare gli slogan del berlusconismo è riflessione tutta ancora da abbozzare. Intanto riproponiamo un brano dal libro di Amorese sul Fdg milanese le cui esperienze vengono ricordate da Marco Valle e Paola Frassinetti: 

"Una delle nostre vittorie fu riuscire a portare alle nostre manifestazioni studenti normali, non impegnati ma che erano in qualche modo attratti dal nostro modo di fare politica", sostiene Paola Frassinetti. Nella metà degli anni '80 chi frequenta la zona giovanile di via Mancini trova di tutto, c'è spazio per ogni tipo di look, nel periodo delle variegate sottoculture non era raro trovare dark, metallari o paninari, che trovavano in quella sede uno spazio per la propria creatività ma senza alcuna speranza di trovare droghe, chi veniva scoperto a consumare qualsiasi tipo di stupefacenti veniva allontanato. Via Mancini diventa tendenza, impossibile non accorgersene. Il settimanale Panorama dedica un articolo al Fdg milanese certificandone il successo: "... Paola, Marco. Dietro di loro tutta una realtà di giovanissimi che negli ultimi tempi si riconoscono idealmente nel Fronte della Gioventù. Con 700 iscritti a Milano, 200 a Monza, decine di simpatizzanti, un giornale, Fare Fronte, che diffonde 3 mila copie, due rubriche fisse a Radio University. I giovani fascisti si sono conquistati il secondo posto, dopo Comunione e Liberazione, come presenza organizzata nella terra desolata dei licei e degli istituti tecnici cittadini dove le tradizionali organizzazioni della sinistra sono praticamente scomparse. Un consenso che pone Milano all'avanguardia nella nuova strategia della destra giovanile". 

La strategia è seguita anche a Roma, diviene appunto "modello", diventa addirittura trainante per tutto un partito che ha perso i suoi leader più carismatici e galleggia tra la fine delle ideologie e l'imminente caduta del Muro. Il libro di Amorese documenta molto bene questo processo. Il decennio successivo vedrà la scomparsa del Fronte (1996) e la sua progressiva "normalizzazione". Erroneamente ho attribuito in passato questo processo alle guerre correntizie di Alleanza nazionale (e l'ho scritto nel libro Planando sopra boschi di braccia tese) e ho più volte detto che si sarebbe potuta arginare questa deriva impedendo ai leader del movimento giovanile l'ingresso alla Camera. Era un'analisi cui manca un pezzo importante: la cultura dell'aut aut che si impone negli anni Novanta, l'emersione di una destra di governo che non si preoccupa di supportare alcun riferimento culturale che non sia lo sciatto anticomunismo di maniera di moda ad Arcore, la convenienza elettorale e propagandistica di una strategia conflittuale tra bande giovanili rende possibile l'uccisione del movimento giovanile del fu Msi e l'emergere al suo posto di formazioni estremiste. Dall'altra parte si rivitalizzano le parole d'ordine di un'Autonomia che era collassata negli anni Ottanta e che ritrova concime nell'antagonismo dei centri sociali. Il risultato - a mio avviso desolante - è che la destra radicale funge oggi da polo d'attrazione e di formazione per i diciottenni che non si rassegnano a diventare renziani o grillini o che antropologicamente sono a disagio nel ruolo di berlusconi-boys. E lo spettacolo non è bello. 

mercoledì 26 febbraio 2014

George Saunders e la sua umanità grottesca nella raccolta "Pastoralia"



Annalisa Terranova

George Saunders si conferma narratore avvincente quanto lucido. Uno scrittore che riesce a cogliere l'aspetto grottesco e tragico dell'esistenza postmoderna. Che raffigura un'umanità deforme e deformata ma che al tempo stesso riesce a riscoprirsi umana. Lo dimostra la raccolta di racconti brevi appena uscita - Pastoralia, Minimum Fax - in cui Saunders, dopo il fortunato Dieci dicembre, individua situazioni in cui il protagonista è schiacciato da un meccanismo sociale opprimente e ridicolo al quale si adegua con un senso di alienazione profondo da cui da un momento all'altro può scaturire la scintilla della ribellione. Nella raccolta Pastoralia questa condizione si incarna nel povero padre di un figlio molto malato che per sopravvivere deve lavorare in un parco a tema dove la regola è vivere come un primitivo, in una caverna, mangiando carne di capra ed esprimendosi a gesti. Conta la veridicità di questa finzione. Non si può allentare la presa perché i superiori vigilano sulla "recita". E il licenziamento è sempre in agguato come si evince dalla circolare dei superiori: "A livello di licenziamenti di massa, rilassatevi, non sono in programma, sul serio, e poi, anche se fosse, vi dovrebbe venire da chiedervi: Sto Pensando Positivo/Parlando Positivo? Ce la sto mettendo tutta? Sto facendo il minimo errore? Ma non preoccupatevi. Chi di voi non ha bisogno di preoccuparsi non dovrebbe preoccuparsi neanche un po'. Quanto a chi dovrebbe preoccuparsi, ormai è un po' tardi per iniziare a preoccuparsi, avreste dovuto iniziare mesi fa...". Lo sfruttamento non è solo quello della forza-lavoro, giunge ad accalappiare l'interiorità che dovrebbe restare inviolabile. Nel racconto Quercia del mar uno spogliarellista mantiene la sorella e il nipotino. "Mamma mia che stress questo lavoro. Appena scendi nella Classifica dei Carini sei spacciato. Le Clienti ci classificano come Superfico, Dolciotto, Sciapo, Schiappa. Mica mi sto lamentando. Almeno io lavoro. Almeno non sono una schiappa come Lloyd. Sono un Dolciotto/Sciapo che se ne torna a casa con quaranta bigliettoni in tasca". Ma si può essere più viscidi e più trucidi e scalare la classifica, diventare Superfichi in questa macchina tragica di sopraffazione che rappresenta un'arida decadenza. 

Guccini e la nostalgia della cabina telefonica




Finché le cose sono a disposizione non ti accorgi di quanto potrebbero mancarti. Una sensazione che coglie il lettore che sfoglia il Nuovo dizionario delle cose perdute di Francesco Guccini (Mondadori) dal quale è tratto brano che riproduciamo:

Quando le cabine telefoniche apparvero, fui sommessamente felice. Eleganti, verniciate di rosso, piene di vetri, sembravano la copia delle loro sorelle viste in tanti film inglesi o americani. E noi niente? C'è una bella differenza tra l'entrare in un bar, chiedere uno o più gettoni, attaccarsi al telefono a muro e lì cercare di parlare tra il vocìo della gente - "un caffè con latte freddo, grazie"- o fiondarsi in una cabina, chiudere la porta e là, isolati dal mondo, chiamare chicchessia.
Lo ammetto, sono di una generazione che è stata pesantemente influenzata dal cinema. Chi di noi non ha fantasticato di entrare in una cabina telefonica, magari sotto un rovescio di pioggia incessante, ruscellante d'acqua, comporre il numero e sussurrare: "Baby, ti chiamo da una cabina perché il mio numero è controllato dalla polizia. Sono braccato, baby, è la fine, ma se quello che mi hai detto ieri notte ha un briciolo di verità. puoi raggiungermi nello chalet sul lago che sai. Se no, addio"... Oppure, arrivare trafelato alla cabina mentre un'anziana signora sta dilungandosi in un'interminabile telefonata, fare irruzione, scansarla con violenza gridando: "Mi spiace buona donna, ma è questione di vita o di morte" e beccare in tempo la telefonata del vile ricattatore che dice: "Bravo John, ci sei. Adesso vai in piazza Lafayette, c'è una fontana, vicino c'è un bidone per l'immondizia. Dentro troverai le nuove istruzioni. Hai dieci minuti di tempo". E così via con l'immaginazione. Anche se magari la conversazione media era poi sul tipo: "Ciao Gigi, sono Ciccio, vieni al cinema stasera?" o cose così.


