giovedì 20 novembre 2014

In sezione o dall'estetista? Ecco quando le camicette nere hanno cominciato a perdere

L'ormai arcinota intervista della lady renziana Alessandra Moretti mi ha fatto venire in mente il finale di un mio libro per fortuna poco letto, Aspetta e spera che già l'ora s'avvicina (Settimo Sigillo). L'ho riletto e lo riporto qua sotto, perché le Moretti, le Madia, le Biancofiore, le Minetti ecc. ecc. ecc. sono il prodotto di ciò che osservavo allora. Era il 2002. Un'onda inarrestabile dinanzi alle quali le militanti di un tempo, a destra e a sinistra, erano e sono destinate a soccombere



"Quanto alle donne bè, aspetto ancora di assistere a un bell'inizio danzante di una vera politica femminile al di là della destra e della sinistra. Ho l'impressione che si faccia fatica a credere che sia esistito un impegno femminile sul nostro versante, invece furono disperati tentativi di rettificare lo spericolato verbo femminista. Una storia che, forse, prima o poi qualcuno racconterà. Stranamente, mi capitò di accennarvi davanti a una platea di femministe. Ho cercato di spiegare come eravamo. Alla fine una matura signora si alza e mi trafigge: 'Io credo che lei abbia deciso di essere di destra ma sotto sotto abbia aspirazioni di sinistra'. Che sia vero? Che non rimanga altro che la sconfitta della psicanalisi per quelle ragazze un po' così che si aggiravano nelle sezioni missine? 

In missione da Almirante

Una mattina di venti anni fa ci trovavamo a fare anticamera davanti all'ufficio di Giorgio Almirante . Una sparuta delegazione femminile (Marina Maugeri, Isabella Rauti e io) con la missione di ottenere il via libera al bozzetto di un manifesto per l'otto marzo. Il segretario modificò il disegno, un ramo verdeggiante che formava un profilo femminile, col garbo severo di chi non ammette repliche e il risultato fu che quel ramo andò a formare il profilo di una donna calva. Contente lo stesso, lo facemmo stampare da Pasquale Toppeta, mitica figura di tipografo militante, che maneggiava i segreti della grafica con eccessiva disinvoltura asserendo 'Lascia fare a me, che faccio lo stampatore, mica il pizzicagnolo...'. E la donna calva fece la sua comparsa sui muri di Roma stagliandosi su un orribile fondo celestone. Quel manifesto aveva la fragile inconsistenza dell'impegno femminile a destra.
Estemporaneo e passionale come il primo sit-in al quale ho preso parte, quando la federazione ci aveva fornito una serie di cartelloni sul carovita e aveva chiamato a raccolta le infuriate massaie della Fiamma... deposti i cartelloni coi disegni del pane, dell'olio, delle uova e delle patate che costavano troppo, alle signore tricolori restava unicamente la battaglia per l'assegno alle casalinghe. Un orizzonte che a noi più giovani appariva misero e angusto ma che oggi conosce insperati revival. 

Eowyn e la celtica

L'impegno femminile aveva anche altre facce. Quella simpatica di Marilena Novelli, che riuniva a casa sua la redazione di Eowyn e mi spiegò con materna pazienza perché non potevamo andare d'accordo con le femministe. Il marxismo - disse più o meno - traduce il mondo in termini di conflitto: gli operai contro i padroni, i figli contro i genitori, le donne contro gli uomini. Dunque i marxisti odiavano il mondo, e noi lo dovevamo salvare. Eowyn era un'eroina del romanzo cult della giovane destra Il Signore degli Anelli e il suo nome fu scelto per la testata di una rivista scritta solo da donne, nata per scrollare il settore femminile del partito dal suo letargo e per far capire alle femministe che dall'altra parte non c'erano solo virili saluti romani ma anche riflessioni dignitose sul destino dell'emancipazione. L'iniziativa fu apprezzata più all'esterno che all'interno. Dieci anni dopo, Eowyn era diventato un fenomeno di antropologia culturale, un ossimoro politico racchiuso nell'etichetta "femminismo di destra" secondo la sociologia di sinistra che si interrogava sulla nostra cultura. Nel Msi invece Eowyn fu accolto come un'eresia. Capitò persino, a un convegno di partito, che fummo messe alla porta perché pretendevamo di distribuire un numero che aveva la croce celtica in copertina. Estremiste quando si giocava in casa, reazionarie quando si giocava in trasferta, eravamo rassegnate all'invisibilità politica. 



