martedì 4 marzo 2014

Bukowski vent'anni dopo: il "maledetto" americano che fece fortuna in Italia



Luciano Lanna

«Quante sgridate mi sono presa per il mio caro, dolcissimo Hank tanti anni fa…» scriveva a suo tempo la compianta americanista Fernanda Pivano rievocando la sua passione – del tutto incompresa in Italia – per Charles “Hank” Bukowski, lo scrittore scomparso vent’anni fa, il 9 marzo del 1994. E questo – sottolineava – avveniva ancora nel 1978, quindici anni dopo che il Berkeley Barb e altri giornali dell’underground intellettuale Usa le avevano mandato ritagli con le pagine bukowskiane che sembravano troppo farneticanti per essere vere, in un ritratto della gioventù che però stava esplodendo… Quelle pagine farneticanti le aveva raccolte Lawrence Ferlinghetti nella sua libreria City Lights e le aveva spedite alla Pivano come se fossero l’argomento più naturale e importante di quegli anni. E forse, in quel 1972, lo erano: «Individualistiche e dissacratrici e anarcoidi, disimpegnate in qualsiasi direzione, intrise di disgusto per la realtà del mondo….».


D’altronde, quando in Italia la Feltrinelli aveva pubblicato la prima traduzione di un romanzo di Bukowski, se ne erano accorti davvero in pochi. E quei pochi lo avevano forse confuso con un altro scrittore, quasi omonimo: il dissidente russo Vladimir Bukovski. L’identità fonetica e la quasi identità grafica – una sola “w” di differenza – avevano creato un equivoco e una confusione che forse, nonostante tutto, sottendevano pure qualche affinità. Anche Henry Charles Bukowski junior – nato Heinrich Karl Bukowski, da padre tedesco – era in fondo un dissidente. Viveva negli Stati Uniti, ma nessuno come lui è stato impietoso con il sogno americano e con tutti i suoi luoghi comuni. Naturale che risultasse indigeribile a un certo benpensantismo intellettuale.
Come dimostra un episodio riferito dall’americanista Beniamino Placido. «Ho incontrato sul treno Goffredo Fofi e mi sono preso una bella lavata di testa», confessava. «Bella roba, tu con il tuo Bukowski”, gli fa infatti Fofi. «Perché, non va bene?» replica Placido, preoccupato di quello che potessero pensare di lui i lettori delle riviste di Fofi… «Lo sai come lo leggono i ragazzi? Come la legittimazione letteraria di ogni disgregazione, di ogni dissociazione, di ogni disgusto esistenziale”, lo rimprovera il critico…
Che si trattasse di Solgenitsin o di Bukowski, d’altronde, i dissidenti e i “maledetti” non godevano del favore del mainstream negli anni Settanta. «Il Bukowski di Los Angeles – spiegava proprio Placido – è un cronista, disgustato e critico, della vita quotidiana. Come tutti i grandi dissidenti russi. Non a caso il primo libro che abbiamo conosciuto e apprezzato di Solgenitsin si intitolava Una giornata di Ivan Denisovic. E che giornata. Che vita. Che grigiore. Che quallore…». Lo stesso squallore, aggiungeva Placido, «delle Los Angeles, delle Chicago, delle New York che Charles Bukowski conosce e ci fa conoscere…». Ancora nel diario dei suoi ultimi due anni di vita, Bukowski non riuscirà a trattenersi dall’esprimere tutto il suo disprezzo per lo squallore della quotidianità di un’esistenza condotta sull’onda del consumismo e dell’utilitarismo: «La cosa terribile non è la morte, ma le vite che la gente vive o non vive fino alla morte. Non fanno onore alla propria vita, la pisciano via… Dopo un po’ dimenticano anche come si fa a pensare, lasciano che sia gli altri a pensare per loro. Hanno il cervello imbottito di ovatta. Sono brutti, parlano male, camminano male…».
Fortunatamente, in quegli anni Settanta in Italia Bukowski era stato scoperto e promosso da un editor non conformista come Gigi Buffarini Guidi – suo nonno fu il ministro di Mussolini finito ucciso nei tragici giorni del ’45 – che lo propose al suo editore, il socialista libertario Massimo Pini, per le edizioni SugarCo. E nelle  librerie italiane comparvero quindi capolavori come il romanzo Factotum e i racconti A Sud di nessun Nord. E poi l’operazione procede fino al 1980 e 1981, quando la SugarCo dà ancora retta a Buffarini Guidi e fece uscire Donne e Post Office, e Compagno di sbronze, e Storie di una vita sepolta



