sabato 31 maggio 2014

L’eterno ritorno degli Orazi e Curiazi? Per farla finita con gli archetipi (politici) dell’antica Roma



Marina Maugeri

(liberamente ispirato agli scritti di René Girard e Michel Serres)

Strano a dirsi, benché come scrive Tito Livio non vi sia “altro fatto antico che sia più famoso” di questo, non è affatto certo a quale delle due città, Roma e Alba Longa, appartenessero i tre gemelli Orazi e i tre gemelli Curiazi, campioni di un duello a sei teste che decide delle sorti di uno degli scontri più fatali della storia, simbolo nefasto di guerra civile. Essere gemelli nel mito vuol dire avere a che fare con un conflitto che non decide, essere portatori di una reciprocità simmetrica, dunque identica, che getta fatalmente nella crisi e nella risoluzione sacrificale, il campo che miete Marte, nel quale si scontrano coppie di doppi rivali in un conflitto da cui solo i poeti, scrittori di storia mitica, sanno trarre fuori la genesi di una nuova fondazione. La violenza trasforma gli “eserciti” dei fratelli-nemici in due insiemi indifferenziati, pari “d’età e forze”, coppie gemellari senza identità, dietro le quali premono comunità che sono dilaniate da una peste contagiosa, un tipo di turbolenza che è la lotta per il possesso della terra, una cosa che emana una luce effimera ed è la cosa mia, la cosa tua, la cosa nostra. Allo schieramento di campo delle due triadi penseranno perciò solo gli storici, collocando i campioni degli Orazi dalla parte di Roma, quella dei Curiazi nel fronte di Alba Longa. Lo scontro che divide le due città è il simbolo di un conflitto empio e fratricida.