martedì 25 febbraio 2014

Destra e sinistra rottamate da Renzi vent'anni dopo l'illusione di Bobbio che voleva resuscitare le etichette




Annalisa Terranova

Vent'anni fa Norberto Bobbio, nel suo pamphlet Destra e sinistra (Donzelli), cercava un'affannosa sistematizzazione di due categorie che - ammoniva - non dovevano essere superate. Un anniversario che va a cadere proprio nei giorni in cui il neopremier Matteo Renzi si cura così poco delle vecchie idee di destra e sinistra da rottamarle nel suo linguaggio. Un bene, un male? Un prodotto naturale della formazione televisiva di questo politico cresciuto tra Goldrake e quiz di Mike Bongiorno? Bobbio, nella sua trattazione, partiva da un nucleo tematico di fondo, dall'ambizione di rintracciare l'essenza di due parole che, in quanto pensate e rappresentate nel linguaggio, non possono essere solo pura convenzione.
La tesi dello studioso è nota: la sinistra ha come stella polare l'eguaglianza, la destra accetta la diseguaglianza come una realtà ineliminabile. C'era però nel discorso di Bobbio una tensione etica - che era un po' come ribadire dove stava il bene e dove stava il male - che suscitò nel 1994 un dibattito serrato e accesisissimo. Dissero la loro pensatori e politologi come Dino Cofrancesco, Marco Tarchi, Alain de Benoist e Giacomo Marramao. Quest'ultimo sottolineava che i conflitti non erano più rappresentabili da quella ottocentesca coppia di opposti e proponeva nuove dicotomie, come  - ad esempio - quella tra chi accetta la modernità e chi ne valuta i costi troppo alti. Contro la tesi di Bobbio si schierò il filosofo marxista Costanzo Preve, di recente scomparso, per il quale la "illusione bobbiana rappresenta, sul piano teorico almeno, l’ultima trincea filosofica per il mantenimento di una dicotomia che a mio avviso ha smesso di rappresentare in modo efficace la realtà presente. Nel contesto culturale italiano, si tratta del proseguimento dell’egemonia dell’azionismo, passato dal vecchio azionismo antifascista, al nuovo azionismo antiberlusconiano".
Anche Marco Tarchi polemizzò con Bobbio: destra e sinistra esistono, ma non spiegano tutto. Si tratta piuttosto - sulla scia di Giovanni Sartori - di "scatole vuote" che di volta in volta vanno riempite di contenuto. Dal 1994 in poi Berluconi ha messo nella scatola alcuni elementi, i suoi nemici e avversari ne hanno messi altri. Un'operazione funzionale all'antico gioco del conflitto che semplifica e non rende giustizia alle società complesse. Di taglio più storico l'obiezione di de Benoist: se si prende il fascismo si vede agevolmente che vi sono studiosi che ne collocano le radici a sinistra (Zeev Sternhell) e filosofi che rintracciano nel ripristino del principio di autorità (Julius Evola) la sua sostanza tematica di destra.
Marcello Veneziani scrisse in risposta a Bobbio un condensato della sua visione sulle usurate etichette (Sinistra e destra, Vallecchi 1995). Pagine nelle quali sottolineava il relativismo di definizioni "che non sopportano il peso della trascendenza". E optava, Veneziani, per nuove demarcazioni che si andavano definendo nelle democrazie occidentali: oligarchismo e populismo, comunitari e liberal, rivoluzione liberale e rivoluzione conservatrice. Un dibattito che, a vent'anni dal fortunato libro di Norberto Bobbio, ancora non si esaurisce. La non visibilità delle etichette che si manifesta nel renzismo, infatti, non mette il punto finale al capitolo destra-sinistra. Costituisce solo una scorciatoia, sotto la quale scorrono le inquietudini che già nel Novecento stentavano a trovare precisa collocazione.
(dal Secolo d'Italia, 25 febbraio 2014) 

lunedì 24 febbraio 2014

Altro che Sanremo, io mi sono goduto… la filosofia di Noodles



Lorenzo Randolfi

Sabato sera mentre su Rai1 Arisa vinceva l'ultima edizione di SanRemo, ho preferito guardarmi un vecchio film che andava in onda su un’altra rete: C’era una volta in America di Sergio Leone. Un film conosciutissimo e visto numerose volte, ma come resistere alla tentazione di rivedere, per l’ennesima volta, uno dei capolavori di Leone? Anzi il capolavoro: l'opera summa di tutta la sua produzione; non a caso il suo ultimo film , quello che racchiude il modo di sentire e di pensare di questo grande cineasta. Un film costatogli decenni di fatiche e ripensamenti, fino al 1984, anno di uscita. Proprio trenta anni fa. Sono quasi quattro ore di film, con attori come Robert De Niro, James Wood, Treat Williams, Joe Pesci e Elizabeth MacGovern, e musiche (inutile dirlo) di Ennio Morricone per raccontare l'epopea americana dei gangster e del proibizionismo. Certo se fosse tutto qui, se contasse solo la trama, sarebbe simile a tanti film sull'argomento; senza dubbio un ottimo film essendo di un grande artista come Sergio Leone. Cosa ha allora di speciale? Cosa lo eleva a opera cardine del cinema di questo autore? A mio avviso, il finale. Tante ore di film per arrivare, a notte fonda, a godersi pochi minuti di epilogo. Un epilogo che è il disvelamento non solo della trama ma di tutta la filosofia che dà sostanza alla produzione di Leone. Quasi che con quest'ultima opera avesse voluto lasciare il suo testamento ideologico, il suo Ecce Homo, per dirla con Friedrich Nietzsche, pensatore a lui caro. Intellettuale bello pesante, questo regista, lettore di libri altrettanto consistenti, dalla mitologia ai testi sacri orientali, da André Malraux a Louis-Ferdinand Céline. Molto più che il padre nobile dello spaghetti-western. Era un libertario, un anarchico, un individualista antiideologico, lontano da Bakunin e vicino semmai all'esistenzialismo del Bardamu di Viaggio al termine della notte, appunto. E per queste ragioni, discusso e disprezzato tanto dall’establishment culturale della sinistra marxista quanto dalla destra, conservatrice, liberale o cattolica. I suoi film sono tutti manifestazione di questa sua filosofia. O piuttosto dovremmo dire “prospettiva esistenziale”, essendo un intellettuale a-sistematico. Che si tratti di quelli con Clint Eastwood o di C'era una volta in America, la poetica era questa. L'ultimo, in particolare, è quello tra i film in cui si palesa di più tutto ciò. Specie, come dicevamo, nel finale. Noodles (De Niro), il protagonista, incontra per l'ultima volta dopo trent’anni il suo antico amico Max (James Wood), divenuto il Senatore Bayle. Il primo ha trascorso una vita ordinaria, grigia, fatta di alti e bassi. Il secondo, è riuscito a dare concretezza alle sue ambizioni giovanili: è ricco, potente, ha un'amante bellissima, Deborah, che poteva essere dell'altro. Il senatore Bayle è nei guai e per uscirne, chiede al suo amico fraterno di ucciderlo, dandogli la possibilità di vendicarsi del lungo inganno. Noodles rifiuta, non ha rancori verso l'altro. In quest'ultimo dialogo si confrontano due individui opposti, ma anche due tipi differenti di individualismo e di visioni di vita. Bayle è un vincente, un campione dell'individualismo borghese e materialista, del capitalismo insomma. È un criminale convertitosi al potere ufficiale, un uomo aggressivo e violento verso la vita; vuole piegarla al suo volere. Noodles, vestito con un vecchio cappotto di tweed, una sciarpa rossa di pessima lana e un cappello di feltro somiglia ad un pensionato qualsiasi, il quale sostiene che negli ultimi tren’tanni “è andato a letto presto”. È un antieroe, in fondo una persona comune; uno che si è accontentato di vivere come gli veniva meglio. La sua vita gli è piaciuta così come è andata... e tale la rivivrebbe. Il mondo non ha debiti con lui. Un individuo che dice sì alla vita. Niccianamente. Come disse di sé stesso, guarda caso, Céline “sono del partito della vita io”. E anche lui morì senza pentimenti. Il momento dell'incontro finale è intenso, profondo, i dialoghi semplici e sotto la delicata melodia di Yesterday di Paul McCartney. Azzeccatissima. Tutto sembra mitologico, fuori dal tempo, e Noodles è l'oracolo che svela la Verità. Un Buddha moderno (solleva il velo di maya). Alla fine l'antieroe riprende la sua strada attraverso il buio di una via di Long Island, stringendosi nel suo cappotto. Incredulo osserva un camion della spazzatura che tritura l'amico, e delle persone passano velocemente in auto, festeggiando al ritmo di God bless America. Il film si chiude in maniera circolare, con l'immagine di un giovane Noodles che si addormenta fumando oppio in una fumeria cinese. Un teatrino di ombre è lì vicino. Ha sognato tutto? È un ipotesi. Dopotutto la vita è sogno. Jack Kerouac direbbe: “Cos’è il cielo? Cos’è la terra? È tutto nella mente”.


