lunedì 28 aprile 2014

Gladiatori, patrioti e servitori "deviati" dello Stato: un libro da leggere sulle ''altre Gladio''






Annalisa Terranova

Si parla tanto, forse troppo, dell’operazione trasparenza sui documenti riservati che riguardano le stragi italiane. Non tutti applausi per il premier Matteo Renzi: c’è chi fa notare, infatti, che sommergere un Paese con scarsa memoria di carte e appunti può creare solo polveroni inutili a diradare le nebbie. E un polverone accolse anche, nel 1990, la rivelazione di Giulio Andreotti sull’organizzazione segreta chiamata Gladio. Ora Giacomo Pacini ricostruisce con paziente accuratezza in un libro importante la preistoria di Gladio, le organizzazioni di carattere analogo che dalla fine della guerra in poi sono state costituite sul territorio italiano fino a concentrare la sua attenzione sul cosiddetto Sid parallelo. Il libro si chiama Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia 1943-1991 (Einaudi) e parte dalla creazione dei nuclei clandestini coordinati dalla Sezione Calderini, reparto offensivo dei neonati servizi segreti del governo Badoglio di cui facevano parte ufficiali legati alla lotta partigiana. 

Perché dalla sezione Calderini? Perché i principali ufficiali dei servizi segreti responsabili di Gladio provenivano proprio da lì. Ad esempio il maggiore Lanfaloni, che per conto della società Torre Marina, da lui amministrata, acquistò nel 1954 i terreni in Sardegna su cui sarebbe sorto il centro addestramento di Gladio. Dal Fronte militare clandestino guidato da Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo proveniva anche Giovanni De Lorenzo che, da capo del Sifar, diede il via libera alla struttura Gladio. I presupposti ideologici sulla cui base nascono le strutture studiate da Pacini risalgono al dissidio in seno alla resistenza tra la componente dei partigiani cattolici e liberali della Osoppo e i garibaldini di orientamento comunista. Gli osovani si convinsero, in particolare dopo l’eccidio di Porzus, che la loro lotta non si sarebbe esaurita con la cacciata dei nazisti ma che doveva continuare in funzione anticomunista per impedire ai titini di entrare a Trieste (una convinzione talmente forte che vi furono anche contatti tra la Osoppo e la Decima Mas a fine febbraio del 1945 con la mediazione di Antonio Marceglia, l’affondatore delle corazzate inglesi Queen Elizabeth e Valiant). 

Furono le turbolenze nell’area del Nord est e in particolare i drammatici quaranta giorni di Trieste (con le violenze dei militari slavi nelle case dei triestini) a motivare la scelta di creare presso il ministero degli Interni l’Ufficio zone di confine che distribuiva fondi alle strutture, anche a carattere armato, che si impegnavano a lottare contro la minaccia slavo-comunista. Il principale referente dell’Ufficio zone di confine era Giulio Andreotti. Tra le strutture seguite dall’Uzc c’erano anche i gruppi clandestini creati dal colonnello Prospero Del Din che organizzò fin dall’autunno del 1945, in accordo con le autorità alleate, la prima struttura segreta di tipo stay behind sorta in Friuli e denominata “Fratelli d’Italia”. Dopo la morte di Stalin nella Venezia Giulia si chiude il periodo delle “Gladio antititine” e comincia l’organizzazione della Gladio antisovietica.

Renzo di Ragogna, che comparve nei 622 operativi di Gladio, ha raccontato al giudice Mastelloni di avere militato in una struttura segreta triestina chiamata Gruppi di Autodifesa, addestrata da ufficiali dell’esercito italiano e che riceveva le armi per il diretto interessamento del ministro della Difesa Taviani (le armi per “Trieste italiana”  erano smistate e occultate per il tramite dell’ex partigiano piemontese Enrico Martini Mauri. Del resto anche il Pci disponeva di una Gladio rossa con la missione di preparare il terreno alla slavizzazione di Trieste e dei territori circostanti. Un deposito di armi creato da Di Ragogna fu rinvenuto casualmente durante lavori di ristrutturazione della stazione di Trieste (25 agosto 1954): si trattava di 39 casse in cui erano nascosti centinaia di mitra, pistole, mitragliatrici e oltre 750mila munizioni. Da note riservate si apprende inoltre che il governo italiano veniva informato che nei Gruppi di Autodifesa operavano anche elementi ultranazionalisti vicini al Msi. Sulle loro richieste di finanziamento l’Ufficio zone di confine divenne più cauto dopo i tragici avvenimenti del 5 e 6 novembre quando vennero posti sotto accusa i circoli triestini di Cavana e Stazione dove erano presenti elementi pronti a tutto per difendere l’italianità di Trieste e che erano fuori dal controllo del Msi. 

In quello stesso periodo i partigiani bianchi avevano creato una struttura anticomunista addestrata alla guerriglia denominata Divisione Gorizia mentre nell’area udinese operava la Organizzazione di difesa italiana. La disciolta Osoppo si ricostituì nel dopoguerra con il nome “Volontari della Libertà” e poi Organizzazione O. Fu senz’altro quest’ultima l’organizzazione anticomunista segreta più importante sorta tra il 1945 e la nascita di Gladio (tra i compiti della struttura anche la schedatura di elementi filotitini). Fu l’ex repubblichino Franco Turco a spiegare che i capi della Organizzazione O erano tutti democristiani ma che nella “truppa” vi era uno svariato numero di ex fascisti, che il culmine della mobilitazione vi fu per le elezioni dell’aprile del 1948 quando furono “piazzati mitra nelle case dinanzi ai seggi”. Di rilievo anche il Movimento avanguardista cattolico italiano che faceva capo all’ex partigiano bianco Pietro Cattaneo tra i cui referenti illustri spiccano i nomi di Enrico Mattei e dell’arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster. Nel caso del Maci la rete militare occulta poteva contare, per nascondere le armi, anche sulle parrocchie. Tra le carte di Cattaneo, inoltre, vi era documentazione interessante sull’apparato militare del Pci e sul piano insurrezionale cui i comunisti avrebbero potuto dar vita con un ordine dall’alto. Il Maci (il cui ultimo congresso risale al 1957) agiva in pieno accordo con la Dc  e godeva della protezione della Chiesa al punto che il futuro papa Montini, divenuto nel 1955 arcivescovo di Milano, si rivolse agli avanguardisti cattolici invitandoli a non pensare di poter sciogliere le fila e deporre le armi.



