domenica 29 giugno 2014

Renzi non ha un'idea forza? Ma anche il centrodestra non sta messo tanto bene...





Annalisa Terranova

Sul Corriere della Sera di domenica 29 giugno Ernesto Galli della Loggia ha dedicato un'analisi al futuro di Matteo Renzi. Secondo lo storico ciò che mancherebbe al premier è un'idea-forza. La stessa che sarebbe mancata a Berlusconi vent'anni fa. Si tratta di una tesi suggestiva e, come spesso accade per le tesi suggestive, esiste più nella testa di Galli della Loggia che nella realtà. L'idea-forza di Renzi è la rottamazione, la stessa che aveva Berlusconi vent'anni fa, solo che quella di Berlusconi si declinava in altro modo: l'Italia non è di sinistra e si possono fare le dunque le riforme che la sinistra ha sempre demonizzato. Ciò che ha impedito a Berlusconi di andare avanti nel processo di innovazione è stato il riciclaggio di vecchi arnesi e di vecchi armamentari propagandistici (operazione cui anche Alleanza nazionale, da molti a torto rimpianta, si prestò con sciatta dedizione). Nel caso di Renzi questa idea-forza è ancor di più depotenziata, perché si lega solo a un dato anagrafico e inconsistente. Compromessi e resistenze non mancheranno di far evaporare del tutto la carica innovativa del Renzi vincitore delle primarie (dopo le quali poco si è visto). Galli della Loggia scrive cose molto interessanti ma a volte prive di fondamento. Tutti ricordiamo l'accusa di impresentabilità lanciata agli ex-missini nella seconda metà degli anni Novanta. Eppure, a distanza di tempo, l'unica destra di governo di cui non ci si debba vergognare è stata proprio quella incarnata dagli ex missini divenuti sindaci di piccoli centri dal '93 in poi. Ma ormai questa è polemica superata: qualcuno invece dovrebbe spiegare perché la missione della destra sarebbe quella di costruire l'alternativa a Renzi e non quella di emendare se stessa dai propri difetti, ormai incardinati al punto in quell'area da essere scambiati dall'opinione pubblica come elementi costitutivi di una forza disposta sempre a contrabbandare per progetto politico una semplicistica propaganda (lavoro ben fatto da Salvini, che infatti prende più voti della destra tradizionale). Renzi è all'inizio della partita. Mentre lui si impegna, gioca e fa i suoi sbagli (logorandosi) bisognerebbe prepararsi per il dopo. Ragionare sui tempi lunghi. Esattamente ciò che la parte avversaria non sta facendo ritirando fuori la trita formula dell'unione di tutte le forze che non si riconoscono a sinistra. Un campo dove è necessario invece differenziare, in termini di qualità e di persone. E dove è necessario anche scartare i veri impresentabili. 

venerdì 27 giugno 2014

Per farla finita con il santino di Almirante (e di Berlinguer e di Andreotti)


Pubblichiamo il testo dell'articolo pubblicato venerdì 27 giugno sul quotidiano "Il Garantista"