Le femministe e Francesca Mambro

Presuntuose come si può esserlo prima dei vent'anni, non ci importava molto il confronto con le avversarie, impedito comunque dal vezzo di considerare i fascisti dei paria della cultura. Le femministe del mio liceo erano inquadrate come soldatini di una guerra perduta. Parlarci era impossibile. Qualche anno fa ci siamo scambiate i numeri di telefono con le femministe più sensibili alla storia di Francesca Mambro, insieme abbiamo fatto un convegno per chiedere la verità sulla strage di Bologna, insieme abbiamo detto di cercare i veri colpevoli e di non infierire su due comodi capri espiatori.

I maschi d'ambiente

I sacri testi di riferimento erano ardui da affrontare. La dura prosa di Evola, le stilettate antifemministe di Nietzsche, non le digerivi mica a cuor leggero. Il cameratismo era un sentimento elitario, che metteva fuori gioco le donne e le obbligava a una paradossale durezza nei comportamenti per meritare il rispetto dei maschi. Non che gli uomini fossero contrari al protagonismo femminile: diciamo che per loro eri un'assistente, quasi mai una pari. Ciò comportava reciproci doveri: loro badavano a che tu non ti facessi male, tu badavi a fingere che la cosa ti riempiva di gratitudine.   



I tacchi a spillo

... Dopo la vittoria del '94 scoprimmo che i simboli della donna di destra erano le scemenze di Ambra Angiolini e i tailleur di Letizia Moratti. Ci dissero che le signore del Polo erano Ombretta Colli e Tiziana Maiolo. Pazienza. Era una consolazione l'idea che fosse stata spazzata via una politica femminile fondata sulla pura rivendicazione e sul protezionismo delle quote. Nonostante tutto, avevamo vinto sul femminismo. Sulla macerie di quelle rivendicazioni la donna del Duemila camminerà più sola e più debole ma nessuno lo dice perché tra i lasciti meno importanti delle ideologie c'è la retorica, e la retorica è un comodo rifugio per la politica. ... Oggi quei lampi di anticonformismo che ho avuto la fortuna di intercettare prima dei vent'anni sono estinti, temo che non covino più nemmeno sotto la cenere. Ho letto che tra donne di destra e donne di sinistra la partita si gioca sugli stilisti di riferimento e la Cdl ha marciato a Roma anche tra i battiti aggressivi dei tacchi a spillo di Daniela Santanché. Per questo ho indugiato sui miei ricordi preziosi. Magari aiutano a non perdere l'orientamento. Tutto il resto, lo sappiamo, è branco rosa".  

(Annalisa Terranova, Aspetta e spera che già l'ora s'avvicina. Dove vanno o dove vorrebbero andare i camerati sdoganati, Settimo Sigillo, pp. 101-107)



domenica 16 novembre 2014

Una domenica di buone letture tra Péguy e Pérez Reverte (passando per Enrico Vanzina)