sabato 22 febbraio 2014

I Coen tornano a cantare gli spiriti solitari d’America


Federico Magi

Era l’inizio dei Sessanta, e il Greenwich Village era il cuore pulsante di una Grande Mela in cui Bob Dylan muoveva i primi passi di una carriera straordinaria. Ma per un Bob Dylan che si apprestava a diventare una stella luminosa del panorama cantautoriale d’America, c’erano tanti folksinger destinati a rimanere nell’oblio, per i quali le grandi aspirazioni erano destinate a infrangersi contro la dura realtà delle leggi del mercato discografico. A una di queste volatili e malinconiche figure, i fratelli Coen hanno dedicato la loro ultima opera cinematografica, un’intima ballata che regala ai loro affezionati spettatori un nuovo personaggio destinato ad entrare nell’immaginario del loro strano e bizzarro mondo.


Siamo nel Greenwich Village, come detto, nel 1961, e il panorama della musica folk non è mai stato così esplosivo e fervido di novità. Tra i tanti musicisti in cerca di fortuna, disposti a vagare senza una fissa dimora e con rinnovate aspirazioni per il futuro c’è Llewin Davis, trentenne dotato chitarrista che si esibisce nei locali newyorchesi e che passa le notti sui divani di chi è disposto ad ospitarlo. Girando col suo strumento, i vestiti che ha indosso e uno scatolone di dischi pubblicati ma invenduti, Llewin porta avanti con fatica la sua carriera da solista, dopo la scomparsa dell’amico e collega con cui aveva formato un duetto che aveva pur ottenuto qualche piccolo successo. Gira tra New York e Chicago, sperando che la vita gli conceda quell’occasione che gli consenta di vivere di musica. Ma tra strani incontri e improbabili compagni di viaggio (tra i quali anche un gatto), si renderà conto che far fortuna con la sua musica è davvero una missione impossibile.
I fratelli Coen tornano a cantare gli spiriti solitari d’America, raccontandoci un’epoca di attesa e speranza a cavallo tra crudeltà e bellezza, filtrando il tutto attraverso gli occhi di uno strampalato protagonista che sembra subire i rovesci della sorte con una certa noncuranza e un'improbabile leggerezza, come consueto al loro cinema, ma tradendo una malinconia di fondo che lo rende a tutti gli effetti uno dei loro figli più riusciti, privo di quel fascino che contraddistingueva Drugo Leboswky, ma molto più vicino Barton Fink o al protagonista di A serious man. Nonostante una vicenda che, nel loro stile, vira nel grottesco e nei momenti ilari, il retrogusto malinconico e a tratti cupo e pessimista di A proposito di Davis si fa più percepibile col procedere della storia, seguendo le sorti di un personaggio in parte vittima della sfortuna, di sé stesso, del suo carattere e dei suoi modi non proprio accomodanti, e in parte del sogno americano, sempre evocato, immaginato, braccato, ma sempre sfuggente, precario e irraggiungibile, nonostante le promesse di rivoluzione e cambiamento – di un posto al sole per chi prova ad inseguire le sue velleità artistiche - degli anni Sessanta.
Ottima la rievocazione storica, che restituisce perfettamente le atmosfere del Greenwich Village con i suoi musicisti in cerca di sogni di gloria destinati a confrontarsi con una realtà spesso avara di soddisfazioni. Credibile e calzante il protagonista scelto dai Coen, un Oscar Isaac che recita mantenendo la misura del suo personaggio; buone le prove anche di Carey Mulligan e Justin Timberlake, coppia sulla scena; note di merito per l’apparizione di John Goodman, in un ruolo sopra le righe che gli calza a pennello e F.Murray Abraham, che nel suo breve ingresso in scena sentenzia in qualche modo la morte delle aspirazioni di Llewin. Ma la vera protagonista, in A proposito di Davis, è quasi scontato rilevarlo, è proprio la musica, le tante ballate folk che i Coen ci propongono coraggiosamente nella loro interezza, cantate in maniera magistrale dagli stessi attori sulla ribalta (brillantemente supportati dal lavoro musicale di T-Bone Burnett); una colonna sonora spesso in campo ma che non ruba la scena ai protagonisti ed anzi lega perfettamente i gesti all’atmosfera, mai dando il senso d’invadenza ed evitando così ogni possibile sovraccarico di pathos.

Tutto fluisce armoniosamente, nell’opera dei fratelli di Minneapolis, tanto armonicamente che si segue una storia intima di un personaggio qualunque in una vita qualunque. E qui c’è il grande pregio dei Coen, come avvenuto in altre importanti pellicole (in particolare, a preferenza di chi vi parla, L’uomo che non c’era), quello di rendere importante, grazie al cinema, ciò che probabilmente raccontato in altra forma non lo sarebbe affatto, creando un nuovo antieroe da inserire nella loro folta galleria di antieroi da ricordare. Il tutto sempre affidandosi a una regia e a un montaggio degni del loro nome, a una struttura filmica che porta lo spettatore per mano senza apparenti sussulti ma grazie a una potenza geometrica delle immagini e di una storia che chiude in maniera circolare, con una sequenza emblematica della vita di Llewin Davis che si fa paradigma di tutta la sua storia. Una storia intimista, ispirata in parte al memoir del folksinger Dave Van Ronk, che riesce a suscitare interesse nonostante il suo andamento lento, proprio perché raccontataci dai Coen.