E si arriva a Gladio (1956), struttura che sorge sotto l’egida della Cia attraverso un patto di collaborazione con il Sifar. Il Parlamento è all’oscuro di tutto, solo il ministro della Difesa Taviani è al corrente dell’operazione. Poi saranno informati anche il presidente della Repubblica Gronchi  e quello del Consiglio Antonio Segni. Nata come struttura che doveva attivarsi in caso di invasione, Gladio divenne negli anni Sessanta un’organizzazione con compiti diversi, attrezzata cioè anche per interventi interni (la Cia inviava materiale sulla contro-insorgenza che riguardava tecniche di guerra psicologica e propagandistica). Il primo “mistero” riguarda il ruolo del colonnello Aldo Specogna, ex partigiano Osoppo e responsabile dei gladiatori del Nord est. In seguito al ritrovamento nel 1972 del deposito di armi di Gladio (Nasco) ad Aurisina per limitare il potere di Specogna fu inviato al suo fianco il colonnello Giuseppe Cismondi il quale distrusse l’elenco dei mille gladiatori di cui Specogna disponeva (quelli resi noti da Andreotti, nel 1990, saranno solo 622). La tesi di Pacini è che Gladio era una struttura legale e giustificata dal contesto i cui compiti però, in particolare nell’area del Nord est, sconfinarono in territori diversi: in quell’area si addestravano infatti gladiatori pronti anche ad agire preventivamente contro l’opposizione. Dal ritrovamento del Nasco di Aurisina l’autore ricostruisce i rapporti ambigui tra elementi di Ordine Nuovo e i Nuclei per la difesa dello Stato organizzati sotto l'egida del Sid di Vito Miceli. Ciò che non torna sul deposito di Aurisina, e  che ha fornito la base di svariate ipotesi non verificate, è che il materiale era stato manomesso e parte di esso  risultava mancante. Pacini segnala anche lo strano caso del crollo psichico del brigadiere Nicola Pezzuto il quale sosteneva di avere informazioni segretissime su elementi di estrema destra in Veneto  (ciò guarda caso proprio dopo il ritrovamento del Nasco di Aurisina). L’episodio del deposito manomesso di Aurisina fu di tale gravità che venne ordinato subito dopo lo smantellamento di tutti i depositi segreti di Gladio, disposto dal generale Gerardo Serravalle suscitando la profonda irritazione degli americani. Serravalle, a sua volta, raccontò di Gladio in un romanzo di fantapolitica uscito nel 1994, Il consiglio delle ombre (Pironti), nel quale faceva riferimento a una struttura segreta composta da militari e civili da attivarsi in caso di invasione e che a un certo punto deviò dai suoi compiti originari e venne data in pasto alla stampa da un personaggio che cercava di rifarsi una verginità politica. Un’accusa rivolta dunque, in modo neanche troppo velato, a Giulio Andreotti. 

Com’è noto il magistrato Felice Casson sostenne che l’esplosivo della strage di Peteano (31 maggio 1972) provenisse dal Nasco di Aurisina. Tesi contraddetta dal pm Salvini. Centrali, per ricostruire l’intero contesto, le dichiarazioni di Vincenzo Vinciguerra (ex militante di ON che si autoaccusò della strage di Peteano) per il quale Ordine Nuovo era un'organizzazione che al suo interno non contava solo “sinceri camerati” ma personaggi che seguivano una “strategia dettata da centri di potere nazionali e internazionali, collocati ai vertici dello Stato”. Questo "centro di potere" sarebbe appunto costituito dai Nuclei di difesa dello Stato (o Sid Parallelo) che nell'area veneta facevano capo al colonnello Amos Spiazzi. Secondo l’autore di Le altre Gladio,  Andreotti avrebbe abilmente dosato le rivelazioni su Gladio proprio al fine di deviare l’attenzione da questa organizzazione e dalle sue “malefatte”. Un’indiretta conferma proviene dall’audizione dell’ex ministro Taviani in seduta segreta davanti alla Commissione Stragi: “Nel periodo dello sfascio del Sifar e della confusione del Sid (metà anni Settanta) erano stati assunti nei Servizi alcuni agenti di complemento e parecchi confidenti. 



Vennero definiti servizi paralleli e più tardi sono stati equivocati con Gladio, mentre con essa non avevano nulla a che fare. Dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo (1973) questi agenti di complemento vennero liquidati. Alcuni di essi diventarono schegge impazzite…”. Da notare che Piero Buscaroli nelle sue Memorie rievoca una conversazione con Taviani nella quale l’allora ministro degli Interni avrebbe assicurato al giornalista, che all’epoca dirigeva il quotidiano Roma, di essere al corrente che i fascisti non avevano fatto le stragi perché le stragi erano responsabilità del Viminale. Tuttavia Pacini documenta bene come, al di là dell’utilizzo di schegge impazzite per azioni terroristiche che avevano come finalità la stabilizzazione dell’assetto politico vigente, circolasse negli ambienti della destra (basti pensare al convegno dell’Istituto Pollio all’hotel Parco dei Principi  nel 1965 e alle successive iniziative in linea con quel convegno) la tentazione di favorire un blocco d’ordine con i militari in funzione anticomunista: una forma di patriottismo estremista che non teneva conto o sorvolava sul suo essere conforme ai desiderata della Cia e della Nato e dunque funzionale al mantenimento di una sovranità limitata dell’Italia. Una tentazione che ha finito con il distruggere completamente le aspirazioni sociali e popolari che pure erano presenti nel primo Msi e che hanno cooperato a mantenere i postfascisti nell’area ghettizzante della destra conservatrice. Di sicuro il contesto della guerra fredda giustificava questi ragionamenti e non consentiva forse operazioni politiche più “ardite”. Ma è bene favorire una rilettura ragionata di quella fase per evitare inutili, agiografiche ricostruzioni della destra politica negli anni Settanta, una storia che ci rimanda episodi di attivismo generoso, di eroica sopravvivenza all’accerchiamento “nemico” ma anche fasi di grande ambiguità sulle quali non è stata fatta fino in fondo chiarezza, proprio mentre giovani vite di ragazzi innocenti venivano spente dall’odio antifascista alimentato dalla certezza che dietro le stragi c’erano le mani dei “neri”.


sabato 19 aprile 2014

Così si conclude la trilogia della depressione di Lars von Trier



Federico Magi

Dall’ossessione orrorifica, onirica e metafisica in Antichrist, passando per il vuoto emotivo e la conseguente distruzione del pianeta in Melancholia, si arriva alla dimensione filosofica ed esistenziale dell'ossessione del sesso di Nymphomaniac. Si chiude dunque “la trilogia della depressione” ideata da Lars von Trier, tanto più buia e oscura quanto i motivi profondi di questo suo ultimo cinema, ma sempre degna d’ogni ribalta scandalistica prestandosi comunque a dibattito e discussione, risultato finale d’un cinema sempre in cerca di un feedback sensazionalistico che ci riporta ogni volta alla medesima conclusione: ma quanto è paraculo il buon vecchio Lars? Nymphomaniac non solo non attenua ma in qualche modo rafforza la sensazione che il regista danese sia il solito furbacchione che riesce, ogni qual volta porta in sala una sua nuova pellicola, a far parlare e tanto di sé. Diviso in due parti (la seconda sarà nelle sale a breve) ma colpito fortemente da una censura concordata e autorizzata, suo malgrado, dallo stesso von Trier, Nymphomaniac arriva in Italia in versione evidentemente ridotta rispetto all’originale berlinese, ma restituisce lo stesso una compiuta idea di sé allorché il regista danese ci propone un’opera efficacemente strutturata e divisa in capitoli, come aveva fatto in precedenti opere, partendo da un’idea un po’ ingannevole e forse fuorviante, rispetto alla complessa analisi che deriva dalla visione, ovvero che il porno, genere commercialmente fortunato ma artisticamente scadente, nelle mani di un vero autore come lui può assurgere se non proprio ad opera d’arte quantomeno a materia d’interesse cinematografico e culturale più elevata del consueto. E se ciò potrebbe essere vero nell’apparenza della forma, in quanto il sesso è centrale ed esibito a piene mani nella pellicola, nella sostanza Nymphomoniac è un’opera dalle ambizioni filosofiche e dal retrogusto – in continuità con la stragrande maggioranza dei suoi lungometraggi – morale e nemmeno troppo nascostamente moraleggiante.



