sabato 5 aprile 2014

Per sapere tutto (o quasi) su Gualtiero Jacopetti, il regista che stava troppo avanti



Luciano Lanna

Con questo Gualtiero Jacopetti. Graffi sul mondo (Edizioni Il Foglio, pp. 340, euro 16,00) Stefano Loparco ha realizzato una cosa che si attendeva da anni: raccontare, spiegare e restituire alla storia del cinema (e non solo) il contributo fondamentale di un intellettuale italiano del Novecento tra i più creativi e irregolari. Graffi sul mondo è infatti la prima biografia dedicata al giornalista e cineasta scomparso nell’agosto del 2011 a novantadue anni d’età, quasi uno Junger all’italiana, che in maniera disincantata e appassionata a un tempo ha attraversato come pochi il secolo scorso. Autore di film come Africa addio o Mondo cane, pellicole che hanno trasformato la modalità di raccontare le cose attraverso le immagini, Jacopetti è stato un figlio inquieto della provincia italiana, attratto sin dall’infanzia dall’avventura e dalla bellezza, insofferente alle regole e al conformismo oltre che refrattario alle mode. La sua tecnica di fare cronaca giornalistica, prima, e cinema poi, ha aperto la strada a un nuovo modo di raccontare le cose, con proseliti, seguaci e schiere di fan in tutto il mondo. Basti pensare che una voce specifica, “Mondo cane”, è presente nel raffinato e autorevolissimo Dizionario Snob del Cinema dei due critici cinematografici statunitensi David Kamp e Lawrence Levi (ed edito in Italia da Sellerio): “Nel 1962 anticipò di decenni gli shock documentari del network Fox… In era pre-videoregistratore l’etichetta Mondo divenne sinonimo di trasgressione cinematografica, determinando un profluvio di imitazioni…”.



Dello jacopettiano "Mondo movie", Loparco ci racconta proprio tutto, dalle matrici nel lavoro cinegiornalistico del giovane Gualtiero, all’impatto sul pubblico. Gli anni Cinquanta e Sessanta, quelli in cui l’ex volontario di guerra Jacopetti dà espressione – dopo aver conosciuto Leo Longanesi, Indro Montanelli e Luigi Barzini – al suo giornalismo, sono quelli dei cinegiornali, i settimanali d’informazione che, come allora stabiliva la legge, anticipavano la proiezione dei film al cinema nel momento tra la fine e l’inizio del film in programma che si chiamava – come da lucetta rossa all’ingresso - “attualità”. Chiusa infatti la grande stagione del Giornale Luce (1927-1945) con la fine del fascismo, sono tenute a battesimo nuove testate cinegiornalistiche: Settimana InCom, dove Jacopetti lavora tra il 1950 e il 1955, Europeo Ciac, dove si distingue tra il 1956 e il 1958, sino a Ieri, Oggi e Domani, dal 1959 in avanti… Jacopetti, nella sua veste di regista e di autore del commento parlato, trasforma via via il cinegiornalismo conferendogli un tono sempre più dissacratorio, irriverente e strafottente, cosa impensabile per i paludati telegiornali che dal 1954 andavano in onda sull’allora unico canale televisivo della Rai. L’esigenza è di fermare l’emorragia di spettatori dalle sale cinematografiche favorita dalla diffusione del mezzo televisivo. “C’è di più e di più profondo: a forza – scrive Loparco – di montare e rimontare immagini, tra una seduta del parlamento e una sfilata di moda, l’inaugurazione di una bretella stradale e un evento sportivo, Jacopetti capisce che se i fatti godono di un loro status ontologico, esiste un modo per poterli reinterpretare senza incorrere nelle forche caudine del censore. Una zoomata su un particolare apparentemente insignificante, una pausa prolungata o un improvviso cambio nel tono della voce del commentatore e anche il più austero dei resoconti politici, svuotato del suo significato di facciata, diventa irrituale quando non propriamente buffo. Il gusto per lo sberleffo, la battuta al vetriolo, l’irriverenza verso il potere e le mode, tratti peculiari di Jacopetti, daranno vita a quel cinegiornalismo sfottente che riuscirà a scalfire l’egemonia dell’informazione istituzionale”.


Da giornalista della carta stampata Jacopetti nel 1954 aveva anche fondato e diretto un settimanale, Cronache, per la quale esperienza Sergio Saviane lo definirà “il padre spirituale dell’Espresso”. Lo stesso Eugenio Scalfari, nel suo La sera andavamo in via Veneto, ha raccontato l’episodio spiegando come nacque L’Espresso: “La redazione era proprio quella ereditata da Cronache, un settimanale abbastanza ben fatto e politicamente impegnato, che era stato fondato e diretto fino a pochi mesi prima da Gualtiero Jacopetti…”. Ecco quello che vi si leggeva, il 7 dicembre 1954, a firma proprio del direttore, in polemica con l’Italia democristiana: «L’autoritarismo non vuole uomini, ma solamente automi, non personalità sfuggenti e fluide, ma elementi semplici e docili, alla modellazione e alla collocazione... negli schemi e nelle strutture prefabbricate della società”. Perché Jacopetti non era di sinistra, tutt’altro, ma la sua avversione verso il moderatismo a tutela democristiana era totale. “L’Italia era ridotta a un immenso dormitorio – spiegherà – con la censura democristiana e una borghesia ipocrita pronta a scandalizzarsi per nonnulla. Così io mi divertivo mettendo in risalto il conformismo diffuso, la corruzione e la mancanza di cultura…”.