Luciano Lanna

Cosa segnaliamo dalle pagine culturali di questa domenica? Innanzitutto, l’articolo “Péguy vero umanista” del filosofo francese Alain Finkielkraut che compare oggi su Avvenire. Il testo contiene le linee guida della relazione “Ogni cosa è ‘avvenimento’. Ripartiamo da Péguy” che Finkielkraut terrà domani, lunedì, a Milano. “Péguy – scrive il pensatore riferendosi al grande intellettuale di cui quest’anno ricorre il centenario della morte – è un autore ‘maledetto’: ma la sua è una maledizione estremamente paradossale. È uno degli autori più celebri della letteratura francese: nessuno ignora il suo nome, eppure nessuno lo legge. È un nome vuoto, una specie di illusione…”. E Filkielkraut definisce Péguy un “umanista sperduto nel mondo moderno”. Non certo un tradizionalista e un antimoderno, come spesso è stato presentato. Annora e precisa Finkielkraut: Péguy non è moderno, ma non è nemmeno un pensatore della tradizione… Noi, invece, vogliamo che il moderno sia il valore fondamentale: non vogliamo più condannare qualcosa del passato perché è passato. Ma noi siamo ‘turisti’ dello spazio e del tempo: e questo è il mondo postmoderno”. Il cosiddetto ‘turista’ è, insomma, per Finkielkraut, la figura ultima della modernità. Il turista, nella sua visione, è precisamente l’uomo contemporaneo, chi vede il mondo come pura e semplice disponibilità: "Il pericolo nel quale ci troviamo oggi è quello di essere rinchiusi in un’alternativa nella quale da una parte c’è il turista, che cammina nel giardino della storia, che colleziona modelli, che passa con superficialità da una cosa all’altra; e di fronte a lui sta una sorta di avversario costruito su misura, che sarebbe poi l’uomo radicato nel suo territorio”. Vale davvero la pensa leggersi le conclusione di Finkielkraut: “L’ideologia turistica consiste oggi nel far passare per fascista tutto ciò che contesta: è il destino di Péguy, è il destino di molti altri pensatori. Se non facciamo attenzione, rischia di instaurarsi così una specie di movimento politically correct. Rischiamo oggi di essere condannati a quest’alternativa e di essere immediatamente tacciati di fascismo se ci rifiutiamo di ritrovarci nel turista e di vedere in esso la figura ultima dell’umano. Però questo è il nostro compito: penso che Péguy più di chiunque altro ci possa aiutare in questo…”.
Molto interessante anche l’intervista di Rita Sala allo scrittore spagnolo Arturo Pérez Reverte che compare sulle pagine culturale del quotidiano Il Messaggero. “Con i tempi che corrono, mentre – dice il narratore – l’Europa crolla poco a poco e sull’Acropoli, ad Atene, il Partenone serve solo da sfondo a stupidi turisti per farsi uno stupido selfie, abbiamo un’unica via d’uscita: consolarci con la cultura. La cultura è l’unico analgesico che lenisce il dolore di veder tramontare il mondo al quale apparteniamo”. Ma non è un pessimista lo scrittore nato a Cartagena. Tanto da dedicare il suo ultimo romanzo – in italiano Il cecchino paziente – ai grafiteros, i ragazzi che come forma di ribellione creativa scrivono e disegnano sui muri delle metropoli di tutto il mondo. Il fascino dei ragazzi con la bomboletta? “C’è dentro l’amore per l’indipendenza, la libertà di demolire, almeno intenzionalmente, ciò che non ti sta bene, la possibilità di scegliere il colore della tua protesta e il momento in cui farla”. Ma i responsabili della crisi globale e del disorientamento di civiltà di questi ultimi anni? Pérez Reverte mostra di avere le idee chiare: “Non mi va di dare la colpa, come si fa tutti i giorni da anni, ai politici e ai banchieri. Ci siamo dimenticati che siamo noi stessi i responsabili, almeno quanto loro del disastro. Anzi, siamo stati noi a crearne le cause. Nessuno ci obbligava a incollarci mutui proibitivi, a compraci due automobili, a fare debiti per andare in vacanza, per disporre di una seconda casa o comprare la moto ai figli. Il gioco sporco ce lo hanno proposto politici e banchieri ma noi lo abbiamo accettato. Per questo mi ha intrigato l’universo clandestino dei grafiteros: sono gente a cui basta dipingere e scrivere. ‘Scrivo, dunque sono’ è il loro motto…”.

Ultima segnalazione, sempre dal Messaggero, per la consueta rubrica domenicale “Che ci faccio io qui?” dello sceneggiatore e scrittore Enrico Vanzina, dove alla fine si legge: “In questi giorni sono stato colpito da una serie a raffica di sciagure. Roba da dover scegliere tra Lourdes e l’Esorcista. Ma non voglio assillarvi con i miei guai personali. Vi dico solo che, alla fine, ho pensato a cosette serie, cose che possono riguardare anche voi. Ho pensato che avere una moglie che ti ama è la cosa più bella del mondo. Ho pensato che volersi bene tra fratelli è una cosa altrettanto bella. Ho pensato che non bisogna mai dimenticare i parenti anziani. Ho pensato che quando subisci un torto bisogna saper perdonare la cattiveria degli altri. Loro continueranno a dormire male, noi no…”. Buona domenica a tutti.