Come in Antichrist e Melancholia, von Trier ci introduce alla vicenda narrata attraverso un incipit ricercato e finemente costruito, in cui la macchina da presa insegue, setacciando al dettaglio, i vicoli solitari di un quartiere periferico in una giornata fredda e nevosa e si sofferma, mentre infuriano improvvise le note hard dei Rammstein, su Joe, una donna insanguinata e distesa a terra, successivamente soccorsa da Seligman, un anziano signore uscito a far la spesa. Seligman la porta in casa sua e le offre un thè caldo, e qui Joe inizia a raccontare della sua vita, dicendo di essere una ninfomane. E qui comincia un lungo flashback, intervallato da improvvisi ritorni al presente intramezzati da riflessioni esistenziali su eros e thanatos, sul senso di colpa e sulla morale, sull’inevitabilità delle scelte e sulla sessualità maschile e femminile, conditi da divagazioni psicanalitiche, riflessioni sulle sequenze numeriche legate al sesso e alla musica, e da continui rimandi metaforici all’arte della pesca con la mosca. Come al solito Lars von Trier mette tantissima carne al fuoco e in conseguenza di ciò non sempre tutto scorre chiaro e lineare, denotando ancora una volta come la scelta di piegare le canoniche vie narrative al suo incandescente magma autoriale sia più importante di servire una pietanza cinematografica ad uso e consumo di tutti. In ciò Nynphomaniac resta nel solco del suo cinema precedente, ma se in questo caso il regista è ben attento a restare, rispetto ad Antichrist e Melancholia, su un piano eminentemente fisico e fenomenologico, l’opera ha possibili cali d’interesse nella reiterazione di eventi fin troppo simili e ravvicinanti sfiorando più volte il tedio e l’eccessiva connotazione morale, fotografando l’apparente vuoto di un’anima che, almeno in questo primo volume – d’obbligo non dare un giudizio definitivo, vista la struttura proposta – trasmette un infinito senso di solitudine e una moltitudine di sensi di colpa che non sembrano cercare espiazione attraverso il sesso ma che il sesso seriale e anaffettivo comunque ingigantisce.
E qui c’è lo sguardo moralistico di von Trier che osserva palesemente la sua bellissima e  svuotata protagonista, ossessionata dal sesso e in un certo senso terrorizzata dall’amore, espresso efficacemente solo a un padre tanto amato quanto poco influente nella vita e nelle scelte della ragazza. Questo primo volume in effetti ci parla della Joe prima adolescente e poi ventenne, e solo nella seconda parte vedremo in azione la Joe adulta le cui scelte, parrebbe dall’andamento del film, dovrebbero confermare se non rafforzare l’andamento della prima metà del film. Difficile dunque ricondurre efficacemente a un giudizio univoco la complessità di un’opera come questa avendone visto solo una parte, pur significativa.  Ciò che è evidente è che quello del regista danese resta un cinema fortemente autoriale, certamente di qualità non comune, sia dal punto vista visivo con i suoi rimandi ai grandi cineasti europei (Bergman in particolare, ma non soltanto), che nella scelta della musica (suggestive le alternanze dall’hard alla classica) e degli attori, tra i quali spicca Stacy Martin (la Joe ragazza), la bellissima giovane co-protagonista e Uma Thurman che in una fugace ma folgorante apparizione vale da sola il prezzo del biglietto. Sospendendo il giudizio completo in attesa del secondo volume, è comunque possibile affermare che Nymphomoniac sia un film non privo d’interesse nonostante alcune incongruenze e la possibile noia che può sopraggiungere in alcuni frangenti. Certo, se si va oltre la sua pur palese rappresentazione materiale è un film che sembra ricercare chiavi di lettura di un fenomeno meno banali del consueto. Per andare, è prevedibile, ancora oltre, a indagare l’anima umana in uno dei suoi tanti anfratti oscuri. Che sia tutta un’ossessione autoreferenziale? Che sia solo un altro modo furbo per far parlar di sé? A conti fatti è poco importante: Lars è così, prendere o lasciare. Può disturbare o irritare, ma alla fine, se si è amanti della settima arte, si è sempre curiosi di andare al cinema per vedere un suo film.
Regia: Lars von Trier. Soggetto e sceneggiatura: Lars von Trier. Fotografia: Manuel Alberto Claro. Montaggio: Molly Marlene Stensgard. Interpreti principali: Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgard, Stacy Martin, Shia LaBeouf, Uma Thurman, Willem Dafoe, Christian Slater, Jamie Bell, Mia Goth, Sophie Kennedy Clark, Connie Nielsen, Michael Pas, Jean-Marc Barr, Udo Kier. Scenografia: Simone Grau Roney. Costumi: Manon Rasmussen. Produzione: Zentropa Entertainments, Zentropa International, Slot Machine, Zentropa International France, Caviar, Zenbelgie, Arte France Cinéma. Musica: Rammstein, D. Shostakovich, C. Saint-Saëns, Steppenwolf, G.B. da Palestrina, C. Franck, J.S. Bach, Talking heads, C. Gainsbourg, R. Wagner, L. van Beethoven, F. Haendel, W.A. Mozart.
Origine: Danimarca/Germania/Francia/Belgio, 2013. Durata: 118 minuti.


venerdì 11 aprile 2014

Per chi ha voglia di ricordare: trent'anni fa nasceva la rivista La Contea





Annalisa Terranova


Nella sua storia del Fronte della Gioventù (ed. Eclettica) Alessandro Amorese si sofferma sui raduni della Contea che nella prima metà degli anni Ottanta costituirono la proiezione all'esterno del Fronte romano. Sono pagine accurate e che ho letto volentieri, per la mole di ricordi personali che portano con sé. Il primo raduno della Contea risale al 1982, alla Quercia del Tasso al Gianicolo. C'erano ragazzini cui dare motivazioni dopo la caccia alle streghe seguita alla strage di Bologna. Affiorarono temi come l'ecologia e il degrado dei quartieri. In quegli anni si lavora a un progetto importante: superare l'immagine stereotipata del neofascista chiuso in un ghetto di orgoglio e risentimento. 

Nei raduni successivi si parlerà molto di Europa, tantissimo di scuola, saranno proiettati film, saranno lette poesie e ci saranno concerti (il modello dunque era e restava quello dei Campi Hobbit). Radio radicale trasmise in diretta il dibattito del quarto raduno (realizzato al Pincio, dal 4 al 5 ottobre del 1985). Tutto questo progetto fu supportato dalla rivista La Contea (il cui primo numero vide la luce esattamente nella primavera di trent'anni fa, era infatti il marzo del 1984). Le riunioni di redazione si facevano a casa di Andrea Augello. Marina Maugeri era la disegnatrice (memorabile la sua vignetta su Marco Tarchi illuminato-illuminista che passa il tempo a guardarsi nello specchio apparsa sul primo numero) ma scriveva anche lunghi e interessanti articoli sui beni culturali da tutelare (il tema della bellezza italiana come terreno identitario da coltivare non l'hanno inventato i politici del duemila...). Tony Augello pontificava fumando Marlboro, lui scriveva lunghi articoli sul Msi e su come sarebbe dovuto diventare il partito. Ma non lo chiamava il partito lo chiamava il Movimento (un linguaggio che ci rassicurava tutti). Daniele Milani si cimentava con la critica cinematografica. Vincenzo Fratta curava con pignoleria maniacale la parte grafica, gli abbonamenti, le spedizioni, faceva i titoli, cercava le foto. Faceva il proto e il caporedattore, in pratica. Isabella Rauti scriveva di temi femminili. A me toccavano gli approfondimenti culturali con cipiglio evoliano un po' troppo accentuato (articoli esagerati, insomma) per la qual cosa Tony mi aveva affibbiato il soprannome di Pica della Mirandola. 

Nonostante il livello artigianale della rivista (che in ogni caso mise a segno alcuni colpi giornalistici notevoli per una testata sorretta più dall'entusiasmo che dalla professionalità: dialogare con Luciana Castellina, intervistare Venditti, Branduardi e Battiato, allacciare rapporti con Giampiero Mughini e Massimo Fini) La Contea arrivò anche nelle edicole, vendeva un migliaio di copie e aveva in tutta Italia duemila abbonati. Numeri piccoli, certo, ma che confrontati con quelli di altre testate d'ambiente appaiono più che rispettabili. La rivista gravitava nell'ambiente rautiano ma era mal vista, come ricorda Andrea Augello nella sua testimonianza sul libro di Amorese, dal gruppo storico della corrente. La guardavano con simpatia Silvano Moffa, Antonio Parlato e Paolo Agostinacchio oltre ai rautiani più giovani che in tutta Italia fecero de La Contea la loro bandiera. 

