lunedì 24 marzo 2014

Berlinguer oltre le celebrazioni retoriche: un'analisi sul rapporto tra Pci e movimenti




Di seguito uno stralcio del saggio di Luciano Lanna Enrico Berlinguer e la frattura del '77 che sarà pubblicato nel libro collettaneo in uscita ad aprile dal titolo Prospettiva Berlinguer. Il leader comunista a trent'anni dalla scomparsa (Safarà editore) curato da Ivan Buttignon (16 saggi di vari autori)

Luciano Lanna

Il Pci di Berlinguer dopo essere riuscito a mobilitare milioni di militanti e di persone per almeno un decennio, a metà degli anni Settanta percepisce sia il fatto che la strada della mobilitazione economico-sociale non è percorribile in quanto tale all’infinito sia che non è più possibile poter rappresentare sempre e comunque umori ed esigenze d’opposizione. Ma invece di puntare in via privilegiata a salvare e rinforzare il rapporto con i fermenti della società, magari dentro un diverso paradigma di partecipazione e impegno, il Pci mostrò di tendere ad assimilarsi al quadro politico-istituzionale di potere, lasciando così che gli “esclusi” si avventurassero in ricerche diverse di nuova rappresentanza o di nuove forme di mobilitazione.
È proprio nel 1977 che questa “frattura” diventa evidente in tutte le sue conseguenze. Da questo punto di vista, il ’77 simboleggia in qualche modo il mutamento di segno, “perché è a partire da quel momento che prende forma il fenomeno della secessione rispetto al modo come si era pensato e sistemato il dopoguerra”[1]. In un suo studio sul movimento del Settantasette, Carmine Fotia sostiene che proprio riguardo al Pci di Berlinguer, il ’77 è l’anno di svolta di un intero decennio: “Al culmine della sua forza, il Pci la gioca tutta dentro la dimensione politico-istituzionale, cercando di aprirsi un varco verso il governo attraverso la politica delle ‘astensioni’ e dell’intesa con la Dc. Non si comprende la frattura tra il Pci e il movimento giovanile se non si coglie la complessità di questo passaggio: il ’77 non è, allora, la questione del rapporto tra partito e movimento; o meglio, lo è ma come metafora di un’intera politica, di una strategia lungamente preparata (quella del compromesso storico) che s’invera in una linea (la politica dell’intesa con la Dc)”[2].
Si potrebbe allora sostenere che la strategia del compromesso storico e dell’unità nazionale condusse all’inizio di quell’anno al logoramento politico della prospettiva di sinistra rappresentata sino ad allora dal Pci. Più che altro, l’assillo principale di Botteghe Oscure era quello di far uscire la situazione politica dallo stallo dell’astensione concessa al governo guidato da Andreotti. Proprio Berlinguer, su Rinascita del 10 dicembre 1976, aveva infatti avvertito un “vuoto di linea politica della Dc” e in esso il rischio “che crescano umori, tendenze, manovre di destra, in qualche caso avventuristiche”. E dunque, sollecitava a “far avanzare il quadro politico, isolando tutti coloro che tentano di scatenare la controffensiva di destra”. Tuttavia, concludeva Berlinguer, non si poteva in alcun modo far cadere il governo e contribuire a determinare “un salto nel buio”.
Dal punto di vista strategico e di contenuti politici, la risposta del Pci venne riassunta attraverso un termine preciso, “austerità”, diventato poi lo slogan e il programma lanciato in un convegno organizzato dalla sezione culturale del Pci al teatro Eliseo di Roma, proprio del gennaio 1977.  Una linea politica ovviamente in contrasto totale con la domanda che saliva negli stessi giorni dalle nuove generazioni e dal movimento di contestazione studentesco e che, per il Pci berlingueriano, veniva intesa come un aspetto di rigore connesso al contemporaneo rinnovamento politico. Non si trattava cioè “solo di pagare tasse e di fare più sacrifici, ma anche, nel contempo, di lottare per una trasformazione dell’assetto di questa società”[3].