lunedì 10 novembre 2014

Anarchici e cristiani? L'ossimoro possibile per essere liberi dal potere



Alessandro Pertosa

L’ultimo libro di Lucilio Santoni, Cristiani e anarchici. Viaggio millenario nella Storia tradita verso un futuro possibile (Infinito, Modena 2014), è un topos commovente, ma è anche un topos che non si può abitare del tutto, perché appare e scompare fra le righe del testo, è sempre un passo più in là rispetto al lettore, è sempre oltre la possibilità umana di coglierlo, di farlo proprio: è un topos spirituale, non certo uno spazio fisico tangibile: affollato di esperienze, di sussurri e di parole che «contendono al silenzio il coraggio di dire la miseria di stare al mondo. L’inquietudine dello spirito che ci fa vedere cosa ci rimane quando ormai non ci rimane più nulla».
E non deve rimanerci più nulla, perché il «qualcosa» che ci resta fra le mani è un «qualcosa» per il mondo, è un qualcosa di cui si pretende avere il possesso. La proprietà, appunto, è il vero male radicale, l’idea che di qualcosa si possa dire «è mio», mentre in questo viaggio millenario nella storia tradita si incontrano esperienze di coloro che sono rimasti indietro, gli ultimi, i miti di cuore, i poveri per lo spirito, gli emarginati: coloro che non hanno nulla perché non vogliono avere nulla. Si tratta di cristiani e di anarchici che orientano i sogni quotidiani in un altrove. Perché il Regno per cui si resiste non è di questo mondo. Il Regno di questo mondo è retto da un árchon, da un capo, che il Vangelo di Giovanni identifica con Satana. Il cristianesimo è dunque anarchico – come ricorda giustamente Davide Rondoni nell’introduzione – perché ha patroni in cielo e non padroni in terra.
Le pagine del libro sono illuminate da volti di persone che hanno coltivato testardamente nella propria vita la virtù della disobbedienza alla razionalità dominante. «Ho osservato a lungo lo sguardo di chi ha avuto nel cuore la rivoluzione dell’utopia e della speranza», scrive l’autore. E aggiunge: «Gli uomini che mi stanno a cuore smontano ogni giorno la fretta del vivere; danno ampio spazio al respirare; sentono il dolore degli altri».
Santoni sa scavare nell’intimità, sa toccare le corde profonde dell’animo umano, presentando storie straordinarie. Il suo è un interesse per l’uomo a tutto tondo, per le debolezze, le gioie, le ansie e le trepidazioni dei puri di cuore. E in questo rimanda a Tarkovskij che scrive: «Mi interessano le vite delle persone che vivono con un logica diversa da quella comune, che lo facciano per fede, per follia o per i più diversi ideali possibili non mi importa». La chiave che consente di aprire le segrete del libro è allora qui messa in mostra: sovvertire la logica dominante, oltrepassare il comune sentire, essere folli, ma liberi.
Si tratta di quella follia e libertà che accomuna i cristiani e gli anarchici condannati alla damnatio memoriae, a causa della loro fiducia incondizionata nell’uomo. Chi non si aspetta molto dai propri simili invoca lo Stato, la legge, la norma, la tradizione, le Chiese trionfanti, i magisteri. Chi, al contrario, cerca disperatamente di dare un senso alla tragedia che chiamiamo vita, si consegna all’Altro, gli si dona, e si immerge nel pelago intenso dell’essere che tutto avvolge e vivifica. I cristiani e gli anarchici, è questa l’idea di Santoni, dedicano la loro intera vita al più straordinario capolavoro della natura: l’essere umano. Operano nel medesimo contesto, e sognano lo stesso sogno. Ha quindi ragione Maurizio Pallante quando scrive che «i teorici dell’anarchia si sono proposti di tradurre in prassi politica i principi etici formulati da Gesù».
Mi pare sia proprio questo l’insegnamento principale che si può trarre da questo splendido libro di Lucilio Santoni. Che in verità è una perla poliedrica, smagliante! Una perla da osservare in continuazione e ripetutamente, perché ogni volta riflette una nuova luce, una luce scintillante che arriva da chissà dove.




domenica 9 novembre 2014

Col pretesto di "Vittoria", dibattito a Napoli sugli anni Settanta ed è subito caos (ma salutare...)