Di recente ho ricordato quel periodo con Andrea Augello. Gli ho detto: ma perché partimmo col primo numero con l'attacco a Marco Tarchi, che bisogno c'era, che ci aveva fatto? E lui mi ha ricordato il motivo: la Nuova Destra attirava giovani energie verso la metapolitica, il Fronte ne aveva bisogno per la militanza attiva. Io ho detto: aveva ragione Tarchi, a conti fatti. Andrea ha detto: no, avevamo ragione noi. In ogni caso - ho aggiunto - sarebbe bello tornare a realizzare una rivista pensata da noi, senza condizionamenti, libera, provocatoria, insomma una rivista con un'anima (questa fu la definizione che diede de La Contea Giuseppe Tatarella). Andrea mi ha risposto: ma nessuno legge più niente, Annalisa. Eh... E se fosse questo il problema, il vero problema?

giovedì 10 aprile 2014

Cinecittà si mostra. Negli storici Studios un percorso tra sogni e lontane ambizioni






Annalisa Terranova

Merita un’attenzione particolare il percorso espositivo Cinecittà si mostra che ripercorre le tappe della storia di quella che è stata definita la “fabbrica dei sogni” con percorsi guidati e strutture e set permanenti. Cinecittà aveva aperto per la prima volta le porte al grande pubblico nel 2011, in occasione del suo 74esimo compleanno. L’iniziativa, per quanto ancora poco pubblicizzata, sta dando i suoi frutti e potrà forse risollevare in parte i destini di una struttura significativa della storia culturale del Paese. All’ingresso il visitatore viene accolto dalle statue usate per le ambientazioni e le scene di film famosi (tra cui quelle del Gladiatore), vi è poi una sezione dedicata a Federico Fellini, una stanza della sceneggiatura, una ricostruzione in videografica dei costumi di film storici, ed è infine possibile passeggiare all’interno dei suggestivi set Roma Antica e Broadway, il primo scelto da Ligabue per il videoclip del suo singolo “Per sempre” e il secondo utilizzato da Martin Scorse per il film Gangs of New York. Momento clou della visita è l’ingresso all’interno della sala comandi del sottomarino ricostruito per il film U-571 di Jonathan Mostow.



Quest’anno la mostra è divenuta permanente e si è arricchita della sezione “Perché Cinecittà”, dedicata alla nascita degli Studios ricostruita attraverso immagini, video, locandine che rimandano al periodo della fondazione e della prima straordinaria crescita dal 1936 al 1945. Sedicimila metri quadrati di superficie destinati dal regime fascista a diffondere nel mondo “la luce della civiltà di Roma” così come recitava il manifesto pubblicitario degli stabilimenti di Cinecittà. L’inaugurazione, nell’aprile del 1937, viene raccontata dai cronisti in modo aulico e con toni retorici che a distanza di decenni fanno sorridere. Una grandinata infatti accolse l’arrivo del Duce nella struttura ma, appena Mussolini mise piede nell’immenso cantiere, tornò a splendere il sole. Così racconta l’episodio Alberto Consiglio sulla rivista “Cinema”: “Sino a pochi istanti prima che il Duce entrasse nel nuovo cantiere dove la fatica produttiva s’iniziava, scrosci violenti di pioggia e di grandine sembrava volessero ricordare alla folla dei presenti le bufere che si erano dovute attraversare. Ma all’arrivo del Capo ecco splendeva, in un cielo purissimo, il più fulgido sole romano, quasi a benedire il lavoro ardente degli uomini”.



Le attese così entusiasticamente dipinte non furono deluse. Nel suo Cent’anni di cinema italiano Gian Piero Brunetta fornisce alcune cifre significative che vanno lette però tenendo presente che nel 1938 viene varata una legge protezionistica che blocca la produzione straniera al fine di assecondare sul piano interno quella che venne definita una vera e propria “baldoria produttiva”. “Dal 1938 al 1940 – scrive Brunetta – gli incassi della produzione nazionale passano dal 13 al 34%, ma già nel 1942 superano il 50% mentre quelli relativi alla produzione americana, senza sparire del tutto, scendono dal 63% al 22. In proporzione cresce il numero di film prodotti: nel 1938 sono 45, nel 1940 86, nel 1941 91 e senza raggiungere l’obiettivo di 120, fissato nel 1942 dal ministro Pavolini, nel momento più duro della guerra si sfiora quota cento con 96 documentari e nel 1943 il numero di film realizzati è superiore alla sessantina”. Il cinema diviene lo spettacolo per eccellenza e Cinecittà, soprattutto negli anni della guerra, diviene il punto di confluenza di “innumerevoli fughe oniriche”. Che Mussolini fosse il vero regista e motore di tutta la macchina dei sogni lo dimostra del resto un episodio poco conosciuto e ciò l’incontro tra il Duce e la grande regista tedesca Leni Riefenstahl alla quale Mussolini chiese di girare un film sulla bonifica delle paludi pontine. Invito che venne cortesemente respinto dall’interessata alle prese con le avances di Hitler e di Goebbels. 


sabato 5 aprile 2014

Omaggio a Jacques Le Goff. L'Europa è creatività



Jacques Le Goff

L'Europa non è vecchia, è antica... La scelta per l'Europa non è quella tra tradizione e modernità. Consiste nel buon uso delle tradizioni, nel ritorno alle eredità come forza di ispirazione, come punto d'appoggio per mantenere e rinnovare un'altra tradizione europea, quella della creatività. Uno dei demoni malvagi dell'Europa è stata la tendenza a confondere troppo spesso la civiltà europea con la civiltà universale, il volere un mondo a propria immagine. Se l'Europa vuole essere un modello per il mondo moderno, deve rispettare gli altri, aprirsi agli altri. E' aprendosi che, fin dai tempi dei Greci, l'Europa ha fatto grandi cose.

(Brano tratto da "L'Europa medievale e il mondo moderno", Laterza 1994)

Omaggio a Jacques Le Goff. Chi era veramente San Francesco?




Jacques Le Goff

Quello che a me sembra il vero San Francesco può essere definito sulla base di alcuni valori, di una posizione nel contesto storico e di due tratti essenziali profondamente originali. I valori sono l'umiltà (i Francescani sono Frati Minori), la povertà, la cortesia - l'amante di Francesco, "trovatore di Dio" segnato dal lirismo cortese, è Madonna povertà - la mendicità piuttosto che il lavoro manuale, il disprezzo del denaro (di cui non voleva curarsi più che dei sassi) della ricchezza e del potere. Egalitarista, egli combatte tutti coloro che dominano, i "prelati". Pensatore e attore del suo tempo, un tempo che è come il nostro, non direi un'epoca di crisi ma un'epoca di mutamento, agli sbandamenti delle innovazioni, all'amore per il denaro e per la ricchezza, al feticismo dei libri e del potere intellettuale, egli oppone un fermo no. E' un resistente. Ma al movimento della società, egli raccomanda l'apertura, l'adattamento, l'accettazione. Vuole solamente moralizzare, spiritualizzare la novità. Ama la novità e ai suoi tempi, con intenzione elogiativa, è stato definito un santo nuovo. Tra le sue due originalità profonde, ammirevoli, vi è anzitutto la letizia. E' un santo che ride, che si contrappone al monaco tradizionalmente definito come colui che piange. Raccomanda ai suoi frati, ai suoi discepoli, a tutti gli uomini e a tutte le donne di essere per quanto possibile hilari vultu, con il volto ridente. E' un apostolo della gioia, della felicità, della fiducia e della speranza. Il secondo tratto è l'amore per tutti gli esseri, per tutta la natura, per tutte le creature di Dio, comprese le più umili e le più terrificanti come la morte. Egli abbraccia tutta la creazione, è il cantore di una universalità fraterna, di un ideale ecologico cristiano che ha espresso nello stupendo Cantico di Frate sole e di tutte le sue creature