Alba è la città madre di Roma, annovera nel suo ceppo mitico capi selvaggi e re che oppongono la loro destrezza alla turbolenza della molteplicità e sono plasmati al comando dalla lotta impari che ingaggiano con la forza trascinante degli elementi. La Città dei pater ha perciò questo ramo femminile, nel quale risiede integra la potenza generativa di una regina, su cui la storia scrive come molle cera, ma solo a colpi di profanazioni, empietà e stupri. La matrice del conflitto risiede perciò in questo nodo oscuro e celato, latente come vuole il Lazio, la terra del nascosto.  Albalonga e Roma sono in guerra permanente, si scelgono perciò dei campioni fra due famiglie che sono unite per matrimoni, il cui scontro deciderà le sorti delle città. Tuttavia nello scontro-ordalia le forze si equiparano al tal punto che il destino delle due città rimane a lungo sospeso in un duello che non decide. La battaglia è in corso, due degli Orazi sono già colpiti a morte mentre il terzo si è dato indecorosamente alla fuga, perciò anche il pater degli Orazi si prepara ad uccidere quel figlio che indietreggia, gettando i Romani nel disonore. Presto però ci si accorge che la fuga del giovane romano era solo uno stratagemma, che Orazio ha fatto scattare l’arma dell’astuzia e si è trasformato da prode in un vile fuggiasco ma solo per costringere i Curiazi a rincorrerlo e al momento opportuno, quando la triade albana ha disperso la coesione e la potenza del numero, egli ha invertito di nuovo il movimento della corsa e con uno scarto decisivo della schiena ha mutato il corso della storia. Le sorti delle due Città si decidono in questo attimo, perché se Orazio soccombesse ora farebbe sorgere un mito diverso e sarebbe il fondatore di Alba e non di Roma. Ma il furore procura ad Orazio le armi per seminare il panico, mentre il sangue avvampa i cuori degli astanti. Lo spettacolo dell’imminente uccisione concentra gli sguardi sul campione dei Romani ed è la somma di tutti i genitori e degli dèi patrii, una pressione che si fa testuggine e solleva il fragore del tuono, il frastuono della molteplicità. La turba si compatta unanime e forma il corpo di una belva, propriamente un draco, termine che deriva dal greco drákōn, ma curiosamente non indica ferocia, quanto piuttosto l’azione del guardare, il fissare lo sguardo. Tre contro uno. Orazio è solo, ma il suo isolamento riunifica e compatta. Tutti gli sguardi convergono a raggiera su di lui, insigne perché isolato, distinguibile dal resto, peculiare in quanto capace di riassumere la molteplicità, capacità che è potenzialità, potenzialità che è potere . Tutti i segmenti degli sguardi confluiscono sull’eroe isolato e si fanno pressione. Pressione che è forza, potenza che scaturisce dalla totale simbiosi dell’eroe con la belva che fissa lo sguardo su di lui. Orazio la trasforma nella distruzione che si abbatte su un’altra fiera . I suoi occhi lampeggiano come dardi di fuoco. La lama colpisce i campioni albani uno dopo l’altro. I Curiazi cadono sul campo e trascinano Alba nella sciagura. Non è il circo, non ancora, ma è l’origine della tragedia e del diritto. Roma uccide Alba Longa. Roma è un tratto di penna nero che scrive un nuovo inizio nella sua storia. La fondazione necessita della ripetizione. L’impresa di Orazio si direbbe perciò compiuta, ma il furore è una potenza di cui non ci si sbarazza tanto facilmente e Orazio è questa forza distruttrice.  Dal campo insanguinato sull’Appia, il campione romano si prepara a rientrare in Città per la Porta Capena trascinato da una folla in preda a un’ebbrezza esaltante. Il passaggio nel pomerio è l’attraversamento di un campo consacrato dagli auguri che vi hanno fissato dei cippi affinché gli edifici non siano mai troppo contigui alla cinta. Il corteo si accinge perciò a varcare una terra di nessuno, dove l’uomo non è più padrone. Ma all’improvviso la turba è scossa da un sussulto. Nell’aria s’agita un suono diverso, una musica che è amore e dolore. Il singhiozzo di una fanciulla sovrasta ogni clamore, il suo dolore scioglie chiome e lacrime sul corpo esanime dell’albano suo sposo.  Un solo occhio sporco. Il campo è seminato, attende solo la scintilla. Qualcuno lancia un’invettiva e il lampo si accende. Il fulmine è un bagliore improvviso, la saetta di Febo Apollo appartiene a un dio che è tutt’altro che benevolo e languido, come vorrebbe la sua luminosa immagine, ma propriamente saettante, in grado dunque di debellare la “peste”, ma solo nella stessa misura in cui si ritiene che sia stato il dio stesso a scatenarla e lo si consideri perciò altrettanto capace di risanare la quiete. Lesta, improvvisa, micidiale un’arma si abbatte sulla fanciulla come una mannaia, scatenando un grido di orrore: “Il fratello trafigge la sorella!” Così, la pietà di Venere si trasforma nella triste mattanza di Marte. Orazia, colpevole di piangere il suo sposo, uno degli albani il cui cadavere giace insanguinato sul campo di Marte, si accascia al suolo, sposa nella sciagura dell’amato “nemico”. Il fratello è accusato di avere ucciso la sorella. Nell’apparente conflitto si riverbera il nocciolo simbolico della fondazione di Roma. Tutti i Romani come Orazio discendono da Marte, padre di Romolo, tutte le Romane come Orazia provengono da Venere, madre del troiano Enea, dal cui figlio Julo trae nome e origine la gens di Alba, il ceppo dei “fondatori”che da Romolo giunge fino a Cesare. Marte e Venere, lo strano binomio della forza- violenza e della pietas-perdono che esprimono però una realtà duale, un doppio che si rovescia l’uno nell’altra. Tutte le Romane come Orazia sono mute al pari di Lavinia, fanciulla esclusa dal circuito della parola, ma che reagisce con il rossore e il pianto di fronte all’intenzione di Turno di battersi con Enea e alla disperazione della madre Amata che piange il tramonto del suo popolo selvaggio. La morte della madre è il passato di Lavinia, l’uccisione del promesso sposo Turno è già il suo futuro. Ma ciò che rende eroica l’opzione taciturna di questa regia filia di Alba è la sua scelta per la vita, ciò che rende possibile la storia e la grandezza futura dell’Urbe. Orazia irrompe con il suo disperato cordoglio, sconvolge l’unanimità appena ritrovata del molteplice. Il suo lutto è deplorevole, è una contraddizione di cui occorre cancellare le tracce, le calde lacrime la calano nella gelida fossa della fondazione, quel mundus infestato da divinità telluriche che salva all’occorrenza la comunità dalla rappresaglia divina, acquietando il tumultus , mettendo al riparo dalla crisi. Orazia è un pharmakos , la medicina che banalmente serve a quietare gli animi, il prezzo del riscatto accordato agli dei affinché il sangue dei Curiazi non ricada come una maledizione perpetua sull’intera comunità. La Terra è una curiosa sfera che oscilla come una foglia instabile e il cosmo è propriamente l’equilibrio che l’uomo attua nello scambio con il divino, ciò che assicura temporanea stabilità e fornisce un punto d’appoggio che rinsalda, in accordo con l’illusione di dèi, la cui invidia e violenza giustifica la frenesia del contagio violento contro qualcuno, la cui espulsione o messa a morte consente di ristabilire l’ordine, riscattando al prezzo della vita di uno solo la momentanea stabilità dei molti , degli insiemi. Solo ora Orazio comprende che non esiste alcun compromesso possibile fra uccidere ed essere ucciso, ora sa che tutti possono ucciderlo. Egli è un semi-dio perché ha salvato la comunità dal predominio albano, ma come Remo é un capro-lupo, empio e fratricida e deve perciò essere sottoposto al giudizio a causa della trasgressione che l’ha portato oltre il limite.  Il podio sul quale Orazio si erge é quello dal quale svettano solo coloro che sono odiati e al tempo stesso venerati. Venerati, non amati. La venerazione nel cosmo panteista rende omaggio ad un oggetto sacro, ad una persona che diviene oggetto d’idolatria e venerazione. L’oggetto su cui il desiderio fissa lo sguardo é qualcosa con cui non si entra mai in relazione. Venerare ha perciò la stessa radice del nome Venus , dea dell'amore, ma la forza generativa che suscita ha ben altro significato, perché si rovescia nel suo opposto mostruoso e quando è rovesciata esprime odio. Nel mito perciò i mostri hanno tutti un difetto alla vista, vedono male e vedono doppio. Quando nel circo si aprono i giochi, lo spettacolo degli sguardi converge sulla terribile danza che è l’agonia di uno schiavo che porta la colpa e mette in scena la pantomina reale della maledizione dell’essere uomo davanti a Iuppiter. La folla assiepata sulla scalea non si sforza di capirlo, si trasforma in una belva feroce che scaglia“pietre”, ma come tutti i mostri vede male e ciò che perde di vista è quello che non vede di sé, perché è lei stessa una pietra che costruisce questa cosa ottusa, grezza, terribile. Il furore di cui Orazio deve farsi carico per portare a termine le imprese collettive della sua Città comporta perciò una pericolosità per sé e per gli altri, una hybris di cui non è poi tanto facile disfarsi. Accade anche a Ercole di ritorno dalle sue fatiche di essere preda di un attacco di follia che causa lo sterminio dell’intera famiglia, moglie e figlioletti e solo quando torna padrone di sé sprofonda nella più totale disperazione, decidendo di ritirarsi a vivere in solitudine in un territorio desolato. Essere toccati dalla violenza e provare a dominarla significa entrare nel suo circuito perpetuo ed esserne assoggettati, consacrarsi a Marte, nutrirsi delle messi del suo farro, quel raccolto letale che cresce nel Campo Marzio e che i Romani colgono ma solo per gettarlo nel fiume con un rituale, perché nutrirsi di quelle messi vorrebbe dire collocarsi già sul fondo di quel fiume. In questo lontano arcaico, grezzo ed essenziale, non c’è traccia mistica della brutalità. Ciò che spinge le comunità verso la violenza, quale ente generatore di distruzione trascendente, non è la volontà di unirsi ad una divinità distruttrice. Diversamente da ogni mistica moderna ispirata deliberatamente all’abisso sacrificale dionisiaco in chiave anticristiana, la religione arcaica e la trasformazione di tale trascendenza violenta in un sistema culturale e “politico” rifondato, non puntano a creare unione con la divinità dissolutrice, come avviene in epoca nichilista fuori dalle categorie del sacro, bensì a tenerla a debita distanza, utilizzando la violenza per preservare la comunità dalla distruzione.  La violenza è interna alla comunità ma si esprime come illusione di una polarizzazione che si colloca fuori e assume il volto di una divinità che reclama il sangue dell’uomo. Non può essere ammessa nello spazio dell' Urbe che il nomos ha originato e ancora non si proietta oltre il suo confine con la Civitas. L’instabilità violenta origina nuovi equilibri della storia, ma non può che essere bandita dall'ordine costituito, anche se appartiene alla dimensione del sacro e il sacro con la sua ambigua indifferenziazione è un’unica e medesima cosa con la violenza che impone rapporti doppi e simmetrici, mostri a tre teste che si fronteggiano come belve disumane. L’eroe si lascia invadere da questa forza , ma non partecipa già più del nuovo ordine, è fuori della comunità, appartiene alla divinità oltraggiata, anche se al tempo stesso è depositario del destino della comunità che da lui fa dipendere la stabilità interna, la sua stessa sopravvivenza. Orazio è un meraviglioso eroe, ma al tempo stesso non può che essere un orribile assassino, un mostro senza pietà che distrugge nella sorella, nel suo stesso sangue, la personificazione della pietas , la sua stessa umanità. Egli riassume fatalmente su di sé l’illusoria ambivalenza del sacro arcaico. È la belva feroce cui la comunità affida il proprio destino, dotandolo di prerogative divine, è perciò come Remo un lupo empio e selvaggio, come Marte é uno “sterminatore di eroi”. Orazio è quel tipo di eroe dotato di prerogative straordinarie, un dio e un lupo insieme. Ma in realtà l’opposto del lupo non è affatto un dio, bensì un altro lupo, un gemello contro l’altro, perché l’opposizione nel campo di Marte è solo l’indifferenziazione della violenza, una zona grigia dove vige la cattiva reciprocità simmetrica che si esprime colpo su colpo. Il pelo rovesciato del lupo, che dentro rimane pelo e lupo, anche se nascosto dal rovesciamento. Accusato di perduellionis – lesa maestà, sovversione dell'Ordine costituito – Orazio deve subire la pena dell’arbor infelix ed essere suspensus al ramo rinsecchito e malaugurato per essere fustigato, fino alla morte. L’albero infelice, antesignano della croce, è in analogia con il limes, una sorte di confine reale e simbolico fra il villaggio urbano e la selva, come il muro del pomerium che é sotto la potestà degli dei degli inferi e di Fauno. E’ un arbusto maledetto come il colpevole al quale s’infligge la pena con il capo velato. Solo a questo punto interviene il re Tullo Ostilio, il quale concede alla gens agli Orazi di ricorrere alla provocatio ad populo. I rituali di consacratio ed espiazione prevedono una partecipazione popolare al giudizio. Si torna alla scena ed è ancora la turba la protagonista reale della vicenda. Il popolo al tumulto si pressa intorno all’eroe-malfattore, si dispone in cerchio, l’assembramento ricorda il linciaggio che la folla si appresta a compiere. Solo l’arringa del pater familias consente a Orazio di riprendere la via dell’Urbe, sebbene come uomo diminuito che dovrà sottostare al giogo di un travicello messo di traverso sulla sua strada per mantenere il ricordo della sua colpa. Orazio si salva, non muore. Il pater che rappresenta la comunità riunita, il popolo delle Trenta curie romulee, decreta che Orazia è stata legittimamente uccisa e deplora pubblicamente il comportamento della figlia che ha infranto una regola comunitaria. Il potere di morte dei padri sulle figlie femmine è una consuetudine confermata dalla realtà storica più arcaica (Regine Pernoud). Ma l’accaduto é deplorevole, perciò si dispongono atti espiatori riparatori, cui la famiglia degli Orazi dovrà provvedere. La storia è una rappresentazione che mostra i protagonisti in azione, il coraggio dei giovani campioni del duello, lo strazio della sorella, l’arringa patetica del pater. Il molteplice rimane invece impercettibile, opaco e dissimulato, non compie un vero moto, non ha un’azione propria. Esiste solo come sguardo che converge sulla rappresentazione e getta un occhio sporco nel punto focale dove il “fratello” assume su di sé ora la parte leggendaria, ora quella della canaglia e la “sorella” che esplode nel pianto è la vittima sostitutiva. Orazio salva la collettività, ma è anche l’omicida che agisce in nome e per conto della comunità. Mentre nel Vangelo la folla al cospetto di Pilato che reclama la morte di Gesù si mostra per quello che è veramente, una molteplicità ondivaga, contagiata da meccanismi mimetici, la prospettiva mitica misconosce al molteplice questa funzione, rende esplicito solo l’effetto delle sue azioni, il contagio dell’eroe, la sua hybris, in definitiva l’ accusa della sua colpevolezza che giustifica la risoluzione sacrificale.  In cosa consiste la differenza fra le due prospettive? Il mito elabora degli avvenimenti reali, ma li reinterpreta, scagionando da ogni responsabilità il collettivo. L’eroe-vittima contaminato dalla violenza è accusato dalla comunità per la sua dismisura e scampa al suo stesso sacrificio, macchiandosi di una vittima palesemente innocente, sua sorella Orazia. Il meccanismo del capro espiatorio, tanto esplicito nelle letture testamentarie (*) è sistematicamente dissimulato nel mito e con esso il comportamento realmente criminale della folla che si agita in preda ai molteplici desideri che costituiscono una forza unanime e terribile. L’eroe in definitiva è il depositario di questa forza collettiva dalla quale è posseduto ma da cui può essere distrutto. Orazio non detiene perciò una forza sua, né la detiene in senso astratto. Il suo potere non si basa su un teorico contratto sociale. Esercita la forza nel campo del reale, polarizza l’energia di tutti, attrae su di sé i desideri e le trasgressioni di tutti, possiede nella mano questo nodo, il potere e la forza , ma al tempo stesso il nodo è posseduto dai suoi linciatori, coloro che lo consacrano nella violenza al prezzo della sua stessa vita. L’elevazione di Orazio a eroe mitico più che un mito è un rito, i cui effetti sono solo attenuati dal Diritto. Roma è del rito, Alba è del mito. Roma demitizza il suo Pantheon ed è la terra della fondazione che si oppone alla riva del fiume e bagnandosi si rende fertile. Alba, la bianca, è l’essenza della natura che produce capi selvaggi che fatalmente scompaiono nei flutti del fiume, principesse violate che svaniscono nelle acque tremule dei suoi laghi circolari sul cui fondo giacciono verità nascoste. Roma cerca le sue origini perdute e le intreccia con la realtà storica, è per questa via che l’Urbe genera saghe e leggende, ma non miti. Orazio é un eroe-vittima, un essere glorioso ma anche una vile canaglia. Come Romolo è un fratricida, come Remo è un empio. E’ l’assassino di sua sorella, una fanciulla colpevole di amoreggiare con il suo sposo albano. Il diritto infine acconsente al passaggio che immette nella città mediante la porta schiusa di Giano Quirino e da quella porta il tragico corteo mestamente rientra in città. Tutti tornano a casa, tutti ad eccezione di Orazia che giace nella gelida fossa espropriata alla terra che accorda così la nuova fondazione. La fondazione si ripete con una nuova fondazione, al costo della vita di Orazia che si spegne nei pressi della Porta Capena. Alba, mater urbis, non conosce più il tempo, è lo spazio indeterminato dell’origine, il luogo ormai senza forma ed estraneo alla storia. Alba ha solo il mito, il tempo che la separa dall’origine produce un’apparenza bugiarda, un’immagine menzognera, un inganno omicida. Roma inventa il tempo storico. Due città, madre e figlia, due ipotesi contrapposte, necessariamente complementari, perché l’uomo non vive nella natura, vive nella storia. Sarà la Rivelazione cristiana a dire che la storia che si afferma non è altro che il mito nascosto che l’uomo vede sdoppiato. Ma il Dio cristiano non è un doppio, la natura umana e la natura divina sono unite nella persona del Verbo senza confusione, né separazione. La potenza divina si manifesta nella Misericordia, un tipo di conoscenza che contiene anche l’odio e l’imperfezione, perché li ha assunti su di Sé come rischio, il rischio della Croce.