martedì 18 febbraio 2014

Tibet, cinquantacinque anni di battaglie per la libertà


Francesco Pullia

Ancora una immolazione in Tibet, la 127ma dal 2009, in soli cinque anni. Secondo quanto riferisce il sito Phayoul, giovedì 13 febbraio si è dato fuoco, inneggiando slogan contro l’oppressione cinese, Lobsang Dorje, 25 anni, ex monaco del monastero di Kirti nella regione di Ngaba (Aba per i cinesi).
L’Europa resta muta a guardare. E se, come nel caso della Spagna, tenta di far sentire la propria voce, di avere un sussulto di dignità, Pechino interviene subito, esercitando il suo potere economico in modo ricattatorio. Il Partito Popolare spagnolo ha, infatti, votato in solitaria una riforma della giustizia universale causando di fatto l’annullamento di decine di cause aperte, a partire da quella sfociata in un mandato di cattura internazionale contro l’ex presidente cinese Jiang Zemin giudicato colpevole dalla magistratura spagnola di crimini contro l’umanità e genocidio in Tibet.  Il verdetto contro Zemin, capo dello Stato tra il 1993 e il 2003, aveva innescato una durissima reazione diplomatica di Pechino, poche ore prima che il Partito popolare votasse in blocco la riforma che limita al territorio nazionale la giurisdizione spagnola in casi del genere. La controversa riforma limita i poteri dell’Audiencia Nacional, massima istanza giuridica spagnola e tribunale unico nel suo genere in Europa, restringendo l’applicabilità di una norma entrata in vigore nel 1985.
In prossimità del 55° anniversario dell’insurrezione di Lhasa (10 marzo 1959), intanto, anche in Italia fervono i preparativi da parte degli esuli tibetani e delle associazioni che si battono per il popolo tibetano per l’organizzazione di una grande manifestazione che ricordi a tutti la tragedia in corso sul “Tetto del Mondo”. A Roma l’appuntamento è per domenica 9 marzo, in piazza Farnese, alle ore 15. Ma cosa accadde il 10 marzo del 1959 a Lhasa?