(Brano estratto da "Cinque personaggi del passato per il nostro presente. Buddha, Abelardo, san Francesco, Michelet, Bloch", Ibis 2006)

Per sapere tutto (o quasi) su Gualtiero Jacopetti, il regista che stava troppo avanti



Luciano Lanna

Con questo Gualtiero Jacopetti. Graffi sul mondo (Edizioni Il Foglio, pp. 340, euro 16,00) Stefano Loparco ha realizzato una cosa che si attendeva da anni: raccontare, spiegare e restituire alla storia del cinema (e non solo) il contributo fondamentale di un intellettuale italiano del Novecento tra i più creativi e irregolari. Graffi sul mondo è infatti la prima biografia dedicata al giornalista e cineasta scomparso nell’agosto del 2011 a novantadue anni d’età, quasi uno Junger all’italiana, che in maniera disincantata e appassionata a un tempo ha attraversato come pochi il secolo scorso. Autore di film come Africa addio o Mondo cane, pellicole che hanno trasformato la modalità di raccontare le cose attraverso le immagini, Jacopetti è stato un figlio inquieto della provincia italiana, attratto sin dall’infanzia dall’avventura e dalla bellezza, insofferente alle regole e al conformismo oltre che refrattario alle mode. La sua tecnica di fare cronaca giornalistica, prima, e cinema poi, ha aperto la strada a un nuovo modo di raccontare le cose, con proseliti, seguaci e schiere di fan in tutto il mondo. Basti pensare che una voce specifica, “Mondo cane”, è presente nel raffinato e autorevolissimo Dizionario Snob del Cinema dei due critici cinematografici statunitensi David Kamp e Lawrence Levi (ed edito in Italia da Sellerio): “Nel 1962 anticipò di decenni gli shock documentari del network Fox… In era pre-videoregistratore l’etichetta Mondo divenne sinonimo di trasgressione cinematografica, determinando un profluvio di imitazioni…”.



Dello jacopettiano "Mondo movie", Loparco ci racconta proprio tutto, dalle matrici nel lavoro cinegiornalistico del giovane Gualtiero, all’impatto sul pubblico. Gli anni Cinquanta e Sessanta, quelli in cui l’ex volontario di guerra Jacopetti dà espressione – dopo aver conosciuto Leo Longanesi, Indro Montanelli e Luigi Barzini – al suo giornalismo, sono quelli dei cinegiornali, i settimanali d’informazione che, come allora stabiliva la legge, anticipavano la proiezione dei film al cinema nel momento tra la fine e l’inizio del film in programma che si chiamava – come da lucetta rossa all’ingresso - “attualità”. Chiusa infatti la grande stagione del Giornale Luce (1927-1945) con la fine del fascismo, sono tenute a battesimo nuove testate cinegiornalistiche: Settimana InCom, dove Jacopetti lavora tra il 1950 e il 1955, Europeo Ciac, dove si distingue tra il 1956 e il 1958, sino a Ieri, Oggi e Domani, dal 1959 in avanti… Jacopetti, nella sua veste di regista e di autore del commento parlato, trasforma via via il cinegiornalismo conferendogli un tono sempre più dissacratorio, irriverente e strafottente, cosa impensabile per i paludati telegiornali che dal 1954 andavano in onda sull’allora unico canale televisivo della Rai. L’esigenza è di fermare l’emorragia di spettatori dalle sale cinematografiche favorita dalla diffusione del mezzo televisivo. “C’è di più e di più profondo: a forza – scrive Loparco – di montare e rimontare immagini, tra una seduta del parlamento e una sfilata di moda, l’inaugurazione di una bretella stradale e un evento sportivo, Jacopetti capisce che se i fatti godono di un loro status ontologico, esiste un modo per poterli reinterpretare senza incorrere nelle forche caudine del censore. Una zoomata su un particolare apparentemente insignificante, una pausa prolungata o un improvviso cambio nel tono della voce del commentatore e anche il più austero dei resoconti politici, svuotato del suo significato di facciata, diventa irrituale quando non propriamente buffo. Il gusto per lo sberleffo, la battuta al vetriolo, l’irriverenza verso il potere e le mode, tratti peculiari di Jacopetti, daranno vita a quel cinegiornalismo sfottente che riuscirà a scalfire l’egemonia dell’informazione istituzionale”.


Da giornalista della carta stampata Jacopetti nel 1954 aveva anche fondato e diretto un settimanale, Cronache, per la quale esperienza Sergio Saviane lo definirà “il padre spirituale dell’Espresso”. Lo stesso Eugenio Scalfari, nel suo La sera andavamo in via Veneto, ha raccontato l’episodio spiegando come nacque L’Espresso: “La redazione era proprio quella ereditata da Cronache, un settimanale abbastanza ben fatto e politicamente impegnato, che era stato fondato e diretto fino a pochi mesi prima da Gualtiero Jacopetti…”. Ecco quello che vi si leggeva, il 7 dicembre 1954, a firma proprio del direttore, in polemica con l’Italia democristiana: «L’autoritarismo non vuole uomini, ma solamente automi, non personalità sfuggenti e fluide, ma elementi semplici e docili, alla modellazione e alla collocazione... negli schemi e nelle strutture prefabbricate della società”. Perché Jacopetti non era di sinistra, tutt’altro, ma la sua avversione verso il moderatismo a tutela democristiana era totale. “L’Italia era ridotta a un immenso dormitorio – spiegherà – con la censura democristiana e una borghesia ipocrita pronta a scandalizzarsi per nonnulla. Così io mi divertivo mettendo in risalto il conformismo diffuso, la corruzione e la mancanza di cultura…”.