venerdì 30 maggio 2014

Chi è violento con gli animali lo è anche con gli uomini




Francesco Pullia

Che ci sia una connessione tra la violenza sugli esseri umani e quella sui non umani è risaputo. Il punto è che la seconda non va combattuta ed eliminata in quanto tirocinio di quella compiuta sugli uomini, come sostenne Ovidio Publio Nasone, ma semplicemente perché tutti gli esseri senzienti devono essere incondizionatamente rispettati in quanto tali. Finché non si affermerà questo elementare principio si ricadrà sempre nell’antropocentrismo e si continuerà ad attribuire erroneamente all’uomo una centralità inesistente in natura e, pertanto, pretestuosa, artificiosa. Su questo aspetto si scontrano diverse visioni anche all’interno dello stesso antispecismo, cioè di quella corrente di pensiero (e non solo) che si prefigge di scardinare l’impianto antianimalista su cui si è retto nel corso dei secoli l’intero sistema culturale, sociale, economico che continua a condizionare le nostre vite.
C’è chi, infatuato da cascami ideologici, pretenderebbe ricondurre l’antispecismo all’alveo della lotta di classe, ricalcando pedissequamente lo schema marxista-leninista che condusse allo sfacelo le migliori intenzioni del Sessantotto. Secondo questo orientamento i comportamenti, le scelte individuali (come il vegetarianesimo e il veganismo, il non indossare indumenti derivati dallo sfruttamento animale, il curarsi in modo naturale, ecc.) sarebbero del tutto ininfluenti perché secondari in una prospettiva dichiaratamente comunista. Un déjà vu che ritorna a chi non ha la memoria corta. Si pensi, ad esempio, alla contestazione cui fu sottoposto Marcuse nel ’69 da parte di sedicenti “rivoluzionari" nel corso del suo ciclo di conferenze in Italia.
Su un altro versante, si ritiene, invece, che proprio a partire dal singolo si possa innescare un cambiamento su larga scala. La storia insegna, infatti, che le vere rivoluzioni, quelle che hanno lasciato concretamente un segno, sono nonviolente e partono dalla sfera individuale. Quelle costruite sulla "punta del fucile" sono, al contrario, destinate inevitabilmente allo scacco e sfociano sempre nel totalitarismo.
Un interessante contributo viene fornito da Annamaria Manzoni nel suo ultimo libro, Sulla cattiva strada, il legame tra la violenza sugli animali e quella sugli umani, edito da Sonda, una casa  meritoriamente distintasi con pubblicazioni utili alla formazione e alla diffusione di una consapevolezza ecosofica. La posizione dell’autrice è molto chiara: «Va ripensato il senso della solidarietà e rivalutata la forza dell'empatia». Non è più procrastinabile la fine della crudeltà umana sugli altri esseri. Bisogna ripartire dalla consapevolezza della nostra efferatezza, del male che commettiamo sui nostri fratelli e sulle nostre sorelle di altre specie per auspicare l'urgenza di un rivolgimento totale: «Se questo mondo è sbagliato, lasciarlo così com’è è sconsiderata, inaccettabile inerzia. Convivere con il dolore insensato delle vittime, ma anche con la crudeltà infettiva dei carnefici, non è destino ma colpa individuale». Ecco, quindi, il nodo centrale: il ruolo del singolo, la possibilità che abbiamo di modificare il presente e prefigurare un nuovo modello sociale. È nostro dovere ribellarci al protrarsi di questo stato di cose. Non è un caso che la Manzoni abbia come punti di riferimento filosofi come Capitini e Marcucci che, ispirandosi all'insegnamento di Tolstoj e Gandhi e rielaborandolo, hanno incentrato la loro riflessione sul paradigma di una trasformazione radicale della società che parta dal nostro intimo. Con dovizia di documentazione, ma senza, tuttavia, appesantire il testo, Annamaria Manzoni ci rende partecipi degli scenari terrificanti con cui, volenti o nolenti, coesistiamo. È la fotografia dell'orrore di cui l'uomo si è reso artefice nel suo aberrante percorso di dominazione e prevaricazione sulle altre specie. Ed ecco esseri ordinariamente, abitudinariamente, deturpati, seviziati, uccisi, smembrati con la scusa della centralità, di una centralità creata in modo fraudolento e assecondata, ad uso e consumo della nostra specie, da sistemi religiosi, filosofici, giuridici. Dalla caccia alle intollerabili vessazioni circensi, dai laboratori, in cui si attuano pratiche goebbelsiane per contrabbandare l'impostura della pseudoscienza, agli allevamenti intensivi dove, sin dai primi attimi di vita, si viene reificati sino alla soluzione finale del mattatoio da cui si uscirà dissezionati, impacchettati per soddisfare fameliche voluttà, è  tutto uno scorrimento di sangue.

Così, sostiene l'autrice e noi con lei, non si può continuare. Dovrà prodursi, prima o poi, un'inversione di tendenza, anche nella direzione di una decrescita demografica e di uno sviluppo la cui sostenibilità ed equità non debbano più rapportarsi all'uomo ma adeguarsi  alle esigenze di tutte le specie viventi. Non si può più rimandare ulteriormente una svolta. La scintilla è scoccata. Una nuova sensibilità si sta diffondendo, la sua portata è dirompente, la sua estensione inarrestabile. Il piedistallo su sui l'uomo fino ad oggi si è assestato sta per essere eroso.

martedì 27 maggio 2014

Parole chiare di Tony Augello su lepenismo e razzismo. Giusto per ricordare...



Visto che tornano di moda a destra lepenismo e razzismo sarà bene, per chi ne ha voglia, rileggere questo articolo di Tony Augello pubblicato su "Linea" nell'aprile del 1989

Tony Augello

La campagna per la pena di morte, quella per la Nuova Repubblica, ed un accenno ad eccessi di contiguità con taluni contenuti razzisti del Front National rappresentano tre momenti distinti e diversificati ma connessi da una sorta di filo conduttore: è l'idea della politica intesa come propaganda, dell'inseguimento degli effimeri stati d'animo collettivi che sostituisce la conquista delle coscienze alle proprie tesi , è l'implicita ipotesi di un ruolo, ideologicamente neutrale, vagamente populista, di estrema destra, sostanzialmente a-fascista. ... In un paese che diviene sempre più multirazziale è certamente possibile cavalcare le frizioni tra la comunità nazionale - o meglio alcuni suoi segmenti - e gli immigrati extraeuorpei. Ma il prezzo di una simile scelta, fuori dalla nostra cultura, rozza, superficiale, ingenerosa, origine di un insopportabile isolamento da gran parte della società civile, è sicuramente fuori dalla portata del nostro Movimento".

sabato 24 maggio 2014

Dalle barricate al romanzo: quando l'impegno politico dei rossi e dei neri prova a farsi letteratura


Annalisa Terranova

Appena finito di leggere il celebrato romanzo di Marco Montemarano, La ricchezza (Neri Pozza) sulla scapestrata e fallita generazione degli anni Settanta. Del clima di allora ci ho trovato pochissimo. Il racconto è più che altro una nostalgica esaltazione dell’amicizia totale, quasi salvifica e in ogni caso distruttiva, dove mettere radici se ogni punto di riferimento – a cominciare da quelli familiari – vacilla. 