Il 10 marzo di 55 anni fa gli abitanti della capitale del Tibet scesero in piazza. I tibetani si ribellarono apertamente alle gravi conseguenze dell’invasione del 1950 da parte della Cina comunista. La rivolta finì nel sangue. La repressione compiuta dall’esercito cinese fu durissima e segnò una tragica svolta. Il cosiddetto “’Esercito di Liberazione Popolare” stroncò l’insurrezione con estrema brutalità uccidendo, tra il marzo e l’ottobre di quell’anno, nel solo Tibet centrale, più di 87.000 civili. Il Dalai Lama fu costretto a seguire la via dell’esilio in India dove, dopo un viaggio spossante tra gli insidiosi valichi innevati, ricevette ospitalità. In India diede successivamente vita ad un governo democratico, con sede a Dharamsala, nell’Himachal Pradesh, nel Nord dell’India, con lo scopo di sostenere la lotta dei tibetani e la sopravvivenza al genocidio perpetrato da Pechino. Attualmente, il numero dei rifugiati supera le 135.000 unità e l’afflusso dei profughi che lasciano il paese per sfuggire alle persecuzioni cinesi non conosce sosta. A causa della politica di sterilizzazioni e aborti forzati imposta dalla Cina, i tibetani si trovano, nella propria terra, ad essere ridotti a malapena a sei milioni rispetto a dieci milioni di occupanti cinesi. A chi  è tibetano è impedito avere in Tibet una propria cultura, una propria lingua, una propria bandiera, una propria religione, a meno che non voglia andare incontro a lunghe e penose detenzioni, a torture e vessazioni d’ogni tipo. Lhasa, anche dal punto di vista urbanistico, è stata stravolta. L’intero Tibet è sottoposto a cinesizzazione, allo sradicamento di un patrimonio culturale straordinario, al depauperamento delle risorse naturali, di un’inestimabile ricchezza anche in termini di biodiversità. Alcuni dei seimilacinquecento monasteri distrutti sul finire degli anni Sessanta  dalla furia delle guardie rosse, nel periodo in cui impazzava il farneticante dettato maoista, sono stati ricostruiti, ma solo con lo scopo di utilizzare i monaci come specchietto per allodole per occidentali ingenui e sprovveduti. Pechino non esita, in realtà, a intromissioni e controlli. Si pensi soltanto alla scomparsa nel 1995, del piccolo Gedhun Choekyi Nyima, riconosciuto dal Dalai Lama come reincarnazione dell’undicesimo Panchen Lama, e alla sua sostituzione con un altro bambino, figlio, guarda caso, di funzionari comunisti oppure alla recente campagna di discredito ordita nei confronti di un’altra figura importante nel buddhismo tibetano come il Karmapa, anch’egli esule, dopo una fuga rocambolesca, in India.
Il governo di Pechino continua arrogantemente a sostenere che la vicenda tibetana è una questione interna. Ma è davvero così? Per vedere meglio come stanno le cose, bisogna partire da lontano, addirittura dalle origini del Tibet.
Sebbene la storia del Tibet abbia inizio nel 127 a.C. con l’avvento della dinastia Yarlung (dal nome di un fiume della regione centrale), il paese venne di fatto unificato per la prima volta nel VII sec. d. C. con Songtsen Gampo. trentatreesimo monarca della dinastia, che favorì la penetrazione dall’India degli insegnamenti buddhisti e diede un impulso significativo all’evoluzione culturale.
Gli successe Trisong Deutsen che estese talmente l’impero da potersi permettere di assoggettare, nel 763, la stessa capitale cinese.
Non solo. A lui si deve l’effettiva diffusione e affermazione del buddhismo. Chiamò, infatti, dall’India e precisamente da Nalanda, celeberrima università (ospitava duemila insegnanti e oltre diecimila studenti e fiorì dal V al XII sec. quando finì distrutta dalle orde musulmane), l’erudito Santarakshita e il grande, e ancora oggi venerato, maestro Padmasambhava. Quest’ultimo, cui si deve la nascita del primo insediamento buddhista in Tibet, avrebbe, tra l’altro, profetizzato che quando “gli uccelli di ferro avrebbero volato” e “i cavalli avrebbero girato sulle ruote” i tibetani sarebbero stati costretti ad abbandonare, “come le formiche”, la propria terra e il buddhismo si sarebbe rivolto “agli uomini bianchi “.
Alla scomparsa di Trisong Deutsen salì al trono, nell’815, Ralpachen. Autore di uno stabile trattato di pace con la Cina, si dedicò ad incrementare la conoscenza del buddhismo. Cadde, però, vittima di una congiura ordita dal fratello Langdarma con l’appoggio di esponenti Bön (religione naturale, con aspetti ritualistici sciamanici, praticata precedentemente all’arrivo del buddhismo).
Langdarma fu un pessimo amministratore e, a sua volta, morì assassinato nell’842, lasciando un impero frantumato in una miriade di principati piccoli e bellicosi.
Il Bön tornò in auge ed il buddhismo fu momentaneamente sradicato per tornare ad essere oggetto di rinnovato interesse tra la fine del decimo e l’inizio dell’undicesimo secolo.
La costruzione dei più importanti monasteri buddhisti, quelli che finiranno per acquistare rilevanza anche sociale e politica, risale proprio a questo periodo. Si creò una nuova koiné culturale e religiosa e il paese, nonostante la divisione in potentati, conobbe un momento di relativa tranquillità.
Il tredicesimo secolo vide l’ascesa del capo mongolo Gengis Khan che, alla guida delle sue temibili armate, assoggettò la Cina e nel 1207 sottomise anche i tibetani. Nel 1239 Godan Khan, nipote di Gengis, impressionato dall’influenza esercitata dai lama, invitò alla sua corte Sakya Pandita, il più rinomato maestro spirituale dell’epoca, appartenente alla scuola sakyapa (dal nome di un monastero edificato nel 1073).
Il capo mongolo rimase talmente colpito dall’incontro da convertirsi al buddhismo. Proibì scorrerie del suo esercito nel Tetto del mondo e assegnò proprio agli abati sakyapa il governo dell’intero Tibet.
Suo figlio, Kublai Khan, che aveva instaurato in Cina la dinastia mongola degli Yuan, designò il capo dei sakya come precettore imperiale.
Solo per informazione, ricordiamo che le quattro grandi scuole che caratterizzano il buddhismo tibetano sono la nyingmapa (gli “antichi”),la Kagyupa (che annovera maestri come Marpa e Milarepa), la gelugpa (fondata agli inizi del XV secolo dal grande riformatore Lama Tsong Khapa e ispirata a un criterio di purezza originaria; ad essa appartiene l’attuale Dalai Lama) e, appunto, la sakyapa.
Va anche detto che, a differenza dei gelugpa, i sakyapa non osservano il celibato e riconoscono come loro massimo esponente un lama laico, il Sakya Trinzin, scelto non tramite reincarnazione ma per processo ereditario.
Il potere temporale dei sakyapa durò circa un secolo, fino a quando non andò al potere la famiglia nobiliare tibetana dei Pamotrupa, cui seguirono i principi di Rinpung e, nel 1565, i re di Tsang.
Nel frattempo si stava affermando la scuola gelugpa, detta anche dei “berretti gialli”, per via dei caratteristici copricapi indossati dai monaci (i sakyapa portavano, invece, “berretti rossi”).
Nel 1578 l’imperatore mongolo Altan Khan, lontano discendente di Gengis, convertitosi al buddhismo, divenne discepolo del lama gelugpa Sonam Gyatso e, in segno di devozione, gli conferì il titolo di Dalai Lama (“Oceano di saggezza), facendo in modo che estendesse alla sfera politica l’influenza spirituale.
Sonam Gyatso, in realtà, non fu il primo ma il terzo Dalai Lama, in quanto il titolo ebbe valore retroattivo nei confronti di altri due esponenti dell’ordine gelugpa.
I primi decenni del XVII secolo furono drammatici, segnati da forti scontri che finirono per coinvolgere e opporre tra loro anche i kagyupa e i gelugpa.
Il potere dei sovrani Tsang (i quali, tra l’altro, erano sostenitori dei karmapa, sotto-scuola deikagyupa) cominciava ad indebolirsi senza che si vedesse all’orizzonte una forza in grado di prevalere.
Fu in tale contesto che Ngawang Lobsang Gyatso, V Dalai Lama, riuscì ad imporsi come unico antagonista della dinastia Tsang. Dalla seconda metà del XVII secolo rinsaldò il proprio potere grazie all’appoggio politico e militare dei mongoli governando un Tibet finalmente riappacificato, unito e indipendente. Non a caso sarà ricordato come il Grande Quinto.
Si insediò a Lhasa, dove iniziò la costruzione del Potala e di numerosi monasteri, e istituì la seconda carica religiosa del Tibet, quella del Panchen Lama, in omaggio alla guida spirituale del monastero di Tashilumpo.
I problemi cominciarono nel 1682, alla sua morte.
Divenuto reggente, il suo principale collaboratore, per timore che un nuovo vuoto di potere sfociasse in un altro periodo di rivalità fratricide, coprì per diversi anni la notizia.
La finzione non poteva, però, durare troppo a lungo e alla fine fu costretto ad ammettere la verità. Contemporaneamente, però, fu annunciato che la nuova reincarnazione era stata trovata e sarebbe stata insediata a Lhasa.
Disinteressato alla politica, il VI Dalai Lama fu una personalità eccentrica dedita prevalentemente alla stesura di componimenti amorosi.
Nel frattempo i Manciù, popolazione di origine non cinese,avevano preso il sopravvento in Cina dando vita alla dinastia Ch’ing che subito mostrò intenzioni annessionistiche nei confronti del Tibet. Il secondo imperatore Ch’ing, non volendo esporsi in prima persona, spinse un feroce e spregiudicato capo mongolo, Lhazang Khan, a varcare i confini del Paese delle nevi.
Il legittimo governo fu deposto, il VI Dalai Lama arrestato e inviato in Cina dove, guarda caso, non giunse mai perché probabilmente assassinato in viaggio.
La tragica scomparsa del VI Dalai Lama e il brutale dominio del capo mongolo aprirono una pagina dolorosa, di violenze e atrocità.
Approfittando dell’ostilità dei tibetani nei confronti dello spietato Lhazang Khan, un’altra popolazione mongola, gli Zungari, invasero a loro volta l’altopiano uccidendo nel 1717 Lhazang Khan, conquistando Lhasa e abbandonandosi ad eccessi di ogni genere.
Dal caos generatosi trasse profitto l’imperatore manciù Kang Hsi che, tra l’altro, insediò nel Potala il nuovo Dalai Lama, il VII, trasformando tuttavia il Tibet in una sorta di protettorato manciù.
Due suoi rappresentanti, gli Amban, si stabilirono a Lhasa con una guarnigione cinese di duemila uomini e il compito di curare gli interessi di Pechino.
Attenzione. È questa una fase molto delicata della storia tibetana perché è proprio dagli avvenimenti di questo periodo che nascono molti degli equivoci riguardanti l’effettivo status del Tibet.
Bisogna, infatti, chiedersi se dal 1720 il Tibet diviene o no parte integrante dell’impero cinese. La risposta che ci fornisce la storia è, con estrema chiarezza, negativa. Vediamo perché.
I tibetani furono, infatti, sì costretti ad accettare la “soluzione imperiale” come male minore ma, nel concreto, continuarono a comportarsi come se nulla fosse accaduto confidando nel fatto che i Manciù non avrebbero assolutamente potuto esercitare un prolungato controllo. Ed ebbero ragione.
Tornato in Cina il grosso dell’esercito di Pechino, il Tibet fu nuovamente governato dal Dalai Lama e dai suoi ministri mentre gli Amban si limitarono a svolgere un ruolo più simile a quello di ambasciatori che non di plenipotenziari.
Il VII Dalai Lama non volle, comunque, rivestire alcun ruolo politico preferendo invece dedicarsi, come il suo successore, l’VIII, ad un’intensa vita spirituale.
La conduzione degli affari di stato fu affidata ad un gabinetto (Kashag) composto da quattro ministri (Kalon) di cui tre laici e uno religioso. Un assetto legislativo che rimarrà sostanzialmente inalterato fino al 1959.
Nonostante il IX, il X, l’XI e il XII Dalai Lama fossero tutti morti precocemente, le mire cinesi non si realizzarono mai.
A partire dalla seconda metà del XIX secolo l’impero manciù cominciò ad entrare in crisi e il Tibet si trovò al centro delle ambizioni di altri due imperi, quello russo, zarista, e quello inglese, desideroso di ampliare i confini della propria colonia indiana.
Nell’agosto 1904, durante il governo del XIII Dalai Lama, una spedizione inglese al comando del colonnello Younghusband entrò a Lhasa per fare ritorno, dopo sei mesi, in India.
Fu firmata una convenzione anglo-tibetana che prevedeva, tra l’altro, scambi commerciali tra le due nazioni e vietava ogni ingerenza esterna nella politica del Tibet. Va sottolineato che in nessun punto del trattato è menzionato alcun diritto da parte dei cinesi. Il Tibet, di fatto, era una nazione libera di decidere il proprio destino e di firmare accordi internazionali.