Luciano Lanna

Ricorre oggi il centenario della nascita di Giorgio Almirante. Un anniversario che, forse per le solite apparentemente casuali coincidenze, cade nello stesso anno del trentennale della morte di un altro protagonista della politica a lui contemporaneo, Enrico Berlinguer. Ma per entrambe le figure il tempo trascorso negli ultimi decenni paradossalmente è come se inducesse una sorta di illusione ottica, alimentandone una lettura e una iconizzazione che finiscono in parte per rovesciarne il ruolo e il bilancio politico. Così Berlinguer, l’uomo dell’apparato del Pci e il regista principe della vocazione alla mediazione e al compromesso realistico, è finito per venire esaltato e celebrato ex post da chi oggi vorrebbe combattere  quel che resta di quell’apparato e da chi è avversario dichiarato dell’inciucio e delle tattiche politicanti. Almirante, a sua volta, è finito per venire adottato come presunto modello di una destra egemonica e vincente anche da chi nel periodo della sua guida del Msi lo contestava energicamente e gli contestava la tattica politicante da “pesca delle occasioni”.
Sia ben chiaro: il peso storico e il ruolo svolto dai due uomini politici rimane storicamente indiscutibile, ma nel senso che la storia non si fa con i “se” e che le decisioni assunte hanno sempre conseguenze da cui non si torna indietro e che pregiudicano gli accadimenti futuri. Resta però il fatto che nei processi dell’immaginario politico il tempo non è mai galantuomo e che – come ha annotato Andrea Colombo – “di solito fa ingiustizia sostituendo la memoria con il mito”.
Molto incide in questo processo di costruzione dei “santini” – vale per il missino Almirante e il comunista Berlinguer come per l’avversario e il vincitore sui due nel periodo di azione delle loro strategie politiche, il democristiano Giulio Andreotti – non solo il tempo trascorso ma soprattutto il soffermarsi da parte dei costruttori della leggenda postuma su episodi individuabili solo nell’ultimissima fase delle lunghe parabole politiche degli stessi personaggi. E così, solo per fare un esempio, di Berlinguer qualcuno ricorda il telegramma di dolore inviato nel 1983 dal leader comunista alla famiglia dell’agonizzante Paolo Di Nella, ragazzo missino che morirà per le sprangate ricevute mentre affiggeva manifesti. Oppure di Almirante la sua visita nel 1984 alla camera ardente del defunto “avversario” Berlinguer e le sue parole in uscita: “Non sono venuto per farmi pubblicità ma per salutare un uomo estremamente onesto”. Così come, quattro anni dopo, si ricorderà la visita di Giancarlo Pajetta alla camera ardente di Almirante. Una cosa è certa: permane nella riproposizione continua di questi episodi un atteggiamento funzionale a una narrazione tendente a censurare tutte le dinamiche di conflitto e di vera dialettica politica.
Sullo stesso piano si pongono le operazioni di sottolineare i discorsi di Berlinguer sulla “questione morale” o il presentare Almirante come l’anticipatore nel dibattito pubblico del “presidenzialismo”. Quando si tratta in realtà di temi tardivi e che – come già accennato – appartengono alle fasi finali delle parabole politiche di Berlinguer e di Almirante, quelle successive al 1979-80. Sarebbe invece compito dello storico spiegare la logica (le contraddizioni e anche gli scacchi) dei periodi propulsivi e strategici, sia del berlinguerismo che dell’almirantismo, quelli tra il 1968 e il ’79, anno in cui le elezioni politiche segnarono la sconfitta definitiva sia del Pci di lotta e di governo che dell’ipotesi della destra nazionale. Si determinò allora lo spartiacque che segnò il fallimento del progetto berlingueriano di tenere assieme spinte anche contrastanti e divergenti in una logica di lotta e di governo. Come era possibile, d’altronde, tenere insieme la richiesta dei ceti piccolo-borghesi che si rivolgevano al Pci in quanto partito legalitario con spinte di sinistra, quando non estremiste, insieme  alla richiesta di una politica di austerità paradossalmente contemporanea al liberatorio vento libertario che soffiava dal ’68?  Allo stesso modo, sul versante missino, sarà proprio una sorta di una simile strategia del compromesso tendente a tenere insieme spinte contraddittorie che caratterizzò la segreteria di Almirante. Il quale, arrivato alla guida del partito nell’estate del 1969, inaugura la sua leadership – per citare il politologo Marco Tarchi – miscelando “in dosi equilibrate retorica dell’intransigenza e prassi del compromesso”. Come si potevano tenere insieme la maggioranza silenziosa con le spinte che portarono, nel 1970, alla rivolta di Reggio? Come si poteva contemporaneamente varare la “destra nazionale” e la defascistizzazione moderata del Msi e allo stesso tempo richiamare a collaborare gli esponenti della sinistra neofascista attraverso l’Istituto di studi corporativi voluto dallo stesso Almirante? Come ci si poteva rivolgersi alle giovani generazioni, come si fece con la fondazione del Fronte della Gioventù, da parte dell’uomo politico che nel ’68 s’era spinto con un  servizio d’ordine all’università di Roma per “liberarla” dagli contestatori? L’instabile combinazione di queste spinte contraddittorie proiettò però il Msi di Almirante in un inatteso protagonismo spingendo quel partito a vestire i panni più diversi, dalla difesa degli scontri di piazza all’ambizione di fungere da ago della bilancia per la fiducia a governi “chiusi a sinistra”. Ed elettoralmente, insieme all’affermazione di Almirante come abile comunicatore televisivo, tutto ciò si tradusse in una complessa sequenza di fasi alterne: l’avanzata di consensi dopo molti anni nelle amministrative del ’70 e nelle elezioni siciliane e romane dell’anno successivo, il raddoppio della rappresentanza parlamentare nel ’72, insufficiente però a determinare un ruolo determinante degli equilibri politici ma più che sufficiente a far nascere da parte dc la logica dell’arco costituzionale e della minaccia degli opposti estremismi. Da cui ghettizzazione e i cali elettorali degli anni successivi. Poi, da parte di Almirante, senza alcuna risoluzione delle contraddizioni della sua strategia e in assenza di autocritica, seguì il ripiegamento sul nostalgismo e addirittura la chiusura quasi compiaciuta nel ghetto.