E' ciò che accade al protagonista Giovanni detto Hitchcock, circondato da comparse irritanti per il loro vuoto interiore e la loro vocazione all’egoismo solipsistico.
Ci sono altri romanzi che su quegli anni aprono squarci interessanti. Metti insieme i flash del peregrinare furente di un “compagno” all’università di Bologna nel 1977, il suo struggente sentimento per Anna, il suo spaesamento e la sua rabbia e ottieni il distillato del romanzo impegnato, il prototipo del racconto della disobbedienza civile praticata dall’Autonomia: questo è stato Boccalone di Enrico Palandri, uscito nel 1979 e di recente riproposto da Bompiani. 


Pagine dove domina la cifra dell’inquietudine, della dissoluzione, l’ansia di rimettere in ordine i dialoghi, le relazioni, gli amori. A destra, invece, in quegli stessi arrabbiati anni Settanta chi intendeva fare letteratura della propria militanza sognava il romanzo battagliero, ispirato alle pagine sulfuree di Gilles di Drieu La Rochelle (1939), il dandy aristocratico circondate di femmine e fascista per “deviazione” dalla modernità. E alla fine, molti anni dopo la prova di Palandri col suo Boccalone, è stato un ex missino convertito al marxismo, lo scrittore operaio Antonio Pennacchi, a raccontare l’adolescenza “nera” di chi sceglieva la Fiamma in una città, Latina-Littoria, che respira assieme ai ricordi del Duce. Con il suo Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi (da cui è stato tratto il film Mio fratello è figlio unico), Pennacchi mette in scena con stile antiretorico, preciso e autentico, limiti e ambizioni di un nostalgismo che teneva in vita l’attivismo con la promessa della continuazione della guerra perduta. «Una domenica mattina, dopo la messa, sono andato al Msi a iscrivermi alla Giovane Italia. C’era uno di quindici o sedici anni. Io solo tredici, e avevo paura che non mi desse la tessera. Invece me l’ha data di corsa. La volevo pagare, ma me l’ha data gratis. Ci sono rimasto quasi male: era come se avessi fatto io un favore a loro, non loro a me. Gli ho anche chiesto: “Adesso che bisogna fare?”. Intendevo dire riunioni, attività, qualunque cosa. “Che bisogna fare? Ti sei iscritto. Tutto qua”». 


Il percorso di Accio Benassi è tutto segnato dall’identità di un luogo, la città costruita dove prima c’era la palude, che sovrasta ogni altra, fittizia e passeggera, appartenenza. «Per noi all’inizio il fascismo era solo Benito Mussolini, che aveva bonificato le paludi e fondato le città. Per noi ogni pietra – dalla chiesa di San Marco al palazzo del comune – l’aveva messa il Duce e la palude l’aveva asciugata tutta lui, da solo». Il personaggio di Pennacchi è rigido e al tempo stesso aperto e curioso del proprio tempo. Troppo poco obbediente per essere solo “fascista”, troppo poco conformista per essere solo “comunista”. 



A Pennacchi e a Pelandri ho guardato anche io scrivendo Vittoria, una storia degli anni Settanta (Giubilei Regnani). Vittoria è il titolo di un bel romanzo di Hamsun che ha allietato i miei giorni giovani, è un nome femminile molto suggestivo e assertivo, il nome adatto per una ragazzina fascista, ma è anche uno stato d’animo: perché se si riesce a dare un senso al passato si è sempre vittoriosi. Ma Vittoria è anche sfida a chi, quel passato, lo racconta in modo edulcorato, magari allo scopo di riesumare gli stessi inautentici conflitti.



L’attitudine alla ribellione solitaria, incompresa, c’è anche in un altro, più recente personaggio, Pasquale Benassìa, protagonista del bel romanzo di Andrea Di Consoli La collera (Rizzoli, 2012). Anche Benassìa è un fascista che conosce le durezze del lavoro in fabbrica, uno che legge Nietzsche per dare forza alla sua differenza, uno angosciato dall’idea di non riuscire in una sola vita ad eccellere come avrebbe voluto. In definitiva un disadattato. «Fascismo era un orgoglio superiore, una filosofia che gli faceva desiderare il meglio senza passare per la porta larga dell’elemosina socialista».
Ma per raccontare l’impegno, la mobilitazione, la scelta politica, un clima simile a quello narrato da Palandri nel suo Boccalone, sia pur visto dall’altra parte della trincea, bisogna guardare a titoli meno noti ma non per questo meno “istruttivi” nel rappresentare le aspirazioni della destra giovanile filtrate attraverso la “prova” letteraria. Un obiettivo centrato, ad esempio, dal giornalista Vincenzo Cerracchio con il suo romanzo Due soli (Il Filo, 2008, la storia di Marco, studente romano del liceo Tacito simpatizzante di destra, della sua passione per la Lazio e per Betta, dei fronteggiamenti in istituto, dell’uccisione di Mikis Mantakas nel 1973, della consapevolezza che il mondo infantile dei giochi si va colorando di rosso e di nero. Colori cupi che troviamo anche nel romanzo di Duccio Cimatti, Piombo (Piemme 2005), vicissitudini di un adolescente della periferia romana alle prese con le prevaricazioni dei “neri”. Cimatti ha tra l’altro uno scopo ben preciso: non se la sente, lui,  di contestualizzare, e non esita a condannare con forza chi ha intrapreso la strada del terrorismo: «C’è che non era affatto inevitabile premere un grilletto e innescare bombe, in tanti non l’abbiamo fatto. Non per codardia, o perché non ce ne fregava niente. Al contrario: volevamo di più, volevamo altro, non quello schifo di violenza e di retorica». Ambizioso e sofferto, infine, il tentativo della scrittrice e regista Cristina Comencini con il suo romanzo L’illusione del bene (Feltrinelli 2007). Fare i conti con il comunismo, da parte di chi ci ha creduto, da parte di chi ha immaginato che quell’ideologia fosse una salvifica religione civile e poi si è voltato dall’altra parte, senza “elaborare il lutto”, ma solo operando rimozioni. Quelle che il protagonista del romanzo, Mario, non può più inseguire nel momento in cui l’incontro con Sonja, figlia di una dissidente russa, lo porta a scavare negli archivi dell’orrore dell’ex Unione sovietica. Uno specchio dove molti comunisti “pentiti” non hanno mai voluto vedere il proprio tormentato riflesso.


venerdì 16 maggio 2014

Sfida Kyenge e Salvini ad AnnoUno, due "giganti" in una sola serata. E c'è pure il fascista che vuole lo scalpo dei clandestini




Annalisa Terranova

Avevo letto che Giulia Innocenzi a AnnoUno aveva superato il maestro Santoro. Dunque guardo la trasmissione. Lei, la trovo sempre uguale, con la voce da paperella e senza alcun carisma. Gli ospiti non sono proprio scelti per trattenere il pubblico davanti allo schermo: Cécile Kyenge e Matteo Salvini. Il filmato introduttivo è assai irritante. Il cronista segue un tizio, muscoloso e in maglietta nera, che ce l'ha con gli immigrati che rubano, dice che se vengono nella sua impresa li ammazza e li dà in pasto ai maiali dopo avergli tolto lo scalpo (i maiali non mangiano i capelli), ha chiamato il suo pittbull Benito, ha il poster di Mussolini, ha varie armi da taglio e mazze (ma la sciabola non la sporca per ammazzarli, userebbe la mazza). La perfetta incarnazione del fascista caricaturale, violento, schematico e dunque razzista. E dire che Mussolini fu esule-emigrante in Svizzera dove lavorò come muratore... Il video introduttivo è quello che è: ci dice che l'informazione fatica a liberarsi da stereotipi narrativi consolidati, benché la sinistra sappia molto bene che anche i suoi elettori sono a disagio per la mancata gestione dell'ondata di immigrati. 

Poi c'è Salvini che specula su questi poveracci che arrivano in Italia, dice che vengono in vacanza, ripete lo slogan "prima gli italiani", si guadagna il suo gruzzoletto di voti perché quando c'è una crisi profonda paga sempre elettoralmente la caccia al nemico al quale addossare ogni male. E Salvini è tutto contento di sguazzare in questa strumentalizzazione poco nobile, dopo averla scampata dal vento anticasta che investì pure la sua verde Lega non molto tempo fa (lauree comprate in Albania, lingotti in cassaforte, case al centro di Roma a spese dei contribuenti, ristrutturazioni con i fondi del partito, toy boy a disposizione delle alte cariche leghiste, pieno inserimento nel sistema con le cenette ad Arcore). Ma tanto gli italiani hanno memoria corta. Dunque basta vezzeggiarli digrignando i denti al "negro" e magari la crocetta sulla scheda arriva. La Kyenge a sua volta dimostra nuovamente la sua impreparazione.Oltre la retorica, nulla. 