La reazione cinese non si fece attendere. Nel tentativo di raggiungere un accordo, la diplomazia britannica affermò che il Tibet era stato per un certo periodo nella “sfera d’influenza” manciù senza che, però, i cinesi avessero mai esercitato una diretta sovranità.
Le insistenze di Pechino portarono nel 1906 alla ratifica di un altro trattato, questa volta sino-britannico e steso all’insaputa dei tibetani, in cui, tra l’altro, si dichiarava che l’Inghilterra non aveva mire espansionistiche e non voleva interferire negli affari interni dello stato tibetano. Rimaneva, tuttavia, nel vago il ruolo della Cina.
Così facendo, e con non poco cinismo, gli inglesi erano riusciti a trovare un’intesa per arginare i russi, considerati ben più temibili dei manciù.
Una volta compreso che il vero scopo dell’Inghilterra era solo quello di tenere a bada la Russia zarista, i cinesi si fecero più aggressivi e prepotenti e nel 1910 invasero il Tibet, entrando per la prima volta esplicitamente contro la volontà popolare e dichiarando deposto il XIII Dalai Lama che fu costretto a fuggire nell’India britannica.
La non collaborazione e la fiera resistenza dei tibetani fecero, però, sì che i manciù si rendessero conto dell’impossibilità di governare senza e contro il Dalai Lama. Per questo, ribaltando la propria politica, chiesero al XIII Dalai Lama di riprendere il posto che gli spettava.
Nell’ottobre 1911 una rivolta nazionale rovesciò in Cina il potere manciù e l’ultimo imperatore. L’esercito imperiale cinese si sfaldò. Nell’estate 1912, grazie alla mediazione del governo nepalese, tibetani e cinesi raggiunsero un accordo riguardante la resa dell’ex contingente manciù e l’immediata espulsione dei suoi componenti dal Tibet che, dopo due anni di dominio straniero, tornava ad essere libero e indipendente. Il XIII Dalai Lama tornò a Lhasa confermandosi come unica e legittima autorità del Tibet.
Tuttavia, per ironia o crudeltà della sorte anche la neonata Repubblica cinese avanzò le medesime pretese della dinastia manciù, ostinandosi a considerare il Tibet parte integrante della Cina. 
Alla fine, la diplomazia britannica, chiamata in causa dallo stesso XIII Dalai Lama, si convinse della necessità di un accordo tra tibetani e cinesi sotto la supervisione di Londra.
Nel 1914 fu così indetta a Simla, cittadina nel versante indiano dell’Himalaya, una convenzione che, nel documento finale, prendeva atto dell’effettiva indipendenza del Tibet, riconosceva che la nazione non aveva alcun legame con la Cina e stabiliva i confini dello stato con una precisa linea di demarcazione, nota come Mac Mahon, dal nome del plenipotenziario inglese, che non lasciava adito a dubbi di alcun genere.L’accordo fu, però, siglato solo dai britannici e dai tibetani. I cinesi si rifiutarono di apporre la loro firma.
Seguirono anni di relativa calma e stabilità fino alla morte, nel dicembre 1933, a cinquantasette anni, del XIII Dalai Lama che, come abbiamo visto, svolse un ruolo di primo piano a livello diplomatico e all’interno, con una decisa azione riformatrice e di ammodernamento di una società troppo a lungo ancorata a modelli feudali.
Un anno prima di morire, il XIII Dalai Lama, che si meritò l’appellativo di Grande Tredicesimo, aveva indirizzato al suo popolo un vero e proprio testamento spirituale in cui annunciava profeticamente l’addensarsi di nubi fosche.
In Cina, dopo anni di sconvolgimenti interni e guerre civili, il regime nazionalistico di Ch’ang Kai Shek venne sconfitto e il 21 settembre 1949 fu proclamata la Repubblica popolare cinese con a capo Mao Tse Tung.
Il nuovo regime comunista non nascose sin dall’inizio i propri propositi nei confronti del Tibet. Ciu En Lai si affrettò a dichiarare dai microfoni di Radio Pechino che l’anno successivo l’”esercito popolare” avrebbe “liberato” Taiwan, Hainan e il Tibet. Fu il prologo dell’odierna tragedia.
Il 7 ottobre 1950 la frontiera tibetana fu contemporaneamente attaccata dai cinesi in sei luoghi diversi. Le debolissime truppe di Lhasa furono travolte. Nonostante le dimostrazioni tibetane di eroismo, non poteva esserci confronto e l’avanzata del rullo compressore inviato da Pechino si dimostrò subito inarrestabile.
A Lhasa il governo e l’intera popolazione furono presi dal panico. A novembre, sotto l'incalzare degli eventi, furono conferiti i pieni poteri politici a Tenzin Gyatso, che era stato riconosciuto nel 1937 reincarnazione del precedente Dalai Lama e il 22 febbraio 1940 ufficialmente investito della carica religiosa. Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, era allora solo un ragazzino di 16 anni costretto, dall’incalzare degli eventi, ad assumersi oneri particolarmente importanti. Fu chiamato ad affrontare quella che si sarebbe presto rivelata un’immane tragedia. Nell'aprile 1951, nel tentativo di arginare la furia comunista, il governo tibetano inviò una delegazione in Cina. Una volta a Pechino i tibetani furono, però, sottoposti a minacce e tenuti quasi in ostaggio, dal momento che fu loro impedito di avere contatti con le autorità di Lhasa. In questo clima intimidatorio la delegazione tibetana fu costretta dai cinesi a firmare un trattato in diciassette punti che annettava il Tibet alla Cina sia pure in condizioni di notevole autonomia. L'esercito comunista poté quindi entrare a Lhasa nel settembre 1951 portando così a termine l'occupazione del Paese delle nevi.
Il 17 ottobre capitolò Chamdo, capoluogo del Tibet orientale e perno dell’intero sistema difensivo. Il 25 dello stesso mese Radio Pechino poté spavaldamente annunciare, ad un mondo vergognosamente e omertosamente distratto, la notizia che il Tibet era stato invaso e “liberato dal giogo imperialista”. Sappiamo di che tipo di liberazione, purtroppo, si trattò.
Nell’arduo tentativo di raggiungere una qualche forma di pacifica convivenza con l'occupante, nel 1954 il Dalai Lama compì una lunga visita di cortesia nella Repubblica popolare cinese, incontrandosi a Pechino con Mao Tsetung, Ciu En Lai ed altri importanti dirigenti comunisti. Prima di partire per tornare a Lhasa, il Dalai Lama ricordò a Mao, che si disse d’accordo, quanto fosse importante che i cinesi rispettassero le tradizioni sociali e culturali del Tibet come del resto stabiliva lo stesso trattato in diciassette punti. Nonostante le assicurazioni ricevute a Pechino, il Dalai Lama trovò in Tibet una situazione deteriorata. Alle innumerevoli violenze compiute dai cinesi, i tibetani avevano risposto dando vita a un vasto movimento di resistenza attivo in pratica in tutta la parte nord-orientale del Paese, Gushi Gangdruk, letteralmente “Quattro fiumi e sei catene di montagne”. Secondo stime attendibili alla fine del 1957 circa centomila guerriglieri combatterono per la libertà del Tibet, ma la disparità delle forze in campo non lasciava alcuna possibilità di successo alla pur eroica resistenza tibetana. Alle incursioni dei guerriglieri, Pechino rispose colpendo indiscriminatamente la popolazione civile, bombardando villaggi, uccidendo monaci, distruggendo monasteri e passando per le armi tutti coloro che, a torto o a ragione, erano accusati di aver aiutato i partigiani. La potente macchina bellica maoista fu responsabile in quegli anni di un vero e proprio genocidio, come fu appurato in seguito da due dettagliati rapporti internazionali. Dall’Amdo e dal Kham, sconvolti dalle battaglie, cominciarono ad affluire nelle province centrali di U-Tsang lunghe colonne di profughi. Dapprima erano solo civili che cercavano di sfuggire alla ferocia cinese. Poi giunsero anche nutriti gruppi di guerriglieri che speravano di potersi riorganizzare nel Tibet centrale per poi tornare nel nord-est. Ma si trattò di una speranza vana perché ormai la presenza cinese sul Tetto del Mondo era ben solida e capillare. Il potere dello stesso Dalai Lama in pratica non esisteva più e il campo d’azione del suo governo si limitava ai problemi di ordinaria amministrazione mentre per tutte le questioni importanti a decidere e comandare erano i generali dell’Armata rossa.
Nel volgere di poco tempo anche a Lhasa la tensione divenne intollerabile. All’inizio del marzo 1959 mentre nella capitale tibetana si celebrava il Monlam Chenmo, la principale ricorrenza religiosa dell’anno, il Dalai Lama venne invitato a partecipare ad uno spettacolo che si sarebbe tenuto al quartier generale delle truppe cinesi. Gli fu chiesto, però, di recarsi senza l’usuale scorta e accompagnato solo da un pugno di funzionari, peraltro disarmati. Il Dalai Lama, nonostante il parere negativo dei suoi ministri decise che un suo rifiuto avrebbe ulteriormente irritato i cinesi e quindi accettò. Quando i tibetani appresero la notizia decisero che non avrebbero permesso che il loro leader si consegnasse inerme nelle mani dei militari cinesi. Il popolo era convinto che lo spettacolo non fosse altro che un pretesto per rapirlo. Un imponente assembramento si formò in breve tempo attorno al Norbulingka, residenza estiva del Dalai Lama, chiedendo apertamente il ripudio del trattato in diciassette punti e la cacciata dei cinesi dal Tibet.
La giovane guida spirituale e politica tibetana, dal canto suo, sapeva che i timori della sua gente erano più che fondati e si rendeva perfettamente conto che nulla sarebbe valso contro l’apparato dei militari cinesi. Decise quindi di fuggire sperando in questo modo di calmare le acque, far scendere la tensione sotto il livello di guardia e poi riprendere la strada del dialogo e delle trattative. La notte tra il 17 e il 18 marzo il Dalai Lama e un piccolo gruppo di persone, tra cui suoi famigliari e alcuni ministri uscì segretamente dal Norbulingka, per cercare rifugio nelle zone meridionali del Tibet ancora non del tutto controllate dai cinesi. La notte tra il 19 e il 20 marzo i cinesi bombardarono il Norbulingka convinti che il Dalai Lama fosse ancora lì e che, quindi, potesse morire sotto le bombe. Poi attaccarono la città. Vennero colpiti il Potala, il Jokhang, le abitazioni. I tibetani combatterono una lotta eroica ma impari. I militari cinesi furono implacabili. Decine di migliaia di persone, in gran parte civili, morirono sotto i colpi di una repressione feroce. Il governo tibetano venne sciolto e tutte le autonomie riconosciute dal trattato in diciassette punti abolite. Il Dalai Lama riuscì a stento a mettersi in salvo. Scortato da un pugno di uomini della resistenza raggiunse dapprima Lhuntse Dzong, una località vicina al confine indiano, dove in un primo tempo pensava di fermarsi in attesa di tornare a Lhasa. Ma di fronte al precipitare della situazione e alle notizie terribili che giungevano dalla capitale decise che non aveva altra scelta se non riparare in India dove giunse il 31 marzo. In due settimane aveva dovuto percorrere oltre un migliaio di chilometri. Il governo di Nuova Delhi gli concesse immediatamente asilo politico. La tragedia tibetana era ormai in corso. Nel suo libro “La porta proibita”, del 1984, Tiziano Terzani ha ampiamente parlato senza alcuna reticenza dell'orrore dell'occupazione cinese in Tibet, così come hanno fatto, con grande serietà, Piero Verni (imprescindibile il suo “Dalai Lama. Biografia autorizzata” edito da Jaca Book), Carlo Boldrini (“Lontano dal Tibet. Storie da una nazione in esilio”, Lindau), Raimondo Bultrini, Ettore Mo.
“La Cina”, ha scritto Ettore Mo, “è intervenuta in Tibet affermando che quest’ultimo era parte della Cina. Non è vero. Parlano un’altra lingua, sono di un ceppo etnico diverso… Il Tibet è una ‘piattaforma’ sopra l’India, che per i cinesi, grandi nemici dell’India, rappresenta la possibilità di controllarla (come per la guerra del ‘70), un’esigenza vitale. I cinesi sono entrati in Tibet, hanno costruito le strade che prima non c’erano, fatte apposta per far entrare i loro carri armati e per piazzare le loro basi di difesa. E’ stato tutto calcolato… ma per fare questo hanno dovuto distruggere la cultura del Tibet, partendo dall’eliminazione dei monaci… si tratta di una vera e propria invasione con tutte le regole fatta da una grande potenza con un miliardo di persone contro un piccolo stato con centomila abitanti. Hanno portato in Cina i tibetani e hanno portato moltissimi cinesi in Tibet, quindi la preponderanza anche etnica in Tibet è cinese. Hanno cambiato la natura etnica del paese, hanno fatto diventare i tibetani una minoranza. Hanno fatto di tutto… costringevano i monaci a sposarsi, hanno bruciato i loro monasteri, le loro grandi opere… una cosa realmente spietata e folle, fatta nel nome di un paese che si è autoconferito il diritto di ‘influire’ su un altro…”.