(...) Salari e liquidazioni vennero tagliati per 800 miliardi, l’aumento dell’Iva e dell’imposta di fabbricazione dei prodotti petroliferi fornirono i mille e quattrocento miliardi di lire necessari a fiscalizzare gli oneri delle imprese. E in qualche modo i comunisti si assunsero in prima persona il peso politico di queste misure. Il politologo Giorgio Galli, già il 19 ottobre del ’76, si interrogava sulla tenuta di una simile politica: “È  realistico questo disegno del quale si fa interprete Andreotti? A me pare di no, nonostante l’attuale acquiescenza della sinistra. I 14 milioni di italiani che vivono bene o discretamente non intendono ridurre il loro livello di vita e non vedo perché dovrebbero farlo i 27 milioni che vivono mediocremente e i 14 milioni di emarginati…”[6].
Mentre infatti il governo Andreotti governa sul tasto dell’austerità, cominciano a esprimersi le prime manifestazioni di insofferenza, soprattutto tra i giovani delle grandi città. Nascono i circoli del proletariato giovanile che praticano autoriduzioni nei cinema e nei teatri in nome del diritto alla vita, emergono gli indiani metropolitani che contestano la prima della Scala il 7 dicembre 1976. E sin dall’inizio il Pci di Berlinguer viene visto come un soggetto avversario, come il “nemico”. Non a caso giovedì 10 febbraio gli occupanti dell’università di Roma prendono di mira un giornalista dell’Unità, Duccio Trombadori, e gli riservano un vero e proprio “processo politico” pubblico. Definito un “provocatore”, viene a lungo fischiato dagli indiani metropolitani, poi condannato ed espulso in malo modo dall’università.
Giovedì 17 febbraio 1977, ultimo giorno di  Carnevale, fu comunque la giornata che fece esplodere tutte le contraddizioni. Fu infatti il giorno in cui nella contrapposizione frontale tra Pci (e sindacato) e movimentismo studentesco (ma non solo) si consumava la frattura irreparabile.



(...) Luciano Lama arriva all’ateneo scortato da un nutrito servizio d’ordine del Pci con il chiaro proposito di dimostrare l’egemonia della sinistra storica sulle nuove frange contestatrici. In mattinata un’altra parte del servizio d’ordine si era premunita cancellando le scritte ironiche contro il leader della Cgil (“I Lama stanno nel Tibet”, “Lama non l’ama nessuno”) e occupando il viale d’accesso al piazzale della Minerva. La situazione diventa immediatamente tesa, prima gli studenti scelgono di disturbare il comizio con sfottò e slogan ironici, poi tutto degenera. E scoppiano gli incidenti. Nella confusione generale Lama fu costretto a scendere dal palco e a scappare scortato dal servizio d’ordine.
Che non si trattasse soltanto di una goliardica rivolta generazionale, ma di qualcosa di più profondo lo attesta in una sua analisi postuma uno dei contestatori, un ex indiano metropolitano: “Nelle motivazioni profonde dell’ala creativa, la più significativa di quell’evento, si profilavano in realtà i nuovi orizzonti della società italiana che avevano le loro radici nella storia del paese. Non a caso l’accusa più contestata a quei giovani fu quella di imitare le componenti irrazional-vitaliste dell’avanguardia futurista. Quel movimento era rivolto innanzitutto contro le involuzioni della politica e soprattutto contro i detriti gruppuscolar-marxisti del ’68. E nessuna nuova nomenklatura ha mai potuto identificarsi con esso. Pacifisti, ambientalisti, femministe e radicali sono tutte esperienze che non hanno il tratto caratteristico del vero Settantasette: il miglior Nietzsche contro il peggior Marx”[8].
Non a caso, la prima reazione del Pci alle manifestazioni della nuova contestazione giovanile passò dalla condanna aperta all’incomprensione totale. 
(...) D’altro canto, la discussione nel Pci sulla natura del movimento fu più che altro di censura e disapprovazione. Ci sono accenni a una discussione su Rinascita e su La Città Futura, il settimanale della Fgci diretto da Ferdinando Adornato, ma generalmente passò la metafora del “diciannovismo” e del “sovversivismo piccolo borghese” delle masse giovanili nella quale era incubato il fascismo delle origini. La Fgci, disse il segretario nazionale Massimo D’Alema, doveva “stare nel movimento” ma per combatterne le componenti squadristiche, “come fosse possibile – rileva Fotia – starci, dopo che il servizio d’ordine del Pci aveva sgomberato le facoltà occupate, è tutto da capire”[9].