E del resto chi ragiona un po' sa bene che il fenomeno delle migrazioni non può essere trattato con l'ideologia, che è un fenomeno che si risolve in un'ottica europea (e gli euroscettici dunque non possono avere voce in capitolo sulla materia perché vorrebbero riportarci indietro verso un ottuso nazionalismo) e che questi disperati che arrivano magari in Italia non vogliono neanche restarci, che questa è la prima tappa verso un viaggio della speranza che li porterà nel Nord-Europa o altrove. Chi ragiona un po' sa che in un mondo globalizzato dove la logica dello sfruttamento predomina su ogni altra la difesa della solidarietà verso gli esseri umani significa consentire una chance agli ultimi, che non sono solo gli immigrati ma tutti quelli che prima o poi restano schiacciati dall'infernale meccanismo (concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e progressiva povertà di tutti gli altri) su cui si reggono gli Stati occidentali. Se alimenti il razzismo presto questo sentimento di ostilità andrà oltre i confini etnici: investirà il vicino di casa o il datore di lavoro o il musulmano che vuole un luogo per pregare o qualsiasi altro essere umano individuato come ostacolo al proprio benessere mettendo a rischio la convivenza civile che si basa ancora sulla certezza aristotelica che l'uomo è animale politico, cioè immerso nelle relazioni sociali. 

Detto questo, che è poi il motivo per il quale critico profondamente la politica leghista e la ritengo incompatibile con una destra seria e che ha senso dello Stato, la retorica del vittimismo con cui l'altra parte affronta il tema fa cadere le braccia. Inventarsi ancora l'uomo nero, il fascista cattivo e armato come prototipo di razzista perfetto (mentre si trattava probabilmente solo di persona scarsamente dotata intellettualmente e con propensione alla violenza per appagare le proprie frustrazioni) è escamotage da armamentario propagandistico sgangherato. La verità è dunque che un'intera classe politica si mostra inadeguata, ansiosa di preservare il proprio orticello, priva anche del prestigio necessario per alzare la voce a Bruxelles e pretendere gli aiuti che spettano a un paese membro in cui gli sbarchi stanno diventando un'emergenza non più tollerabile. Morale della favola: era meglio non guardarlo AnnoUno. Innocenzi fa rimpiangere Santoro. Salvini fa rimpiangere Bossi. Kyenge fa rimpiangere Vendola. E ho detto tutto...  

giovedì 15 maggio 2014

Chiesa e politica: la rivoluzione silenziosa di papa Francesco


Luciano Lanna

A seguire il testo del mio articolo che compare sull'ultimo numero di "Rivista di Politica" (Rubbettino edizioni)

A un anno dall’elezione di Papa Francesco pochissimi osservatori si sono sinora soffermati con cognizione di causa sul fatto che l’impatto nell’immaginario dei suoi gesti e delle sue parole ha operato una rivoluzione, silenziosa ma profonda, nella percezione pubblica di tutta una serie di dinamiche relative alla sfera politica. Dalla tradizionale collocazione di ciò che viene pensato come di sinistra o di destra al ruolo pubblico della Chiesa cattolica, dagli automatismi di orientamento geopolitico al giudizio sulla globalizzazione e i processi economici internazionali sino alla visione di una Chiesa e di un Occidente in difensiva contro una presunta deriva relativista del mondo.
Fin dai primi mesi di pontificato, infatti, papa Bergoglio ha imboccato con energia nuove vie, seguendo una road map e un percorso ancora tutti da scoprire nelle loro implicazioni. Ma che certo si affrancano dalla fraseologia e dagli armamentari concettuali partoriti almeno per trent’anni intorno alla categoria della «rilevanza pubblica» della Chiesa cattolica, quelli su cui ancora si attarda il pensiero dominante in diversi episcopati nazionali oltre che in molti circoli intellettuali e in molti think tank delle élite occidentali.
Intanto, emerge nelle parole e nei gesti di Francesco l’autoemancipazione da ogni pretesa di guidare i processi storici e politici: «La Chiesa non si occuperà di politica… Non mi sono rivolto soltanto ai cattolici ma a tutti gli uomini di buona volontà… Le istituzioni politiche sono laiche per definizione e operano in sfere indipendenti…». Una consapevolezza, questa di Bergoglio, che sprigiona una libertà e una flessibilità inediti nel discernimento dei fatti e delle dinamiche geopolitiche ed economiche, agile quindi nel dribblare le tradizionali logiche di schieramento e le trappole degli scontri di civiltà. Nelle parole pronunciate all’Angelus dell’8 settembre 2013 sul traffico d’armi che alimenta le guerre (con verosimile allusione al conflitto siriano) o in quelle rivolte ai lavoratori e ai disoccupati di Cagliari sul «sistema economico idolatrico» che insegue l’idolo del denaro autogenerato e non ha remore nel trasformare in disoccupati milioni di lavoratori, riecheggiano nient’altro che le luminose intuizioni dei padri cristiani dei primi secoli. Un cristianesimo senza alcuna mediazione mondana e senza sovrastrutture ideologiche. Riecheggia, semmai, la lezione di Sant’Agostino, che nella Città di Dio ammirava le virtù pagane che hanno reso grande Roma, ed esaltava la pace come bene prezioso anche per la Città celeste.
Nel suo cammino nel mondo, insomma, con Papa Francesco la Chiesa procede senza zavorre e senza armature, liberandosi definitivamente dalla strategia dell’attenzione che l’aveva circuita e affiancata nell’ultimo quindicennio a opera degli ambienti che potremmo riassumere dietro le etichette di teo-con e atei-devoti e che si giustificava, in parte, con l’assunzione da parte di alcuni ambienti ecclesiastici di una visione della Chiesa battagliera sul palcoscenico della politica. Quanto d’un tratto siamo lontani, in poco tempo, da dieci e più anni di dibattito sui “valori non negoziabili”, sull’offensiva contro il relativismo, sulla “difesa” della cittadella cristiana. Anche quando dice che «un buon cattolico si immischia in politica» il Papa aggiunge infatti che il servizio più grande che un cristiano ha da offrire «ai governanti» è la preghiera. Quello che scompare è infatti l’orizzonte del cristianesimo pensato e vissuto come una “cultura” come le altre, da difendere e affermare…
Sui un altro versante, non molti analisti si sono soffermati come meritava su un’affermazione di Papa Bergoglio espressa nel corso della sua lunga intervista concessa a padre Antonio Spadaro su Civiltà Cattolica. «Non sono mai stato di destra», ha riconosciuto Francesco, contravvenendo a una vecchia e tacita convenzione secondo cui i pontefici della Chiesa cattolica dovrebbero sottrarsi a questioni che riguardano le umane, troppo umane, collocazioni politico-ideologiche. E a nostro avviso si tratta in realtà di un’ammissione che, se interpretata e tematizzata correttamente, consentirebbe di aiutarci a percepire in tutte le sue valenze l’impatto del nuovo pontificato sull’immaginario complessivo della politica. Lo consentirebbe proprio perché proviene da una figura che, stando alle letture convenzionali e alla più immediata vulgata mediatica, tradizionalmente avrebbe quantomeno dovuto sfuggire e non prendere posizione di fronte alla morsa della categorizzazione destra/sinistra. Inoltre è una osservazione che spiazza e porta “oltre”, non funziona con la banale logica alternativa – non di destra, quindi di sinistra – ma spinge a sparigliare la percezione della realtà come universo a due campi, o di qua o di là.
D’altronde, è anche per la sua storia pastorale e personale, che oltretutto è legata a temi indiscutibili come la difesa della famiglia e della vita sin dal concepimento e a definite matrici politico-culturali proveniente dal suo milieu, che Jorge Mario Bergoglio è arrivato a determinare  una vera e propria rivoluzione nei riflessi condizionati e negli schematismi politico-culturali otto-novecenteschi. Ha annotato, non a caso, a caldo Vittorio Messori, subito dopo la sua elezione al soglio di Pietro e le sue prime esternazioni: «Molti nella Chiesa erano perplessi per uno stile in cui sembrava di avvertire qualcosa di populista, di sudamericano che in gioventù non fu insensibile al carisma di Peròn…». Contesto e milieu “peronista” che tornava nelle stesse parole del Papa riportate nell’intervista a Civiltà cattolica, laddove Bergoglio dovendo citare i “suoi autori” di riferimento parlava “ovviamente” di Dante, di Borges, ma anche del “peronista” Leopoldo Marechal, l’autore di Adán Buenosayres… D’altronde l’argentino Carlos Gabetta, politologo e studioso del peronismo, interpellato sul tema ha dovuto ammetterlo: «L’immagine di semplicità popolare del Papa è autentica, così come autentica è la cultura peronista che rivelano i suoi gesti». Aggiunge Francisco Mele, successore di Bergoglio al Collegio universitario del Salvador di Buenos Aires: «Questo Papa rappresenta la voce dell’America Latina, non è solo un patriota argentino, forse un peronista. Come ama dire lui stesso, egli parla per tutti i popoli…».