Di questo, Loparco ricostruisce tutte le fasi, sino all’idea nel 1959 di realizzare documentari per il grande schermo: “Il titolo è entrato nella storia e nell’immaginario: Mondo cane. I protagonisti anche: Gualtiero Jacopetti, già noto per i suoi cinegiornali, ma anche Paolo Cavara e Franco Prosperi, all’epoca poco più che trentenni, entrambi provenienti dal documentarismo naturalistico. A farli incontrare è un amico comune, il giornalista Carlo Gregoretti. Con Jacopetti aveva lavorato a Cronache tra il 1954 e il 1955. Con gli altri due era reduce da una spedizione subacquea nell’isola di Ceylon nel 1951-52”. Jacopetti era da poco reduce di un’esperienza cinematografica, aveva sceneggiato e scritto Il mondo di notte di Alessandro Blasetti (oltre che essere apparso come attore in Un giorno in pretura di Steno con Alberto Sordi). Franco Prosperi, infine, coinvolge nell’impresa anche un suo vecchio amico, Stanislao Nievo, pronipote di Ippolito Nievo, che dopo il liceo aveva abbandonato gli studi universitari per dedicarsi ai viaggi d’esplorazione nel mondo (diverrà un grande fotografo, sua ad esempio la solo foto a colori di Julius Evola, e negli anni Settanta sarà anche uno scrittore di libri di successo come Il prato in fondo al mare..).
Con questo gruppetto di amici si realizza Mondo cane che uscendo nella sale nel 1962 balzò in testa ai botteghini di mezzo mondo in breve tempo e la cui colonna sonora di Riz Ortolani, More, diverrà un successo internazionale cantata, tra gli altri, anche da Frank Sinatra. Seguiranno gli altri cinque film jacopettiani: La donna nel mondo (1962), Mondo cane 2 (1963), Africa addio (1966), Addio zio Tom (1971) e Mondo Candido (1975), di cui gli ultimi due non sono documentari va cinema nel senso di fiction. Loparco elenca, inoltre, tutti gli altri film, di altri registi, che si ispirarono allo stesso filone: da Mal d’Africa (1967) di Stanislao Nievo a Ultime grida dalla savana (1975) di Antonio Climati e Mario Morra.
Loparco racconta poi l’abbandono del cinema, nel 1975, da parte di Jacopetti e tutta la sua lunga vita straordinaria: gli anni della “dolce vita” (non a caso Fellini si ispirò a lui per la figura interpretata da Mastroianni nel film del 1960), i viaggi, le collaborazioni giornalistiche per il Corriere della Sera e per il Giornale del suo amico Montanelli, l’impegno politico a destra, la riscoperta della sua opera negli anni Novanta, il suo grande amore per la bellissima attrice Belinda Lee, morta in un incidente mentre lui guidava in California nel 1961, i suoi problemi giudiziari, il suo pensiero… Ma nel 1975, come dicevamo, si ritira, quasi avesse capito che precorreva troppo, che stava troppo avanti. E si mise, serenamente, in ascolto del mondo...
“Quello che più contra è che il suo cinema – si legge in Graffi sul mondo – ha imposto un nuovo modo di pensare l’esperienza cinematografica, ha assicurato alla cultura internazionale un lemma, appunto quel ‘mondo’, che è ancora oggi un vocabolo attestante l’italianità di un filone, ha contaminato generi diversi, dalla letteratura (James Graham Ballard), l’animazione (Tony Pagot), ai media contemporanei (i reality). E non mancano i riconoscimenti. È il caso, tra gli altri, degli U2, che nel corso del loro tour mondiale Zoo Tour del 1992-93 hanno proiettato sui maxischermi alcuni spezzoni tratti dai suoi film, del cantante americano Mike Patton che, nel 2010, gli ha reso omaggio pubblicando un album intitolato Mondo cane, mentre lo stesso Jacopetti è stato chiamato nel suo ultimo anno di vita, il 2011, alla Biennale di Venezia. E, due anni dopo la sua scomparsa, all’uscita nel 2013 di Django Unchained di Quentin Tarantino (da sempre fan del modo jacopettiano di tagliare le immagini e fonderle con la musica) si è potuto leggere: “Tarantino non ha mai fatto segreto di aver attinto a Jacopetti e al suo Addio Zio Tom. E lo stesso attore Samuel Jackson ha dichiarato d’essersi ispirato proprio a quel film per interpretare Django, lo schiavo di colore appartenente al villain Leonardo DiCaprio”.


mercoledì 2 aprile 2014

Gabriella Ferri: la rabbia nel cuore col senso della bellezza e della tragedia



Luciano Lanna

«Ognuno ha tanta storia / tante facce nella memoria / tanto di tutto / tanto di niente / le parole di tanta gente / Tanto buio tanto colore / tanta noia tanto amore / tante sciocchezze / tante passioni / tanto silenzio / tante canzoni…». «Ognuno ha tanta storia»: lo cantava Gabriella Ferri nel 1973, e le stesse parole sono diventate, nel 2000, il titolo di un bel libro edito da Marsilio e firmato dallo scrittore Carlo Mazzantini. Lo stesso che, nel 2005, poco prima di morire, ricordava un episodio dei primi anni Settanta: «C’era anche la cantante Gabriella Ferri, allora giovane e attraente, che aveva debuttato al Bagaglino, per la quale lui aveva scritto quella canzone, Sempre, così carica di nostalgie che mi fece pensare: questa è un’altra canzone repubblichina». È come se Mazzantini si lasciasse andare all’immagine di un momento di felicità mentre la descrive in quello che è stato il suo libro di congedo, L’ultimo repubblichino (Marsilio, 2005). E il «lui» cui si riferisce è Mario Castellacci (1924-2002), brillante giornalista, autore teatrale, televisivo e cinematografico, ma soprattutto indimenticato protagonista della “via italiana al cabaret” rappresentata dal Bagaglino. L’episodio riferito vede i due ex ragazzi di Salò una sera a cena «davanti ad un paio di bottiglie di Dolcetto d’Alba» a parlare di quando erano giovani e di canzoni che hanno accompagnato la storia dolce e amara di anni nei quali «si poteva scegliere la parte sbagliata per nobili motivi e quella giusta per calcolo e opportunismo…». A Mazzantini Sempre ricordava, insomma, lo stesso spirito dell’autoironica Canzone strafottente (quella che fa «Le donne non ci vogliono più bene») il cui autore è lo stesso Castellacci, è viene definita «il nostro manifesto in versi, la sola canzone nata direttamente dalle nostre file, su frasi che volavano qua e là fra i nostri commilitoni…». E Sempre, interpretata dall’inconfondibile voce di Gabriella Ferri, evoca nello scrittore romano le stesse sensazioni della canzone di tanti anni prima, sensazioni forse difficili da spiegare: «Anche tu così presente / così solo nella mia mente / tu che sempre mi amerai / tu che giuri e giuro anch’io / anche tu amore mio / così certo e così bello / Anche tu diventerai come un vecchio ritornello / che nessuno canta più / come un vecchio ritornello».


Il disco a 45 giri Sempre, edito nel ’73 da I dischi dal Bagaglino, resta prima in hit parade per ben 18 settimane. Gabriella Ferri impazza alla radio e a luglio Rumor dà vita al suo quarto governo. È l’anno della strage di Primavalle, che rimarrà sciagurato simbolo dell’odio politico, e del colpo militare di Pinochet in Cile. Anche per distrarsi da questo clima, gli occhi della maggioranza degli italiani sono puntati sul varietà televisivo che ha per protagonista Gabriella Ferri – insieme a Enrico Montesano, Pippo Franco, Pino Caruso e Oreste Lionello – e che si intitola Dove sta Zazà (dal nome del brano napoletano del dopoguerra rilanciato in motivo di successo dalla stessa Ferri), di cui Sempre è anche la sigla finale. Ne basteranno quattro puntate, in quel lontano ’73, affinché l’artista romana si imponga al grande pubblico con il suo inconfondibile talento, una efficace quanto naturale impronta di capacità istrionica e spiccata personalità, doti spesso estranee alle pur avvenenti ma stereotipate soubrettes che prolifereranno in una televisione che vivrà di repliche, replicanti e veline senza più ritrovare, se non occasionalmente, la magia e la commozione di quegli anni. Non è un caso se, nel giugno del 2005, a poco più di un anno dalla morte di Gabriella Ferri, avvenuta per suicidio il 3 aprile 2004 (la famiglia, comunque, parlerà di incidente), Patty Pravo decide di aprire il suo tour estivo con un’anteprima cantando e dedicandole proprio la sua canzone più famosa, Sempre. D’altronde, era diverse eppure simili, la “ragazza del Piper” e la “ragazza del Bagaglino”: algida e distaccata la prima, almeno quanto scanzonata e guascona la seconda. Sia la Ferri che la Pravo si contenderanno l’appellativo di “Edith Piaf italiana”. Della cantante francese (1915-1963) di Non, je ne regrette rien, hanno entrambe l’anticonformismo e voci caratterizzate da mille sfumature, rauche e dolci al tempo stesso. Proprio in quell’occasione, Patty Pravo commenterà: «Gabriella Ferri è stata uccisa dal sistema. Un sistema che ti schiaccia se non sei considerata vincente o se si è scomodi. Non era una persona facile, ma i veri artisti andrebbero tutelati e non accantonati».