Detto questo, e molto si potrebbe aggiungere di significativo sulle contraddizioni sia di Berlinguer sia di Almirante ai tempi del referendum sul divorzio, avendo entrambi equivocato quanto stava avvenendo nella società italiana, resta il fatto che sarebbe molto utile interrogarsi su quanto le figure di cui stiamo parlando abbiano pesato sui processi di lungo periodo della nostra vicenda politica nazionale. E questo non significa parlar male di nessuno, ma semmai farla finita con la logica edulcorata e fuorviante dei santini. Per arrivare a interpretare l’oggi non solo sotto il punto di vista delle protagonisti, ma anche attraverso quello di altre figure, siano esse Aldo Moro o Bettino Craxi, Emanuele Macaluso o Pino Romualdi, Marco Pannella o Beppe Niccolai. Attraverso le strategie degli uni ma, anche, le ragioni degli altri… 

sabato 21 giugno 2014

"Sangue sparso", le ragioni di un'operazione culturale fallita





Annalisa Terranova

Vediamo se si può parlare di "Sangue sparso" in maniera non emotiva e razionale. Mi pare assodato che non sia un prodotto professionale e che il tema, così importante e trascurato da ogni tipo di narrazione collettiva del Paese, avrebbe meritato una squadra più esperta e forse anche più "distaccata" dagli eventi raccontati. Questo lo capisce anche un bambino di dieci anni vedendo quel film. Non mi interessano le polemiche su chi avrebbe speculato sulle vittime e sui soldi ricevuti per la realizzazione. Si tratta di aspetti marginali, che testimoniano solo il livello di cannibalismo interno raggiunto ormai dall'ambiente della destra italiana (dove sbranare l'ex camerata è lo sport preferito).
C'è qualcosa che non va, che non convince e che da subito produce una sensazione negativa nello spettatore. Mi sono chiesta cosa potesse essere. Una prima possibile risposta è questa: è come se si fosse scelto di affiancare tante "figurine", le foto dei ragazzi assassinati come siamo abituati a vederle nei manifesti commemorativi, senza provare a dare alcuna profondità ai personaggi. E la profondità si poteva dare con un minimo di "contesto" (del tutto assente) o isolando uno dei personaggi e raccontando "una" storia, una storia emblematica che poteva valere per l'intero periodo. L'aver voluto riproporre un "cuori neri" cinematografico ha creato un effetto di insopportabile superficialità per cui si passa tra una lacrima e l'altra da Acca Larenzia a Nanni de Angelis (storie molto diverse, morti molto diverse) senza capire nulla, senza raccontare nulla, come se davvero bastasse cavarsela su quegli anni dipingendo l'ambiente come un manipolo di eroi senza macchia e senza paura in balìa della violenza di un mondo ostile. Anche le conversazioni rispondono a questa esigenza infantile, da indottrinamento di serie B. Io non ricordo nessuno che mi abbia detto, dopo la morte di uno dei nostri, che i nostri caduti stavano in cielo ed erano stelline che guidavano il nostro cammino. Al contrario ricordo dibattiti accorati e plumbei sul senso di ciò che stava capitando, dibattiti che coinvolgevano anche il vertice del Msi, il ministero degli Interni, chi stava dentro il partito e chi si accingeva a lasciarlo. 