D’altronde, il giovane gesuita Bergoglio fu molto vicino all’esperienza dei cura villeros, i religiosi che scelsero le favelas argentine per testimoniare che Cristo stava coi poveri. E che si coinvolsero con piglio generoso nelle lotte popolari degli anni Sessanta e Settanta. Da vescovo, il futuro Papa Francesco, istituì tante nuove parrocchie nei quartieri operai di Buenos Aires e manifestò concretamente l’opzione preferenziale per i poveri. Come ha raccontato il giornalista e vaticanista Gianni Valente (in Francesco. Un Papa dalla fine del mondo, EMI, Bologna 2013), negli anni Settanta «i cura villeros si misero a costruire cappelle dai nomi inequivocabili (Santa Maria Madre del Pueblo a Bajo Flores, Cristo Obrero a Villa de Retiro, Cristo Libertador a Villa 30) dove celebrare battesimi, matrimoni e funerali, recitare rosari, organizzare processioni, nello stesso momento  in cui ogni giorno lavoravano per sostenere le istanze materiali e politico-sociali dei vollero: commissioni per l’acqua, per le fogne e l’elettricità, per far arrivare anche alle villas un minimo di assistenza sanitaria, resistenza organizzata ai piani di demolizione periodicamente messi in campo dai diversi regimi militari, cooperative edili, mense popolari…».  Alcuni di questi preti, molto amici di Bergoglio, non nascondevano il proprio esplicito schieramento politico con la sinistra peronista: nel 1972, sull’aereo che riportava Peròn in Argentina per il suo ultimo, effimero ritorno al potere, c’era anche padre Jorge Vernazza, uno dei pionieri dei cura villeros e amico di Bergoglio, insieme a Carlos Mugica, il sacerdote martire di Villa de Retiro, freddato dai proiettili dei paramilitari l’11 maggio 1974, mentre tornava a casa dopo aver celebrato messa. Ma, come annota Valente, l’immanenza di questo clero alla vita reale dei poveri e, in particolare delle villas, li esponeva sin d’allora a incomprensioni di segno opposto: «C’era chi li considerava sovversivi in tonaca, preti contaminati dalla propaganda marxista; sull’altro fronte, anche gli intellettuali della sinistra progressista esterofila, compresi quelli di matrice ecclesiale, non trattenevano il loro illuminato disprezzo verso villeros così presi dai bisogni primari da non trovare il tempo per l’insurrezione politica, e verso i loro curati ancora trattenuti da rosari e Madonne, messe e confessioni…».
Come interpretare d’altronde il passo della già citata intervista a padre Spadaro su Civiltà Cattolica in cui Bergoglio riconosce la sua costante difficoltà di fronte ai tentativi di catalogazione del suo apostolato nel senso delle vecchie categorie ideologiche? «Il mio modo rapido di prendere decisioni mi aveva portato – riconosce – ad avere seri problemi e ad essere accusato di essere ultraconservatore. Ho vissuto un tempo di grande crisi interiore quando ero a Cordova… perché non sono mai stato di destra. Alla fine la gente si stanca dell’autoritarismo…». Un passo in cui è evidente la connessione imprescindibile dell’etichetta di destra a dimensioni come l’autoritarismo e il conservatorismo che, piaccia o meno, venono automaticamente connesse a quella specifica categorizzazione spaziale. Connessione che, tanto per dire, è automatica anche per una certa ossessione unilaterale per le cosiddette “questioni etiche” o sensibili. Dalla quale ossessione, ancora, Papa Bergoglio aveva e ha sempre preso le distanze spiegando la necessità di anteporre la “buona novella” evangelica a qualsiasi professione di fede moralista tutta giocata sui valori: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Ma questo mio non insistere mi è stato rimproverato…». D’altronde, anche da primate della Chiesa argentina Bergoglio si era sempre tenuto lontano dai toni da crociata di chi fa la difesa dei valori non negoziabili e dei temi di morale sessuale l’orizzonte esclusivo del magistero ecclesiale.
Tutto questo si è reso esplicito martedì 26 novembre 2013, quando Papa Francesco ha reso pubblica la sua prima esortazione apostolica, intitolata Evangelii Gaudium (“La Gioia del Vangelo”). In particolare Papa Francesco affronta alcune questioni di carattere dottrinale e indica alcune «vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni»: tra le altre cose, allude a «una conversione del papato» sulla via di una «salutare decentralizzazione» e dice che la chiesa deve dialogare con le altre religioni («condizione necessaria per la pace nel mondo») e – anche – con i non credenti. Il testo affronta poi anche questioni che hanno direttamente a che fare con la sfera politica e l’economia. Esplicitando una serie di posizioni che sono state etichettate come “anticapitaliste” in realtà solo perché definiscono il superamento da parte della Chiesa cattolica dalle posizioni storicamente anticomuniste assunte nel Novecento.
Infine, ci sono diversi passaggi che, a sorpresa, affrontano questioni legate alle donne, ai loro diritti e anche all’aborto. «La Chiesa riconosce l’indispensabile apporto della donna nella società», scrive Papa Francesco, ma «c’è ancora bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa». Deve essere garantita la presenza delle donne «nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, tanto nella Chiesa come nelle strutture sociali». Sull’aborto, poi, Papa Francesco spiega che oggi si pretende di «negare dignità umana promuovendo legislazioni» ai «bambini nascituri» e che la chiesa, su questo, non cambierà la propria posizione («Voglio essere del tutto onesto al riguardo. Questo non è un argomento soggetto a presunte riforme o a “modernizzazioni”»). Però, sottolinea, «è anche vero che abbiamo fatto poco per accompagnare adeguatamente le donne che si trovano in situazioni molto dure, dove l’aborto si presenta loro come una rapida soluzione alle loro profonde angustie». Se a questo si aggiungono le parole del Papa sui separati e i divorziati, versoi quali – ha più volte sottolineato Francesco – l’atteggiamento misericordioso della Chiesa, non può che essere di apertura, il quadro è abbastanza chiaro.
L’ultima rivoluzione di Bergoglio riguarda, infine, l’orizzonte geopolitico. Le convulsioni e le tragedie della storia – dai migranti e i profughi affogati nel Mediterraneo alla strage di lavoratori morti nel crollo del Rana Plaza, in Bangladesh – non sono mai state ignorate dal magistero giorno per giorno del Papa che si è definito «quasi alla fine del mondo». Ma nei giorni che hanno preceduto e seguito la grande veglia di preghiera e digiuno per la pace, sabato 7 settembre 2013, la “scossa” trasmessa dal nuovo vescovo di Roma si è avvertita forte. Se si ripercorre infatti la sequenza dei gesti, dei temi e delle parole di papa Francesco davanti alla tragedia siriana e alla prospettiva di un intervento militare a guida statunitense, appare evidente che in quel frangente Bergoglio ha innescato processi inattesi e prefigurato scenari inediti. Sabato 7 settembre, in Piazza San Pietro, è storica la veglia di digiuno e preghiera per la pace, a cui si uniscono a Roma e in tutto il mondo credenti di tutte le religioni (ma anche di nessuna religione): dal gran muftì di Damasco Ahmad Badreddin Hassousi a Emma Bonino, dai musulmani di Nahdlatul Ulama in Indonesia a quelli coinvolti nel movimento interreligioso Silsilah, nell’isola filippina di Mindanao. Qualche giorno dopo, quando la Russia di Putin e gli Stati Uniti di Obama si mettono d’accordo sulla proposta di distruggere le armi chimiche siriane con il consenso del regime di al-Asad, il patriarca di Gerusalemme dei latini definisce la svolta diplomatica come un «miracolo» avvenuto dopo le preghiere volute da Bergoglio.
Intanto, se il punto prospettico da cui la Chiesa guarda alle vicende del Medio Oriente non può che essere quello delle comunità cristiane disseminate nei paesi arabi, il papa argentino non offre appigli ai circoli occidentali che strumentalizzano le disgrazie e le persecuzioni dei cristiani d’Oriente per fomentare sentimenti islamofobici. Ricordiamolo: Bergoglio saluta da Lampedusa i «fratelli musulmani»  che stanno per iniziare il Ramadan. Firma di suo pugno  il messaggio di auguri per la fine del mese di digiuno islamico, rivolgendosi ai musulmani anche all’Angelus dell’11 agosto.
In papa Francesco, insomma, non trovano sponde utili le teorizzazioni di chi negli anni passati voleva arruolare anche la Chiesa cattolica nel proprio sentimento di superiorità rispetto al mondo islamico e nella presunzione “pedagogica” di insegnare all’Islam i percorsi verso la democrazia e la modernità. Un altro tassello, dalle grandi conseguenze, del cambiamento di percezione che Bergoglio ha impresso nella sensibilità pubblica.



Costanzo Preve: ecco cosa dovrebbe fare la filosofia...




Un'interessante riflessione di Costanzo Preve

L'economicizzazione capitalistica post-borghese integrale di tutti i rapporti umani e sociali presuppone non soltanto l'archiviazione dell'economia pianificata del comunismo storico novecentesco defunto (1917-1991), ma anche l'inevitabile erosione progressiva di tutte le conquiste del secolo socialista e socialdemocratico, ribattezzato secolo degli orrori e ridotto simbolicamente al solo genocidio ebraico hitleriano (ciò che Carl Schmitt definì reductio ad hitlerum). Il ceto politico di rappresentanza dev'essere normalizzato e da ceto di rappresentanza deve essere convertito in ceto di governance. La governance non si fa più mediando interessi sociali organizzati, il che comporterebbe la vecchia sovranità monetaria e militare dello stato nazionale, ma viene imposta da oligarchie tecniche specializzate di banchieri, finanzieri ed "esperti". Mentre il pensiero liberale, sulla scia di Popper, si ingegna a delegittimare Platone, Hegel e Marx ridotti a nemici della società aperta, il liberalismo chiude la stessa società che pure vuole a parole "aperta". Una società ridotta ad un grande mercato finanziario globalizzato, teatro di una economicizzazione integrale di tutti i rapporti umani e sociali, non è affatto aperta, ma anzi è chiusa, chiusissima. Compito del pensiero filosofico dovrebbe essere la denuncia ragionata di quetso incubo orwelliano fatto passare per trionfo della libertà...

