venerdì 12 settembre 2014

Clint Eastwood, il libertario


articolo apparso sul quotidiano "Cronache del Garantista" martedì 26 agosto

Luciano Lanna

Non molti lo sanno ma uno dei film più incisivi nella battaglia contro la pena di morte è stato firmato e interpretato da Clint Eastwood, lo stesso attore e regista che negli anni ’70 veniva considerato “fascista” per aver interpretato i film polizieschi di Don Siegel con l’ispettore Callagan come anche i primi western “violenti” di Sergio Leone. Si tratta di Fino a prova contraria (titolo originale: True Crime), una pellicola del 1999 diretta appunto dal nostro Eastwood e tratta dal romanzo Prima di mezzanotte di Andrew Klavan. In Italia il film è uscito il 30 aprile 1999 ma non è stato molto pubblicizzato o commentato, al punto di trasformarlo in un cult movie e vederlo citato nella cinematografia anti pena di morte. Eppure, a ben vederlo, per alcuni tratti potrebbe risultare anche più efficace di pellicole stracitate come Dead Man Walking o Il miglio verde
Veniamo alla trama, comunque. Steve Everett, un giornalista di lungo corso appena uscito dal buco nero dell'alcolismo, ha il compito di scrivere un pezzo sull’esecuzione alla sedia elettrica di Frank Beechum, un nero di trent’anni che è stato condannato per l’assassinio di una giovane donna bianca. E il film sembrerebbe dipanarsi inizialmente solo intorno alla storia personale di Everett, il quale è costretto improvvisamente a sostituire una sua collega di lavoro, morta in un incidente d’auto la sera prima, nel compito di scrivere un articolo umano sulla condanna a morte e prossima esecuzione, allo scadere della mezzanotte, di Frank Beechum.
Il personaggio con il volto di Clint trova però tutta una serie di circostanze e dettagli importanti che non erano stati considerati né approfonditi dalla polizia come dal pubblico ministero. E così Everett diventa consapevole che Frank Beechum non è affatto il vero colpevole. In particolare, il giornalista viene colpito dal fatto che sulla scena sia presente un altro giovane, e che questo non sia stato minimamente preso in considerazione nella lista dei sospetti.Dopo tutta una serie di colpi di scena,  cinematograficamente molto efficaci, compreso il licenziamento dello stesso Everett e la decisione di divorziare presa dalla moglie, il nostro giornalista riesce a risalire all’identità dell’altro giovane e infine a provare l’innocenza di Beechum. È un particolare pendente appeso al collo della nonna del giovane, che nel frattempo è stato ucciso, e che apparteneva precedentemente proprio alla vittima. A questa rivelazione segue una lunga scena divisa tra il tentativo di Everett di raggiungere il governatore, per poter fermare l’esecuzione, e quindi l’esecuzione alla sedia elettrica stessa.
La scena finale vede un Everett licenziato, “senza casa”, ma candidato al Premio Pulitzer, comprare un regalo di Natale per la figlia e incontrare appena uscito dal negozio lo stesso Frank Beechum, salvato proprio all’ultimo secondo, anche lui con i familiari pronto alla festività. La scena chiave del film, la corsa contro il tempo mentre l’esecuzione sta per iniziare, è un vero e proprio remake filologico di una scena classica della storia del cinema, il salvataggio all’ultimo minuto di Intolerance di Griffith. Oltretutto Eastwood non è certo un seguace della strizzatina d’occhio citazionista tipica di un certo cinema d’autore. “Ma perché – si è chiesto il critico Christian Viviani – ottant’anni dopo Intolerance Eastwood crea un remake virtuale di quella scena nel finale palpitante di True Crime? Si tratta di un  gesto passatista che, tutto sommato, non si è inventato niente? O di una nostalgia regressiva verso una forma superata di cinema? Niente affatto. Lo spettatore sarà in realtà emotivamente coinvolto a fondo nella scena, indipendentemente da una scena referenziale del montaggio alternato che probabilmente ignora. Quello che s’impone è semmai l’aplomb stilistico di Eastwood, che ragiona con una logica sconvolgente allo scopo di provocare una reazione viscerale: l’indignazione nei confronti della pena di morte…”.
Anche questo film, purtroppo come abbiamo detto poco conosciuto in Italia, rivela comunque la vocazione libertaria di Clint Eastwood, la stessa che sta all’origine di suoi film come Million Dollar Baby, Lettera da Iwo Jima, Gran Torino, Invictus o J.Edgar… “Sono – ha ammesso lo stesso Clint – un libertario, amo l’indipendenza, venero lo stato mentale di chi rimane indipendente, in politica e nella vita”. Tutto questo Eastwood lo sostiene senza rinnegare nulla della sua stessa biografia politica, le stroncature degli anni ’70 – quando la critica liberal Pauline Kael lo bollò addirittura come “fascista” per via della particolare connotazione antropologica di tanti suoi personaggi – e anche la sua esperienza diretta, nel 1986, come sindaco repubblicano della cittadina californiana di Carmel. Tanto è vero che lui – e non tanti presunti progressisti – ha affrontato nei film che ha diretto temi spinosi come la pena di morte, nel caso di Fino a prova contraria, oppure il “fine vita” in Million Dollar Baby, i diritti degli immigrati e il rifiuto della xenofobia in Gran Torino, la lotta al razzismo in Invictus. E intervistato Eastwood ha spiegato e declinato fino in fondo la sua visione libertaria delle cose: “Sono cresciuto a Oakland, in California, con una vasta popolazione di neri. Amavo la musica jazz, ma non capivo perché i musicisti neri non potessero suonare nelle band dei bianchi. Mia moglie, poi, è in parte di colore, anche lei cresciuta in California e da piccola sentiva la gente che le diceva: ‘Ehi tu, non bere da quella fontana’. Certo, abbiamo fatto passi avanti da allora, ma c’è ancora del pregiudizio nella nostra società…”. E oggi, sostiene il libertario Eastwood, la frontiera della libertà passa attraverso la capacità di “scavalcare le linee di partito”. Tanto che sul piano politico lui prende ormai le distanze dal vecchio bipolarismo a stelle e strisce: “Non credo più nel partito repubblicano ma nemmeno in quello democratico”. Più libertario di così…

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