Gli anni Settanta sono materia delicata. A mio avviso solo il punto di vista soggettivo e sincero non suscita risentimenti. La narrazione dei morti si può fare con un documentario, senza darsi obiettivi che non si era in grado di realizzare. Tralascio il modo in cui viene raccontata la morte di Alberto Giaquinto, del tutto distante da ciò che realmente avvenne. Tralascio di dire che ancora una volta Stefano Recchioni appare come il morto "scomodo", colpito da un "proiettile vagante", perché le circostanze che portarono alla sua morte sono imbarazzanti per un mondo che ha bisogno solo dei martiri dell'odio comunista. Accanto all'esaltazione acritica dell'attivismo (che conteneva in sé elementi sui quali sarebbe ora di fare autocritica) c'è poi l'accenno a una battaglia contro la moschea a Roma, che arriverà solo negli anni Novanta, dieci anni dopo. Perché far passare i militanti del Fronte come anti-islamici? Per avere l'applauso a distanza di Marine Le Pen? Ancora, perché l'esibizione ostentata della croce celtica senza spiegare che quel simbolo veniva scelto come atto di ribellione ai vertici del partito? Perché la raffigurazione macchiettistica dei compagni, anche loro figurine partorite da luoghi comuni ideologici (e tra l'altro senza le sfumatute che pure caratterizzarono quel mondo?). Davvero si pretende che nelle scuole venga proiettato questo film? Davvero non si capisce che sarebbe un'operazione culturale fallimentare? (a meno che non si voglia la "provocazione" per sollecitare altre provocazioni antifasciste e determinare un clima di scontro surreale e anacronistico).
Ho già scritto che il culto dei Caduti in certa destra sta sostituendo il nostalgismo del Duce come collante identitario. Sotto c'è il vuoto di proposte, come sempre. E' un rischio che chi si pone a capo di queste tendenze conosce molto bene preferendo soprassedere sulle conseguenze. Ciò rappresenta una maniera distorta di rendere omaggio a quei ragazzi uccisi. Una strumentalizzazione postuma che non penso possa essere condotta in assoluta buona fede.
Infine veniamo al punto che mi ha indotto a uscire dal cinema prima della fine del film: è stato quando in una chiesa c'è la protagonista che sta per sparare al compagno responsabile della morte di suo marito. Al di là della scarsa credibilità della scena (che ci fa un estremista di sinistra in chiesa?), la donna (una sorta di mater dolorosa cui è affidato nella narrazione il compito di disperarsi per ogni morto missino o paramissino) recede dal suo intento guardando il Crocifisso. Sorvoliamo sull'assenza di tensione emotiva in tutta la scena. Poi arriva un prete a consolarla e a dirle che ha fatto la scelta giusta. E' sempre la solita storia dei buoni e dei cattivi. La filosofia del "il peggiore dei nostri è comunque meglio del migliore dei loro". Una favola, appunto. E il tempo delle favole per me è finito, come per molti amici che hanno vissuto quegli anni, alla prima camera ardente in cui si sono imbattuti. Troppo presto, inconsapevoli di tutto, con un enorme dolore dentro. Le risposte non verranno dall'agiografia ideologizzante. C'è stato molto sangue sparso in quegli anni e qualcuno tirava i fili. O cerchiamo nella direzione giusta o lasciamo che quei morti riposino in pace.