Per restare in Italia, ma negli anni Duemila, un bukowskiano dichiarato, il narratore Gino Armuzzi, classe 1960, ha dedicato un esilarante romanzo di formazione, Sognavo di essere Bukowski (Sperling & Kupfer) proprio allo scrittore statunitense. Nel libro di Armuzzi – uscito nel 2004, dieci anni fa – si raccontava però la Milano degli anni Ottanta vissuta da un personaggio d’eccezione, il Guzzi, sempre un bocconiano doc che in seguito a una sorta di crisi ideologico-esistenziale passa dallo status di figlio di papà a studente fuori corso, da studente fuori corso a irregolare esistenziale, e poi più giù ancora, fino a vero border line, il tutto tra colonne sonore di prima e anche di seconda scelta, derive esistenziali, feste a imbuco e concerti. Erano i postideologici anni Ottanta e tra Sex Pistols e Duran Duran, Rambo e Conan, punk e paninari, ermerge il protagonista di una storia che voleva «vivere come Miller, morire come Mishima e sognava di essere Bukowski…». Un giorno c’è la scoperta di Bukowski e da allora cambia tutto: «Cominciai ad alternare la giacca e cravatta ad abiti più informali. Alle Timberland e alle Church sostituii prima le più alternative Clark, poi le truvide Doc Martens...». E agli amici che lo sfottevano – «che ti succede, Guzzi, non è che diventi comunista?» – lui rispondeva rassicurando: «Chi, io? Ma sei scemo? Piuttosto milanista che comunista». E poi tornava in libreria a cercare i libri di Bukowski e degli altri maledetti. E l’elenco è davvero significativo della trasformazione della sensibilità culturale che irruppe proprio negli anni Ottanta: «C’erano gli alcolizzati come Kerouac, gli alcolizzati come Bukowski, i suicidi come Hemingway... gli oppiomani come Quincey e Baudelaire, i fascisti come Evola e Céline, i nazisti e suicidi come Mishima, quelli come la Rochelle... i pazzi come Nietzsche…». 


Se la fama di Bukowski a metà dei Settanta sarà soprattutto europea, negli States raggiungerà la meritata popolarità soltanto molto tempo dopo e soprattutto grazie alla traduzione cinematografica delle sue opere. E buona parte del merito sarà ancora di un italiano, Luciano Vincenzoni, famoso sceneggiatore – autore di Giù la testa, Il buono il brutto e il cattivo per Sergio Leone, La grande guerra per Monicelli, Il Conte Tacchia per Sergio Corbucci – oltre che appassionato bukowskiano (sulla scorta della sua antica passione per i libri di Céline). È stato lo stesso Vincenzoni a rivendicare, nel suo Pane e cinema (Gremese Editore), il fatto di essere stato il primo a parlare dello scrittore negli ambienti hollywoodiani e a far scoppiare nella mecca del cinema una vera e propria bukowskimania: «Fu una scoperta, nessuno di loro conosceva questo autore underground…».
Un rapporto, quello di Hollywood per Bukowski, che d’altronde non era ricambiato: «Al cinema ci vado poco, il mio tempo lo so ammazzare per conto mio e non ho bisogno di aiuto». E ancora: «Il cinema fa schifo, non riusciranno mai a fare Céline…». Eppure il successo di Bukowski sarà suggellato nel 1981 proprio sul grande schermo. Il film è Storie di ordinaria follia (dal nome della celeberrima raccolta di racconti) ed è stato diretto da un altro italiano, il regista Marco Ferreri. Accanto a una splendida Ornella Muti, c’era Ben Gazzarra a interpretare Chinaski-Bukowski. Ma la grande popolarità negli Stati Uniti arriva, però, solo nel 1987 con il film Barfly, adattamento cinematografico di un racconto dei suoi «dieci anni da ubriaco». Bukowski, comunque, non fece mai nulla per farsi apprezzare dagli americani. I suoi conclamati maestri erano autori europei come Céline, Dostoevskji, Hamsun…. O come John Fante, americano sì ma di origine italiana. Lui, che lo venerava, lo definiva «il nostro mentore, il nostro Dio…”.



Una volta, prima di lasciare questa vita nel 1994 a 74 anni, intervistato da Fernanda Pivano, Hank si lasciò andare a un esplicito canto d’amore per il Vecchio Continente: «Credo che l’Europa sia di un paio di secoli in anticipo sugli Stati Uniti. Credo che la gente sia più percettiva, sappia di più, credo che la cultura sia stata lì più a lungo. Gli europei afferrano la realtà più in fretta degli americani…».  

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