mercoledì 12 febbraio 2014

Tibet, quando i ribelli sono monaci



Francesco Pullia

Mentre la magistratura spagnola ha finalmente formalizzato un ordine internazionale di cattura e detenzione per il genocidio in Tibet nei confronti dell'ex presidente cinese, Jiang Zemin, dell’ex premier Li Peng e altri tre ex dirigenti del Partito comunista cinese, in Tibet non s’arresta la repressione da parte degli invasori cinesi.
Quattro giovani monaci tibetani, Tsuiltrim Palsang (20 anni), Lobsang Yeshi (15), Kalsang campa (22) e Kalsang Dorjee (23), sono stati arrestati dalla polizia cinese per avere affisso e distribuito volantini indipendentisti nell’antico monastero di Dowa Shartsang a Trido, nella contea di Sog, nella regione del Kham. A Dokarmo, nella contea di Tsekok, nella regione dell’Amdo, si è dato fuoco Phakmo Samdup, ventinove anni, padre di due bambini. È il primo tibetano ad essersi autoimmolato all’interno del Tibet nel 2014, il 126° dal 2009. Le comunicazioni con l’intera area sono state interrotte dalla polizia che ha imposto alla popolazione di non diffondere la notizia della nuova immolazione per lasciare invece credere che il tibetano si sia suicidato per questioni familiari.La polizia cinese, spente le fiamme, si è impossessata del corpo. Il tragico evento acquista particolare rilevanza per l’approssimarsi delle date del 2 marzo (capodanno tibetano) e del 10 marzo (55° anniversario dell’insurrezione di Lhasa). A Driru è morto, invece, per le torture subite in carcere, Kunchok Dhakpa che era stato arrestato l’anno scorso per avere protestato contro la creazione di una miniera nella montagna sacra di Naglha Dzamba.  Nello stesso posto, nel maggio 2013, circa cinquemila tibetani avevano inscenato una manifestazione contro una compagnia mineraria cinese che stava allestendo un cantiere nella montagna sacra con il "pretesto di costruire progetti idroelettrici".
Per portare avanti l’attività estrattiva, i cinesi hanno deportato due milioni di tibetani. Secondo la versione ufficiale i pastori sarebbero stati invitati a trasferirsi verso altre zone "per conservare i pascoli altrimenti degradati da pratiche di allevamento insostenibili". Grandi dighe sono state costruite per ottenere l'energia elettrica necessaria all'estrazione e secondo dati ufficiosi se ne gioverebbero circa 240 gli impianti minerari, molti dei quali proprio in prossimità delle sorgenti di grandi fiumi che rischiano di essere inquinati dai riversamenti di materiali di scarto. La Cina continua, poi, a detenere il triste primato nelle esecuzioni capitali. Anche se, presentando lo scorso anno il suo rapporto, il presidente della Corte suprema del popolo, Wang Shengjun, si è rigorosamente attenuto alla linea governativa di tradizionale segretezza, non fornendo, quindi, statistiche sul numero delle condanne a morte e delle esecuzioni, si sa che l’anno scorso le esecuzioni capitali sono state circa tremila, il 76% del totale nel mondo. È noto il legame tra esecuzioni capitali e commercio di organi. Secondo le organizzazioni umanitarie internazionali, il 95% degli organi proviene, infatti, dai corpi dei condannati a morte. Gli organi vengono espiantati subito dopo l’esecuzione e trasportati in apposite ambulanze. Sono almeno seicento in tutta la Cina gli ospedali specializzati in questo traffico. I profitti sono altissimi, se si considera che il prezzo di vendita degli organi spesso arriva a decine di migliaia di dollari.