Considero la presentazione del romanzo Vittoria a Napoli (per la quale ringrazio Francesco Bellofatto)  un po' una conclusione della serie di incontri e discussioni suscitati dal mio libro, molto interessante per l'eterogeneità del pubblico (una signora è anche andata via in segno di dissenso). Il confronto con Ugo Maria Tassinari è stato per me importante perché ha fatto "deragliare" dal tema per andare al nocciolo di una questione che non si affronta volentieri: quanto sanno i "camerati" delle esperienze dei loro coetanei sull'altra parte della barricata e viceversa. Ora, Tassinari è uno che sa. E' un interlocutore sui generis (di certi fatti, personaggi, ambienti lui sa anche molto più di me), ma non è rappresentativo di un mondo, così come non lo sono io (infatti lui stesso ha detto, a un certo punto, che sono isolata, ed è vero, e ne sono anche abbastanza fiera, così come lo è lui per il fatto che i compagni lo accusano di avere legittimato i "fasci"). E i punti sono stati questi, anche se il romanzo li evita accuratamente perché, se non sei in grado di dare una risposta, è inutile lanciare interrogativi al vento. 
Il primo è che oltre la visione esistenziale degli anni Settanta (le emozioni, il dolore, l'attivismo, le persecuzioni, la violenza, il manicheismo nelle scuole ecc. ecc.) c'è un livello non detto, non conosciuto, che comprende anche la conflittualità tra fascisti e antifascisti ma non solo, comprende le stragi, comprende Gladio, comprende i Servizi e le ingerenze di altri paesi nella politica italiana. Nessuna pacificazione sarà mai possibile se alle generazioni future non sarà consegnata una narrazione convincente su tutto questo (e qui apro una parentesi: se la destra si accontenta di parlare di quel decennio di lutti solo attraverso la mistica dei caduti commette un errore enorme). In questo le revisioni e le autocritiche sono necessarie. A sinistra ci sono stati casi individuali di autocritica sull'atteggiamento tenuto in quegli anni ma è mancata una presa di distanza consapevole dall'idea che i fascisti si potessero ammazzare impunemente come nemici del popolo, come persone "infette" e pericolose per il paese. Questo non c'è stato perché l'antifascismo è ancora un tabù di comodo, così come dall'altra parte si agita la bandierina del Duce a scopi politici impedendo la necessaria storicizzazione del periodo e il suo superamento. 
Il secondo punto è la cattiva coscienza della sinistra, il fatto che tanti ex militanti di allora pensano in fondo in fondo che il disprezzo e l'ostilità verso i neofascisti erano giustificati e non si domandano chi fossero i veri giostrai che mandavano avanti un girotondo tragico. Tassinari ha detto che le morti di quel periodo erano in fondo un doloroso "dettaglio" rispetto ai milioni di morti che le ideologie del Novecento hanno provocato e che avevano un loro "perché" più dignitoso rispetto alle morti provocate ad esempio dal tifo da stadio. E' una visione dialettica dei fatti storici che non mi appartiene: ogni morte violenta è una ferita che strappa un'energia vitale al suo contesto naturale. E' un evento cui guardare con un senso di sgomento, avvertendo che c'è stata una perdita, un'assenza. Che nulla è necessitato storicamente su quel piano inclinato e che la soppressione di una vita implica responsabilità personali, che il contesto può agevolare ma mai sostituire. Per questo detesto la retorica sugli anni Settanta e mi auguro che nessuna operazione "identitaria" conduca a letture distorte di quegli anni. Poi, la pacificazione - nella quale non credo - può avvenire come ho detto anche durante il dibattito a Napoli, solo se non sarà più importante dare a uno del "comunista" e a un altro del "fascista" e quando a queste parole sarà dato un significato che ha lo stesso valore "neutro" per l'intera comunità dei "parlanti". Se non si pacifica il linguaggio, in altri termini, non ci sarà alcuna memoria condivisa.
Infine, dopo tanti incontri fatti sul tema col pretesto del mio libro, non si è venuti a capo di nulla: la rappresentazione di quel periodo è del tutto irrisolta e "aperta". Io ho voluto solo dare qualche pennellata, con un punto di vista molto individuale e con un lessico "pacificato". Il mio piccolissimo, insignificante contributo all'elaborazione del lutto di una generazione (sono parole importanti, ma l'ha detto Tassinari, io non avrei mai dato di una cosa scritta da me una definizione così seria). Elaborare però fa bene, è la "fissità" della visione che fa male. Perché si perdono troppi particolari. Troppe sfumature. 
a.t.