Nata e cresciuta nel rione romano di Testaccio, poi trasferitasi in via Etruria vicino a San Giovanni, Gabriella era figlia di Vittorio, un commerciante ambulante di dolci, ammiratore della canzone in dialetto romanesco. L’occasione la fece incontrare con Luisa De Santis (figlia del regista Giuseppe, l’autore di Riso amaro) e ne diviene molto amica: insieme danno vita a un duo, con il nome di Luisa e Gabriella, che cerca di riscoprire il repertorio folk romano. Iniziano così i primi spettacoli, basati sul repertorio tradizionale della canzone romanesca come Barcarolo romano e su popolari canti da osteria, come La società dei magnaccioni. Una sera, all’Intra’s Club di Milano vengono notate da Walter Guertler, che le mette sotto contratto e pubblica il loro primo 45 giri con la Jolly: proprio una rielaborazione de La società dei magnaccioni. 
Poi, per Gabriella Ferri, gli anni Settanta sono quelli dei successi, della televisione, dei concerti… Quindi momenti di difficoltà dovuti alla sua depressione. Le sue due ultime uscite artistiche di rilievo avvengono nel 1996 al Premio Tenco di Sanremo dove si esibisce con la Piccola Orchestra Avion Travel e nel luglio del 1997 con un concerto a Villa Celimontana a Roma davanti a 7mila spettatori (mentre se ne aspettavano solo un migliaio). Nel 1997 incide l’album, Ritorno al futuro, poi il ritiro definitivo dalle scene, anche a causa di ricadute nella grave depressione che la tormentava da anni. La sua affermazione in ambito internazionale era però avvenuta però con un album dal titolo Remedios (1974), titolo della canzone omonima contenuta nell’album, che vedeva Gabriella impegnata in brani senza età che facevano parte del patrimonio tradizionale dei paesi dell’America Latina, dalla Spagna a Cuba, al Messico e di ritorno all’Italia: Grazie alla vita (testo italiano proprio di Gabriella Ferri sulla musica della cilena Violeta Parra), La paloma, Cielito lindo


Il suo testamento spirituale è forse rintracciabile nella lunga raccolta di Canti DiVersi dove, tra ritmi jazz, tanghi e flamenchi, con un incedere interpretativo e voce struggente che ricorda da vicino Amália Rodrigues, interpreta canzoni sue e di autori celebri come Paolo Conte (nell’autoironica Vamp), Luigi Tenco (Lontano lontano), Ennio Morricone (Stornello dell’estate). Ma ancor più in brani come Una donna sbagliata, Sono partita di sera, È scesa ormai la sera. Nel 2007 un omaggio postumo: la sua canzone, Remedios, viene inserita nella colonna sonora del film Saturno contro di Ozpetek, e nell'album della colonna sonora del film.


Quel 3 aprile del 2004, dieci anni fa, alla notizia della sua morte, chi scrive era vicedirettore del quotidiano L’Indipendente, tornato nelle edicole da soli tre giorni. E telefonò subito a Pippo Franco chiedendogli gli ricordare l’amica scomparsa quella mattina. La bella lettera-editoriale, “Cara Gabriella”, è stata poi inserita da Pippo Franco nel suo libro autobiografico La morte non esiste (Piemme, pp. 180, euro 15,00). «Ho davanti a me – annotò lì l’attore – le foto del mio primo spettacolo con te, quando il Bagaglino era ancora una cantina da carbonari, quando il cabaret non si chiamava cabaret, quando eravamo capaci di esaltarci di fronte a un pubblico, allora non numeroso, che ci esaltava. Lo spettacolo si chiamava La pera è matura. Ma noi non eravamo ancora maturi per affrontare la superficialità di un mondo che sarebbe andato, via via, degradandosi per riconoscersi soltanto nei beni di consumo, che noi allora, malgrado le esigue finanze, non rincorrevamo di certo. La rabbia nel cuore, il senso della bellezza e della tragedia che avevi dentro e che hai espresso nelle tue canzoni traghettando nella nostra epoca una tradizione che, altrimenti, sarebbe andata perduta, non è più di questo tempo, fatto di quiz, di pubblicità e di grandi fratelli, che non ti è stato riconoscente…». Sì, la rabbia nel cuore con il senso della bellezza e della tragedia. Una delle immagini migliori per ricordare Gabriella Ferri.

martedì 1 aprile 2014

Eresie dalla parte della legalità: il caso Catania


Marco Iacona

Città d’utopia, con sottotitolo “Iniziative, analisi, dibattiti, sogni fra le città del sud” è stato un periodico uscito dal 1992 al 2002, dal ’95 edito da Rubbettino. Con parole del suo direttore, Antonio Pioletti, si prefiggeva un triplice scopo: era strumento d’analisi del blocco sociale che governava i processi politici, dava voce alle associazioni costituite sul territorio nei quartieri difficili, infine rendeva pubblici atti e documenti quasi del tutto ignorati dalle redazioni dei giornali. Naturalmente si occupava di mafia. Tra i collaboratori Giambattista Scidà (1930-2011), «militante della democrazia» così lo appellava chi gli stava vicino, intellettuale prestato alla magistratura e a lungo presidente del tribunale dei minori di Catania. Osservatorio privilegiato di fatti e misfatti.
La sua missione per lungo lunghissimo tempo fu quella di critico e teorico di una società più giusta. Le parole d’ordine erano grossomodo tre: impegno, giustizia e cultura. Da qualche mese, ancora per i tipi della Rubbettino, è uscito un volume che raccoglie gli interventi di Scidà per Città d’utopia, ospitati in un’apposita rubrica che è anche il titolo del libro, Eresie (Rubbettino, pp. 156, euro 10,00).
A Scidà stavano a cuore i giovani, per mestiere e vocazione. Si soffermava con continuità sulle condizioni dei minori svantaggiati e sulle cause del delinquere. Minori esclusi dai benefici della cittadinanza sociale e neppure sfiorati dall’elementare diritto all’educazione. Le responsabilità, gravissime a dir poco, erano e sono di chi esercita il potere. Scidà era intellettuale scomodo tanto da divenire un “caso” da anteporre a quello ben più preoccupante che opprimeva una città – Catania, la nona d’Italia – affamata di verità e giustizia. Accusato di autoritarismo di scarso o eccessivo zelo (a seconda dei casi) e di produrre analisi o esternazioni fuori luogo. Scusate se è poco. Ma le sue denunzie non sono morte: il “caso Catania” non smette di tormentare osservatori, amministratori e cittadini. Scidà lo definiva in modo semplice: manomissione delle risorse pubbliche, ambigua realizzazione di fortune e condotte a dir poco equivoche in seno alla magistratura. Ne forniva esempi. Come per il caso del viale Africa. Il più grosso affare di corruzione a Catania, diceva. Nel quale fu coinvolto uno tra quelli che Giuseppe Fava appellò come i quattro cavalieri dell’Apocalisse. Catania ignorava volutamente alcuni gravi fenomeni di criminalità: in cima lo spaccio di droga. Lo ha fatto ieri, lo farà domani. Ai tentativi di allontanarlo dai posti di responsabilità il magistrato replicava con le armi dell’impegno e della parola: «è come spezzare il termometro per non constatare la febbre», diceva. Poi rincarava la dose con un appello «per i minori di Catania»: lucidissimo, sottratto alle astrazioni e alle ricette ideologiche. Che fare? Primo: analizzare cause e rimedi del fenomeno della dispersione scolastica con un occhio rivolto all’ambiente e l’altro alle responsabilità delle amministrazioni che devono aiutare genitori e figli in età scolare. «Nella massa esclusa, di fatto, dalla istruzione, è un potenziale di intelligenza, al quale Catania non può rinunciare, senza ledersi ed impoverirsi; e in quella massa è parte cospicua dell’elettorato di domani». I giovani vanno educati allo svago. Le imprese guardano al profitto ma le amministrazioni devono prendere posizione contro l’apertura delle sale-gioco. Le stesse amministrazioni e le stesse forze dell’ordine devono sottrarre i minori nomadi alle influenze ambientali; i bambini non devono arrivare «alle scuole elementari in condizioni di insoddisfacente sviluppo (cognitivo, del linguaggio, delle capacità di relazione)».