(da C.Preve-L.Tedeschi, Lineamenti per una nuova filosofia della storia, I Centotalleri 2013)

mercoledì 14 maggio 2014

Il desolante silenzio sul Tibet in fiamme



Francesco Pullia

In Tibet si brucia. Anche in questi giorni. Nel quasi totale silenzio dell’informazione, sono arrivati a 131 i tibetani che negli ultimi cinque anni hanno deciso di sacrificare la propria vita con il fuoco per denunciare al mondo intero la repressione attuata dalla Cina nel loro paese. Le fiamme si alzano, i corpi si anneriscono. Il pensiero inevitabilmente corre al lontano 1963, al monaco vietnamita che nel centro di Saigon si immolò per protestare contro la politica di discriminazione religiosa del proprio governo. Un inferno durato circa un quarto d’ora, senza grida, senza lamenti, che allora scosse l’opinione pubblica. Le sconvolgenti immagini del martirio fecero il giro dei quattro angoli del pianeta. Trentacinque anni dopo, ma in un altro contesto, un analogo gesto. A New Delhi, Pawo Thupten Ngodup, uno dei centomila esuli tibetani riusciti fortunosamente a raggiungere l’India, militante del Tibetan Youth Congress (un’organizzazione giovanile che rivendica l’indipendenza del Tibet dal mostro cinese), anziché consegnarsi alla polizia indiana, che voleva obbligarlo a smettere uno sciopero della fame protrattosi da una cinquantina di giorni, preferì trasformarsi in una pira. Speravamo rimanesse un caso isolato. Purtroppo non è stato così.
Sono tanti, troppi, i giovani, monaci o laici, che, con un incremento dal 2009 ai nostri giorni, hanno seguito il suo esempio. Può sembrare assurdo, e difatti lo è, darsi la morte in questo modo atroce. Ma il giudizio diviene meno perentorio una volta che ci si renda conto di quanto sia straziante assistere al genocidio del proprio popolo da parte di un paese straniero, alla tragedia di una terra invasa nel 1950, in spregio al diritto internazionale, dalle truppe della Repubblica popolare cinese e teatro, nella deplorevole inerzia degli stati occidentali, di una spietata colonizzazione. Basti considerare che nell’altopiano himalayano culla del buddhismo lamaista, i tibetani sono ridotti ad una minoranza di appena sei milioni, rispetto a quasi dieci milioni di immigrati cinesi. Non è un caso che la Cina si sia spesa nella costruzione della linea ferroviaria più alta del mondo, nota come la Pechino-Lhasa, che arriva a transitare ad oltre 5000 m. sul livello del mare. L’invasione del Tibet da parte dei cinesi non conosce soste e, come una piovra, abbraccia tutto.
Se sei tibetano, in Tibet non puoi studiare e parlare la tua lingua, praticare il buddhismo, seguire la millenaria tradizione della tua gente, sventolare la bandiera della terra in cui sei nato (quella con i raggi rossi e blu, il sole splendente, i due leoni di montagna, i simboli che rimandano all’insegnamento buddhista) e tanto meno avere un’immagine del Dalai Lama, il leader religioso e politico, fervente e rigoroso sostenitore della nonviolenza, costretto, come si sa, dai cinesi a fuggire nel 1959 in India, a Dharamsala, nella regione dell’Himachal Pradesh. Se te la trovano addosso o in un angolo della casa, ti spediscono dritto dritto a marcire in galera o in un campo di concentramento.
Il processo di annientamento dei tibetani viene scientemente perpetrato dalla Cina tramite la disintegrazione della loro identità, lo stravolgimento di abitudini e costumi, il severo controllo delle nascite (anche con il ricorso alla sterilizzazione e agli aborti forzati), la deforestazione e il depauperamento delle preziose risorse boschive e minerarie, la trasformazione di vaste aree in depositi di scorie radioattive, l’urbanizzazione di numerosi gruppi nomadi abituati da sempre a vivere di pastorizia, l’immissione di colture intensive del tutto estranee alla vocazione del territorio.



In breve, il Tibet di oggi rischia di sparire, interamente fagocitato da Pechino. Poco dell’inestimabile patrimonio artistico, culturale, religioso, si è salvato dalla furia iconoclasta delle guardie rosse maoiste che, nel 1969, oltre a sottoporre monaci e abitanti ad umilianti processi “rieducativi”, ridussero in macerie più di 6500 tra templi e monasteri. Gli occidentali non devono lasciarsi fuorviare dalle attuali finte ricostruzioni: rispondono esclusivamente a una bieca operazione di marketing turistico. Il danno ormai è irreparabile e se una cultura plurisecolare non si è, per fortuna, ancora dissolta lo si deve alla tenace opera dei profughi che, sulle orme del Dalai Lama, sono riusciti a scappare dall’inferno, traversando, in viaggi rocamboleschi, altitudini impervie ricoperte di ghiaccio e piene di insidie. Molti ce l’hanno fatta. Tanti altri, purtroppo, no e sono morti sopraffatti dal gelo e dalla fame o colpiti dalle pallottole dei militari cinesi. Dietro l’immagine macchiettistica, quasi da Disneyland asiatico, che la Cina vorrebbe veicolare del Tibet, ad uso e consumo di sprovveduti occidentali, si cela, in realtà, una tragedia d’immane portata che non può e non deve lasciarci indifferenti.
Quei corpi carbonizzati ci chiamano implorando aiuto. Testimoniano, bisogna pur dirlo anche se con amarezza, il fallimento della politica di dialogo con il Leviatano cinese inutilmente caldeggiata da venticinque anni dallo stesso Dalai Lama. Splendide intenzioni finite in fumo. Invano la guida spirituale tibetana ha ostinatamente perorato una “via di mezzo” che salvasse il salvabile rivendicando per il suo Tibet non l’indipendenza ma l’autonomia all’interno del composito impero cinese. Niente da fare. La sua saggezza ha dovuto arenarsi dinanzi alla tetragona arroganza di Pechino. E così colui che è ritenuto incarnazione del Buddha della compassione è stato costretto a sopportare vergognosi ritardi, colloqui dilazionati e privi di significato tra i suoi rappresentanti e i funzionari comunisti cinesi, ridicolizzato, accusato di capeggiare una “cricca separatista" il cui scopo è la destabilizzazione del regime. Emblematiche, in questo senso, le pressioni esercitate dalla satrapia cinese ogniqualvolta il Dalai Lama si rechi in visita in uno stato. Si pensi alle minacce rivolte, nel febbraio di quest’anno, al presidente americano Obama o a quelle indirizzate al primo ministro norvegese Erna Solberg costretto, l’8 maggio, ad ignorare l’arrivo ad Oslo della guida buddhista. “Da anni i nostri rapporti con la Cina sono difficili”, ha cercato di giustificarsi. Pechino ha interrotto le relazioni commerciali e declinato gli incontri bilaterali con la Norvegia da quando, nel 2010, fu assegnato il Nobel per la pace allo scrittore dissidente Liu Xiaobo, a tutt'oggi ancora detenuto. La decisione del governo di Oslo, che in passato ha manifestato simpatia e sostegno alla causa tibetana (il Dalai Lama è stato insignito nel 1989 del premio Nobel per la pace), è indice di resa, debolezza, capitolazione.
Certo è che finché gli interessi economici continueranno ad avere il sopravvento sulla questione dei diritti umani in Tibet e in tutta la Cina, il governo di Pechino si sentirà legittimato a ritenersi intoccabile e a spadroneggiare. Ma da nessuna parte è scritto che l’economia debba per forza mettere in secondo piano il rispetto di diritti inderogabili. Un economista del livello di Amartya Sen ha dimostrato, anzi, il contrario, e cioè che democrazia e sviluppo non sono termini antitetici ma, appunto, straordinariamente interconnessi. Dovrebbero saperlo quanti, da noi, si fanno promotori di sciagurate iniziative volte a sbandierare, nel segno del peggiore opportunismo e di un machiavellismo da quattro soldi, gli “strabilianti” traguardi ottenuti da Pechino guardandosi bene, per non offendere la suscettibilità di funzionari d’ambasciata, dal toccare il tema della violazione dei diritti in un paese che detiene il triste primato di esecuzioni capitali.
Un cambiamento di rotta è necessario se non vogliamo che ci ricada addosso l'onta di centinaia di torce umane. Una presa di coscienza terrorizza i governanti cinesi più di un devastante terremoto. La loro cecità e la loro spavalderia nascondono, in realtà, la paura che, prima o poi (speriamo presto, molto presto), anche nella terra del Dragone si verifichi un cataclisma politico analogo a quello che spazzò via il totalitarismo comunista nell’Est europeo. Ecco perché togliersi la vita è considerato da Pechino un intollerabile atto sovversivo che non deve essere visto e conosciuto. I poliziotti girano con gli estintori nelle città tibetane, pronti a intervenire. Se qualcuno si dà fuoco, i testimoni vengono immediatamente dispersi. Non si devono scattare foto o girare video. I corpi sono subito trafugati e fatti sparire. Chi diffonde notizie è sottoposto a durissime pene detentive.