Di questo, Loparco ricostruisce tutte le fasi, sino all’idea nel 1959 di realizzare documentari per il grande schermo: “Il titolo è entrato nella storia e nell’immaginario: Mondo cane. I protagonisti anche: Gualtiero Jacopetti, già noto per i suoi cinegiornali, ma anche Paolo Cavara e Franco Prosperi, all’epoca poco più che trentenni, entrambi provenienti dal documentarismo naturalistico. A farli incontrare è un amico comune, il giornalista Carlo Gregoretti. Con Jacopetti aveva lavorato a Cronache tra il 1954 e il 1955. Con gli altri due era reduce da una spedizione subacquea nell’isola di Ceylon nel 1951-52”. Jacopetti era da poco reduce di un’esperienza cinematografica, aveva sceneggiato e scritto Il mondo di notte di Alessandro Blasetti (oltre che essere apparso come attore in Un giorno in pretura di Steno con Alberto Sordi). Franco Prosperi, infine, coinvolge nell’impresa anche un suo vecchio amico, Stanislao Nievo, pronipote di Ippolito Nievo, che dopo il liceo aveva abbandonato gli studi universitari per dedicarsi ai viaggi d’esplorazione nel mondo (diverrà un grande fotografo, sua ad esempio la solo foto a colori di Julius Evola, e negli anni Settanta sarà anche uno scrittore di libri di successo come Il prato in fondo al mare..).
Con questo gruppetto di amici si realizza Mondo cane che uscendo nella sale nel 1962 balzò in testa ai botteghini di mezzo mondo in breve tempo e la cui colonna sonora di Riz Ortolani, More, diverrà un successo internazionale cantata, tra gli altri, anche da Frank Sinatra. Seguiranno gli altri cinque film jacopettiani: La donna nel mondo (1962), Mondo cane 2 (1963), Africa addio (1966), Addio zio Tom (1971) e Mondo Candido (1975), di cui gli ultimi due non sono documentari va cinema nel senso di fiction. Loparco elenca, inoltre, tutti gli altri film, di altri registi, che si ispirarono allo stesso filone: da Mal d’Africa (1967) di Stanislao Nievo a Ultime grida dalla savana (1975) di Antonio Climati e Mario Morra.
Loparco racconta poi l’abbandono del cinema, nel 1975, da parte di Jacopetti e tutta la sua lunga vita straordinaria: gli anni della “dolce vita” (non a caso Fellini si ispirò a lui per la figura interpretata da Mastroianni nel film del 1960), i viaggi, le collaborazioni giornalistiche per il Corriere della Sera e per il Giornale del suo amico Montanelli, l’impegno politico a destra, la riscoperta della sua opera negli anni Novanta, il suo grande amore per la bellissima attrice Belinda Lee, morta in un incidente mentre lui guidava in California nel 1961, i suoi problemi giudiziari, il suo pensiero… Ma nel 1975, come dicevamo, si ritira, quasi avesse capito che precorreva troppo, che stava troppo avanti. E si mise, serenamente, in ascolto del mondo...
“Quello che più contra è che il suo cinema – si legge in Graffi sul mondo – ha imposto un nuovo modo di pensare l’esperienza cinematografica, ha assicurato alla cultura internazionale un lemma, appunto quel ‘mondo’, che è ancora oggi un vocabolo attestante l’italianità di un filone, ha contaminato generi diversi, dalla letteratura (James Graham Ballard), l’animazione (Tony Pagot), ai media contemporanei (i reality). E non mancano i riconoscimenti. È il caso, tra gli altri, degli U2, che nel corso del loro tour mondiale Zoo Tour del 1992-93 hanno proiettato sui maxischermi alcuni spezzoni tratti dai suoi film, del cantante americano Mike Patton che, nel 2010, gli ha reso omaggio pubblicando un album intitolato Mondo cane, mentre lo stesso Jacopetti è stato chiamato nel suo ultimo anno di vita, il 2011, alla Biennale di Venezia. E, due anni dopo la sua scomparsa, all’uscita nel 2013 di Django Unchained di Quentin Tarantino (da sempre fan del modo jacopettiano di tagliare le immagini e fonderle con la musica) si è potuto leggere: “Tarantino non ha mai fatto segreto di aver attinto a Jacopetti e al suo Addio Zio Tom. E lo stesso attore Samuel Jackson ha dichiarato d’essersi ispirato proprio a quel film per interpretare Django, lo schiavo di colore appartenente al villain Leonardo DiCaprio”.


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