Il libro, recipiente di verità è stato presentato presso l’ex monastero dei Benedettini di Catania in una manifestazione per la legalità. Evento organizzato dalle associazioni “Libera” e “Città d’utopia”: tra gli intervenuti Giuseppe Strazzulla coordinatore di “Libera”, Pioletti, Riccardo Orioles e Giovanni Caruso, ex ragazzi di Fava. l'intellettuale e giornalista caduto trent’anni fa per mano mafiosa, oltre a Maria Randazzo direttrice dell’istituto penale minorile e Mimmo Palermo dell’associazione “Siciliani per la legalità”. Scidà era circondato da stima e affetto. Scontato ma non inutile l’appello per l’unità d’azione delle associazioni nella lotta antimafia. Pioletti che è professore universitario nella stessa città di Scidà – Catania povera d’idee e d’arte (che se c’è nessuno vede), immersa nella palude di un potere frammentato, occulto o visibile, cupo e solidale a se stesso (la città del consenso diceva Scidà) – ha individuato sei punti come chiavi di lettura. Sei motivi dominanti sui temi della criminalità. Attenzione costante al terreno di coltura della mafia, piani alternativi per un nuovo sistema economico, analisi costante del territorio (bisogna impossessarsi del territorio), complicità del sistema politico, alchimie delle leggi elettorali «costruite e imbalsamate a uso e abuso delle classi dirigenti», infine colpe della magistratura («i magistrati non sono angeli»). Le tracce sono complesse, i rimedi rivoluzionari. C’era una questione che stava a cuore al magistrato più di qualunque altra. La chiamava «la disonestà amministrativa». Il volume contiene una dozzina di articoli e un dossier sulla magistratura catanese. Isola fatti che risalgono ai primi anni Ottanta. Con l’appalto della nuova sede della pretura di Catania, in via Crispi, debuttò per Scidà la noncuranza per il rispetto della legalità. Dopo l’omicidio Fava la città si trovò disarmata, preda della criminalità: i mezzi d’informazione tacevano. Quattro anni dopo le cifre riguardanti la delinquenza minorile e la corruzione erano spaventose. La classe dirigente, amministratori e magistrati, distratti da tutt’altro interesse. Alcuni interventi erano già apparsi nel periodo caldo di tangentopoli.

Scidà è netto nei giudizi. La pratica delle tangenti è alla base della lievitazione del debito nazionale. «Ha conferito all’indebitamento pubblico dimensioni catastrofiche; ha distrutto il territorio; esasperato la fiscalità». Con elegante controllo, chiamava «fisica degli interessi» la consuetudine che impediva la denuncia di corrotti e corruttori. La presenza di più mafie legate da interessi convergenti qualificava l’entità del potere nelle aree meridionali. «Il silenzio e la notte coprono fatti ben più corali, e vasti, e radicati, che la stessa mafia. Fatti di grande imponenza, dai quali la mafia ha tratto, qua e là, o nascimento, o materia per la crescita, ed ai quali essa rende, tra gli altri servizi, anche questo: di attirare sopra di sé l’attenzione, aiutando allo infittirsi dell’ombra intorno ad essi, e alle connessioni che ad essi la congiungono». Da trent’anni a questa parte Scidà parlava di silenzio imposto a chi disapprovava il sistema. Adesso a detta del direttore di “Città d’utopia” la città dovrebbe chiedere «scusa a Titta Scidà». In visita alla scuola media “Cavour” di Catania, il magistrato aveva reso pubblici i giudizi sul proprio conto. Ma su internet il “caso” era già scoppiato. Per il combattivo Orioles, Scidà era un vero uomo antimafia non in quanto magistrato ma perché uomo della società civile, cittadino modello vicino alle associazioni nate sul territorio. Venne in una città adusa a chiudere occhi e orecchie sui propri peccati. Per Caruso, animatore del Gapa centro di aggregazione popolare nel quartiere di San Cristoforo e come Orioles promotore dei “Siciliani giovani”, in cima ai valori di Scidà c’era la giustizia sociale. A quel magistrato non bastava la poltrona perché voleva battersi sul territorio. Le analisi di Scidà sono diventate coscienza comune. A Catania c’è un’altissima percentuale di omicidi e rapine – rispetto al totale nazionale –, non vanno affatto dimenticati il tasso di impunità e la disaffezione alle istituzioni. Conseguenze disperanti: scarsa fiducia da parte delle nuove generazioni e bassa percentuale di denunce. Ma a nessuno è concesso dire: non mi riguarda. Politici, imprenditori e mezzi d’informazione si trovano sulla stessa barca: come accusare gli altri senza colpire se stessi? Nessun potere è esente da colpe o responsabilità: dalle amministrazioni locali alla magistratura. I Pm non devono essere lasciati soli, da loro si deve pretendere efficienza non onnipotenza. Neppure i cittadini sono esentati dai doveri: «il mestiere di cittadino, in una democrazia, è mestiere gravoso. Ma solo accettandone gli oneri … si può impedire che la democrazia e la giustizia … si trasformino, dietro il permanere di ingannevoli facciate, nel loro contrario». E lo stato su tutti deve impadronirsi delle zone sottratte all’influenza delle norme. A Catania fino agli Ottanta si negava l’esistenza della mafia, anche se l’inquinamento mafioso era giunto a livelli altissimi e «la lotta tra i clan insanguinava la città». Catania era una città divisa, spezzata in almeno due parti. I poveri da un lato – quelli della Catania dannata e abbandonata – e i privilegiati dall’altro, quelli avvezzi a ottenere vantaggi in qualsiasi occasione. Le questioni riguardavano e non da quel periodo, gli arricchimenti personali a danno delle risorse collettive. «L’urbanistica, i lavori pubblici, le erogazioni di danaro pubblico a titolo di contributo, le forniture degli enti pubblici, i contratti d’uso degli immobili, sono alcuni dei molti campi nei quali la torsione delle regole viene praticata, per decenni, come una sorta di regola». C’è una mafia che tutti conosciamo, o forse crediamo di conoscere, la mafia che mette “ordine”, che punisce chi non offre garanzie di impunità ma c’è un’altra mafia diceva Scidà. La mafia «dell’atto deliberativo, del decreto, dell’ordinanza; degli altri provvedimenti; e dell’omettere mirato». Mafia responsabile del declino urbano e sociale, che scende a patti con i gruppi malavitosi. Gli uni fanno spallucce e acconsentono al disarmo della città, gli altri procurano voti e costringono gli oppositori al silenzio. Una gabbia di verità negate o nascoste dalla quale è impossibile fuggire. Come arrestare, almeno quello, il processo di dissipazione delle risorse pubbliche? La ricetta di Scidà prevedeva tre farmaci, l’effetto da sperimentare. Una collettività informata, sottratta alle mezze verità o alle menzogne dei mezzi di informazione locali. Una magistratura che non sia forte coi deboli e debole coi forti e che non si dia a condizionare se stessa. Semplicemente e felicemente lontana dalle mischie, terza. Infine un’azione determinante da parte degli intellettuali, anche se il magistrato sapeva che i chierici prediligono le garanzie dei sottomessi. Quando la libertà è utile sacrilegio. Eresia, appunto.