Recentemente il governo cinese ha approvato alcune leggi per regolarizzare il “mercato nero” degli organi umani. La precedenza nella distribuzione degli organi andrebbe ai cittadini cinesi, i chirurghi cinesi non potrebbero viaggiare all’estero per effettuare espianti e, soprattutto, dovrebbe essere obbligatorio il  consenso del prigioniero per la donazione dei propri organi dopo la morte. Un’ennesima ipocrisia se, come denuncia Human Rights Watch in un reportage della CNN dell’11 febbraio 2007, è vero che i condannati a morte risultano, in realtà, soggetti a pressioni e, quindi, impossibilitati ad esprimere liberamente la propria volontà.

venerdì 7 febbraio 2014

In Tibet sempre più preoccupante la situazione dei diritti umani


Francesco Pullia

Il processo a Xu Zhiyong, svoltosi a Pechino nello stesso posto dove nel 2009 si celebrò il processo a Liu Xiaobo,  si è concluso senza una sentenza definitiva anche se, al termine della sua requisitoria, il pubblico ministero ha chiesto una pena severa.  Attivista cinese per i diritti civili, in un articolo intitolato “Tibet is Burning” , pubblicato nel dicembre di due anni fa dal New York Times , Xu Zhiyong aveva raccontato le difficoltà che aveva incontrato per esternare ai familiari di Nangdrol, uno degli autoimmolati tibetani, le proprie condoglianze: “Mi dispiace constatare – aveva scritto – che noi cinesi “han” restiamo in silenzio mentre Nangdrol e i suoi compagni tibetani stanno morendo per la libertà. Siamo noi stessi delle vittime in quanto ci estraniamo, non lottiamo, coltiviamo sentimenti di odio e distruzione”. Xu Zhiyong, che nel 2012, assieme ad altri cinque attivisti, aveva lanciato il Movimento dei Nuovi Cittadini, era nel mirino della polizia cinese per “riunioni di gruppo e disturbo dell’ordine in luogo pubblico”.

Fuori dal palazzo, sostenitori del dissidente sono stati fermati e trattenuti in custodia mentre i reporter della BBC e della CNN, che trasmettevano in diretta, sono stati strattonati e malmenati.
In Tibet, invece, oltre quattrocento tibetani, tra i quali sessanta monaci, hanno inscenato recentemente una manifestazione silenziosa per chiedere la liberazione di Khenpo Kartse, l’abate trentottenne del monastero di Jhapa, arrestato il 6 dicembre scorso mentre si recava a Chengdu perché sospettato di “attività contro lo stato”.Conosciuto anche come Karma Tsewang, Khenpo Kartse è conosciuto per l’incessante impegno in campo sociale e per l’attività a sostegno della salvaguardia della lingua, della religione e della cultura tibetana. Nei giorni successivi al suo arresto sonoi stati trattenuti altri ventuno tibetani, compresi sedici monaci, che avevano chiesto la sua liberazione. Interrogato il 31 dicembre, Kartse aveva fatto sapere di non avere subito torture.
L’organizzazione Free Tibet è riuscita a fare trapelare la notizia che il tribunale supremo della cosiddetta Regione Autonoma Tibetana intende colpire duramente coloro che sono sospettati di “sabotare e minacciare la sicurezza nazionale”. Sono state istituite forze speciali per combattere le “organizzazioni clandestine” che si giovano dell’”influenza religiosa”.
Il Centro tibetano per i diritti umani e la democrazia (TCHRD) ha pubblicato il rapporto annuale per il 2013 sulla situazione dei diritti umani in Tibet. Una speciale sezione (Gulags of Tibet) è dedicata all’analisi del sistema della “rieducazione tramite il lavoro” imposto dai cinesi. Viene inoltre esaminata in modo esaustivo la questione del trasferimento della popolazione nomade. A questo proposito, si afferma che i nomadi tibetani sono stati in gran parte obbligati “a lasciare le loro terre d’origine e trasferiti in aree urbane contro la loro volontà e senza adeguate misure di compensazione: ricevono molto meno dei migranti cinesi in termini di sussidi e non vengono aiutati nella ricerca di un lavoro”. Secondo il TCHRD la politica dei trasferimenti ha il suo fondamento nel desiderio del governo cinese di sfruttare le ricche risorse minerarie reperibili nei territori dei nomadi. “Le compagnie minerarie statali” – si legge – “hanno già iniziato ad estrarre dalle aree storicamente abitate dalle popolazioni nomadi minerali preziosi quali il litio, il rame, l’oro e il petrolio”.
Il rapporto denuncia inoltre la violenta repressione di ogni forma di manifestazione pacifica, le detenzioni arbitrarie, le limitazioni alla libertà di movimento e le vessazioni a danno degli artisti e degli intellettuali. Molte delle direttive politiche attuate dalla Cina hanno provocato danni irreversibili alla cultura e all’ambiente del Tibet. Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia rende noto che in Tibet ci sarebbero 896 prigionieri politici e che nel 2013 sono stati arrestati e condannati 119 tibetani. Dal 2009 si contano 125 casi di autoimmolazione, di cui 27 nel solo 2013. “I durissimi interventi contro gli autoimmolati e i loro familiari e amici non hanno tuttavia prodotto i risultati sperati: anziché generare armonia e stabilità, la repressione non fa che rinfocolare il risentimento dei tibetani”.
Intanto, qualche giorno fa, nella città indiana di Guwarati, nello regione dell’Assam, dove si era recato per presenziare all’inaugurazione del primo festival di cultura tibetana, Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, ha detto che saranno i tibetani a decidere se l’istituzione del Dalai Lama dovrà proseguire e se il lignaggio potrà essere detenuto da una donna.
Parlando a centinaia di devoti arrivati dall’Arunachal Pradesh, dal Buthan, dal Mustang e dal Nagaland, il Dalai Lama ha affermato: “Alla mia morte si presenterà la questione della ricerca del prossimo Dalai Lama: se il popolo tibetano non la ritiene più necessaria, questa tradizione potrebbe essere abolita, non vi sarebbe nulla di strano, mantenerla o no dipende dalla volontà del popolo tibetano”.  A chi gli ha chiesto se in futuro sarà possibile il riconoscimento di un Dalai Lama donna, il leader spirituale tibetano ha così risposto: “Certamente! Se le circostanze esigeranno il riconoscimento di una donna da parte della maggioranza dei tibetani, non vi sarà alcun problema”. Scherzando, ha soggiunto: “Il Dalai Lama donna dovrà essere molto attraente: questo farà sì che molte persone verranno ad ascoltarla!”.
Il premio Nobel per la pace ha affermato di essere contrario alla designazione del nuovo Dalai Lama secondo il metodo tradizionale e al conferimento dei poteri politici alla sua persona o ai suoi successori. “Nel 2011 ho rinunciato al potere politico – ha ricordato – e nel futuro il Dalai Lama non avrà alcuna autorità in questo campo ma sarà solo la guida spirituale del popolo tibetano”.