(...) A marzo, a Bologna, l’opposizione tra Movimento e Pci diventa simbolicamente ancora più evidente. L’11 marzo restava ucciso uno studente, Francesco Lo Russo, colpito da un  proiettile mentre era in fuga dall’università che veniva sgombrata dalle forze dell’ordine. Il Pci decide di far schierare il suo servizio d’ordine a piazza Maggiore per cercare di tenere sotto controllo la tensione e con l’obiettivo di dare alla città un messaggio inequivocabile: il movimento è composto da provocatori e fascisti. Il sindaco comunista Renato Zangheri, dopo un lungo colloquio con il questore, afferma: “Siete in guerra e non si può criticare chi è in guerra”[11]. All’alba della domenica 13 marzo circa 3mila poliziotti e carabinieri con l’ausilio dei mezzi blindati rimuovono le barricate e sgombrano l’università occupata. Il 16 marzo Piazza Maggiore è colma di manifestanti del Pci che ascoltano Zangheri e rifiutano l’ingresso in piazza del movimento. E a settembre, l’ultimo giorno del convegno del movimento contro la repressione, un grande corteo, un “serpentone”, attraverserà l’intero centro di Bologna proprio sfottendo il Pci e in sindaco comunista al grido di “Zangherì Zangherà zangheriamo la città”, dopo essere passato davanti alle carceri nelle quali erano reclusi, per i fatti di marzo, numerosi militanti del movimento bolognese.
D’altronde non c’era compatibilità possibile tra chi aveva scelto lo slogan dell’austerità e l’asse con la Dc e chi si proponeva all’insegna della rivolta ribellistica e antipartitica del “riprendiamoci la vita”.  È soprattutto sul piano dell’immaginario che avviene la dissociazione definitiva tra il Pci e l’area vasta giovanile di stampo libertario che, paradossalmente, in una inevitabile frammentazione disorganica si dividerà e si riaggregherà paradossalmente tra il riferimento al quotidiano Lotta Continua, le suggestioni creative degli indiani metropolitani, quelle dell’Autonomia operaia, la sintonia con le battaglie dei radicali di Pannella, alcune aperture dei socialisti di Craxi e Martelli ma anche, come annoterà Pasquale Serra, alcuni esperimenti minoritari, ma significativi, che si muovevano addirittura nel movimentismo giovanile a destra[12].
Incapace di interloquire, magari con altri mezzi e modalità nuove che non fossero quelli della politica istituzionale, con i nuovi fermenti della società, è come se il Pci si fosse convinto che l’apertura eccessiva ai bisogni sociali e alla protesta giovanile facesse correre troppi rischi rispetto alle responsabilità strategiche, tanto che il partito assume una posizione legalitaria e di élitismo liberale, posizione quest’ultima che opta sempre per “un sistema in cui al popolo è consentito votare, ma per il potere reale è convogliato lontano da esso verso una élite più liberale e illuminata”[13]. È la via del berlinguerismo che, puntando più alla responsabilità politico-istituzionale che alla sintonia con i movimenti, sacrifica e marginalizza una vasta parte del potenziale di rinnovamento presente nella società italiana, in particolare i bisogni delle giovani generazioni post-sessantottine. 



[1] P. Serra, Individualismo e populismo La destra nella crisi italiana dell’ultimo ventennio, cit., p. 29.
[2] C. Fotia, “Il Pci contro i giovani”, in AA.VV, Millenovecentosettantasette, Manifesto libri, Roma, 1997, p. 77.
[3] In C. Fotia, “Il Pci contro i giovani”, in AA.VV, Millenovecentosettantasette, cit., p. pp. 77-78.
[4] G. Amendola, Coerenza e severità. In “Politica ed economia”, n. 4, luglio-agosto 1976, pp. 3-12.
[5] M. Pirani, “E Amendola dice: sacrificatevi”, in “la Repubblica”, 28 settembre 1976.
[6] In G. Galli, Opinioni sul Pci, cit, p. 150.
[7] M. Grispigni, Il Settantasette, il Saggiatore, Milano, 1997, p. 29.
[8] M. Camiletti, Il canto acerbo del ’77, in “Diorama letterario”, n. 207, ottobre 1997.
[9] C. Fotia, “Il Pci contro i giovani”, in AA.VV, Millenovecentosettantasette, cit., p. 79.
[10] Cfr. G. Dell’Arti, “I giorni delle P38” in 1977-Dieci anni di Repubblica, p. 5.
[11] In M. Grispigni, Il Settantasette, cit., pp. 42-43.
[12] P. Serra, Individualismo e populismo La destra nella crisi italiana dell’ultimo ventennio, cit., pp. 36-38.
[13] M. Canovan, “Il populismo come l’ombra della democrazia”, in Europa Europe, n. 2, 1993, edizioni Dedalo, p. 50.

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