Quanto durerà questa tragedia dipenderà da noi, solo da noi, da come saremo in grado di lasciarci investire, attraversare e coinvolgere da un appello che ci riguarda, eccome. Ne vanno di mezzo la nostra dignità e il senso stesso della democrazia, di quella democrazia le cui fondamenta, se veramente salde,  devono poggiare sulla fratellanza e sulla solidarietà. 

sabato 10 maggio 2014

Ceronetti e Quinzio: l'ineluttabile richiamo dell'abisso


Francesco Pullia

Da un lato un poeta sfrenatamente amante di quanto d’inespresso e inusitato si celi nella parola, gnostico, pessimista impenitente ma non per questo disperato, che all’orrore della caduta nel mondo contrappone un ghigno beffardo e disincantato. Dall’altro, un cristiano apocalittico che rivolta la fede come un calzino, fa dell’inconsolabile insoddisfazione che lo anima il perno della propria ricerca, trova ovunque i segni della debolezza di Dio dinanzi al devastante predominio del tragico, vive in attesa di una catastrofe redentrice.
Dal dialogo serrato tra queste due visioni, tanto contrapposte quanto speculari, è scaturito un intensissimo epistolario protrattosi per quasi un trentennio. Si tratta del carteggio (dal 1968 al 1996) tra Guido Ceronetti e Sergio Quinzio pubblicato in questi giorni da Adelphi con il titolo, straordinariamente pertinente, Un tentativo di colmare l’abisso.
Libro denso, trasudante profezia e provocazione (da intendere quest’ultima come non nascondimento e pervicace ribaltamento di angolazioni consuetudinarie), minuziosamente curato da Giovanni Marinangeli, autore, tra l’altro, di un ricco e ben documentato apparato di note in appendice.
All’ansia monoteistica che spinge Quinzio (nella foto qui sotto) ad una rilettura biblica del tutto fuori dall’ordinario, i cui esiti sono affidati a quattro commentari e a libri come La fede sepolta, Dalla gola del leone, Silenzio di Dio, La croce e il nulla, fa da contraltare lo scetticismo tagliente di Ceronetti (“il monoteismo assoluto”, afferma, “mi sembra la tomba del sacro (come il summum jus summa iniuria) e la causa, il suo universalizzarsi, della fine della tensione religiosa nel mondo civilizzato” e, più avanti, “il monoteista non è privilegiato neppure rispetto all’ateo, neppure nel grado di felicità o d’infelicità. Siamo uguali tutti davanti all’arca chiusa”). Due orizzonti che scorrono paralleli e, anche se talora sembrano intersecarsi, non si sovrappongono mai. Entrambi gli autori, ognuno con un timbro peculiare, danno voce ad una persistente lamentazione nei confronti dell’umano senza scegliere vie di fuga o cedere a mediazioni o arrendevolezze.



Al centro c’è il sacro, con la tensione che il suo richiamo e il suo occultamento comportano. Quinzio lo radica in Dio (“sacro è solo ciò che appartiene a Dio”) cogliendone la tragicità nella sua destinazione storica (“la strada che percorre il mondo”, scrive, “consistente nel rinunciare alla verità, è una tiepida strada di morte” e, ancora, “è solo Dio che sacralizza, che compie questo miracolo nella storia, che segna le cose col suo sigillo”). Ceronetti sostiene, invece, di sentirsi “nel sacro come un pipistrello nella sera”, avvinto da “un’attrazione inesplicabile, ma lucida e senza illusioni”: “il sacro come forza afferrante esiste, se mi sento afferrare, ma la sua definizione, se non ne restringiamo il senso, si perde”.
Al Quinzio per cui “bisogna credere disperatamente di poter conoscere il segreto di Dio (diventare Dio, è biblico) o scegliere di voltargli le spalle decisamente”, Ceronetti contrappone il suo “non cerco e non sento un Dio che può perdere contro la sua creazione” aggiungendo subito dopo, in postilla, “se è veramente sua”.
Per Quinzio “chi non muove dall’interno della propria tradizione è anti-tradizionale, cioè dissacrato e dissacrante” (“il nostro mondo, la nostra cultura, il nostro significato”, preciserà più in là, “piaccia o no, è determinato dal cristianesimo. Al di fuori c’è l’elusione, il pallido vino di rose di tutte le decadenze, nobile forse e certamente triste”) e la stessa tragicità di Giobbe non può essere compresa se non in una prospettiva cristiana. Ceronetti, al contrario, rifiuta di considerare tutto sub specie Christi. Per lui, è impossibile intendere Giobbe in chiave cristiana, così come interpretare nella stessa ottica il dettato veterotestamentario. È piuttosto interessato al Dio nascosto, a quel Dio che può essere trovato solo da chi, come tiene a rimarcare, “ne proclama la nascostità”. A Quinzio, provato dalla malattia della prima moglie, Stefania, e dalla sua prematura scomparsa, sembra che su tutto incomba un’infelicità assoluta: “se Dio va in esilio con Israele (in Ezechiele), se è con il fedele nella tribolazione (Salmo 91), se Dio muore sulla croce, si può dire che nell’autentica verità ebraico-cristiana ci sia un provvidenzialismo benevolo che serenamente “permette” il male? In realtà, invece, la “permissione” divina  è la permissione della sua stessa morte. Non dunque un “niente di troppo” fra bene e male, ma una lotta disperata fra troppo di male e troppo di bene”. Ancora: “Quello che sperimento è questo: tutto sempre fallisce e muore, eppure niente fallisce e muore mai del tutto”. E, di rimando all’amico che, come abbiamo visto poc’anzi, accennava ad un Deus absconditus, afferma che “se non si prende sul serio la  rivelazione di Dio, non si può prendere sul serio il suo terribile nascondimento”. È chiaro che, stando così le cose, l’abisso cui si accenna nel titolo del bell’epistolario non è colmato, né può esserlo. “Per me”, confessa Quinzio, “la croce insegna che anche la salvezza è un abisso, non un trionfo, è un brandello d’orecchio strappato come dice Amos dalla gola del leone. Ma io la voglio lo stesso a qualunque prezzo, un minimo ma reale e visibile sottrarsi alla morte sia pure d’un soffio (…) Meglio il dolore del nulla, questo dice la fede, fede che qualcosa ha senso”. E subito dopo: “L’impotentia Dei, la croce, è tema veterotestamentario fin dalle prime pagine della Genesi, e lo è in tutta la tradizione giudaica, fondata sulla consapevolezza dell’esilio di dio, nel suo popolo, dalla sua shekhinà”. La storia moderna gli appare come “un’attuazione nell’orizzonte mondano delle grandi speranze cristiane fallite”. La stessa salvezza cristiana si capovolge, per lui, in disperazione: “Disperazione di non riuscire a essere “prossimi” a nessuno; di vedere che il perdono non impedisce il rinnovarsi della colpa, e viene perciò deluso e vanificato; di essere condannati, venti secoli dopo la venuta del Salvatore, a un’attesa della salvezza non più sostenibile”. È la fede ad impedire “pazienza e rassegnazione, perché mantiene un’assurda tensione nel confronto folle con una possibilità diversa, una “salvezza” lontani da ogni pena”.



Con l’amico, cui attribuisce “la stoffa violenta” e “l’intolleranza” del “disputatore teologico”, Ceronetti (nella foto qui sopra) concorda nel rigettare la barbarie del e nel mondo, una barbarie che, com'egli annota, si riscontra in diverse manifestazioni, dal carattere arrogante e impositivo della medicina ufficiale ai mattatoi. Ma, a differenza di Quinzio che ribadisce l’attrazione per la “resurrezione dei morti, in cui si toccano la tenerezza del ritrovamento e l’estremo orrore del macabro”, scrive di non sentirsi affatto disperato perché esente dall’idea di salvezza.
A Quinzio che afferma di vivere “nell’attesa di una catastrofe risolutiva”, Ceronetti replica di presagire sì la catastrofe, di cui un aspetto è lo sconvolgimento ambientale, ma di non attenderla “come parusia cristiana”. “Non spero niente dalla storia e dal tempo", ammette con il cuore che “ogni tanto vaga per i Gangi e per i conventi taoisti”: “la storia e il suo finito non mi possono persuadere, il tempo non mi si chiude in un ruotare di lancette che trafiggono, insomma la tortura non me la vado a cercare (questo è più ebraico che cristiano, forse)”. Alla speranza “paolina” di Quinzio “di non essere spogliato dalla morte ma sopravestito dalla resurrezione”, Ceronetti, disilluso, contrappone la ricchezza di una parola discesa sul caos, una parola che cerchi di "rendere poetico l'ineluttabile".