martedì 23 dicembre 2014

Il Natale di Vittoria





Dal romanzo Vittoria, una storia degli anni Settanta (Giubilei Regnani) di Annalisa Terranova un estratto del capitolo "Natale". Auguri a tutti!


Due riti caratterizzavano in particolare il Natale in casa di Vittoria: l’allestimento del presepe e i fritti del cenone della vigilia. Anche l’albero di Natale aveva il suo ruolo, ma era sicuramente più marginale. Intanto doveva essere vero. Quando incominciarono a circolare i finti abeti il padre sentenziò che erano “cose fetuse” e che in casa alberi finti non ne sarebbero mai entrati. L’anno dell’austerity – cioè in occasione del Natale del 1973 – per far vedere alle figlie che la crisi nulla poteva contro la santità delle feste acquistò una serie di palline nuove per l’albero, una più bella dell’altra. Una era rosa circondata di merletti e decorata con pietruzze rosse. Un’altra era dorata e ospitava un piccolo presepe. Un’altra ancora era cosparsa di porporina verde e dentro ospitava un piccolo ramoscello di pungitopo. Nei Natali successivi, quando Vittoria, ormai grande, prendeva la valigia delle decorazioni per addobbare l’albero, quando le capitavano in mano quelle palline, proprio quelle, la mente tornava a figurarsi le feste passate, cedeva all’urto, indiscreto e avvolgente, dei ricordi. Tornavano i Natali dell’infanzia, con quel loro clima speciale, fatto di odori, di attesa, di affetti rafforzati, di un calore interiore che nessuna interferenza esterna poteva disturbare. 

Era però il presepe che assorbiva gran parte delle energie domestiche: anche per la localizzazione, si facevano grandi discussioni. Dopo di che si spostavano i mobili in modo che ci fosse spazio per una degna fabbricazione e si ammucchiavano nell’angolo scelto i sostegni del paesaggio sacro. Sgabelli, pile di volumi dell’enciclopedia, tavole di compensato. La prima cosa che il padre posizionava era la grande capanna di sughero. Dopo di che si acquistava il muschio fresco. Poi se ne andavano almeno altre due giornate per “fare le montagne” con la speciale carta colorata di verde e marrone. Quindi si sistemavano le luci, quasi tutte dentro la capanna perché era lì, diceva il padre, che succedeva la cosa più importante. Vittoria era impaziente, e provava a mettere fretta: “Ma quanto ci metti...”, diceva al padre. E lui: “La gatta presciolosa fece i gattini ciechi”. Finalmente, al momento di sistemare le statuine, anche Vittoria e la sorella facevano la loro parte. La madre le conservava avvolte nella carta di giornale e dunque ogni anno, quando si scartavano gli involucri, le frasi abituali erano: “Ho trovato San Giuseppe, ho trovato il pastore con la pecora in spalla, ho trovato la panettiera...”. Ovvia-
mente loro erano felici quando trovavano il Bambinello, che poi veniva preso in custodia dal padre e messo in un cassetto per essere deposto nel presepe solo la sera del 24 dicembre. La neve costituiva l’ultimo tocco: a casa di Vittoria non si usava neve artificiale ma il cotone idrofilo. Si facevano dei piccoli batuffoli di ovatta e si poggiavano qua e là a imbiancare la scena. Se il presepe veniva particolarmente bene, il padre lo fotografava. Così, in molte foto di famiglia, apparivano Vittoria e la sorella, in ginocchio e a mani giunte accanto a uno dei presepi paterni meglio riusciti, illuminato ad arte. 

Una volta alla parrocchia di quartiere realizzarono però un presepe più realistico, con scenografia arabeggiante con alte palme e con i re magi che attraversavano il deserto. Niente montagne, niente neve, niente grotta, niente paesaggi appenninici, e non c’era neanche la vecchina che vendeva le caldarroste, uno dei personaggi che Vittoria amava di più. L’insolito allestimento fu commentato in famiglia. Tutti erano delusi e il padre bollò l’iniziativa come un cedimento alle mode straniere. La madre però difese il fondamento storico della scelta: Gesù era nato in Palestina, a conti fatti. E il padre si inalbero: “E che c’entra? Il presepe l’abbiamo inventato noi, e va fatto secondo la tradizione, 
se no non è presepe, è un’altra cosa...”. 

I genitori di Vittoria si erano sposati a Greccio, cioè proprio nel luogo in cui Francesco d’Assisi aveva allestito la prima Natività. E nella foto in cui guardavano il prete, inginocchiati nella piccola cappella del convento dei frati minori, erano giovani e seri seri, forse persino un po’ smarriti, sicuramente commossi. La madre aveva uno sguardo languido, il padre aveva una faccia ispirata: a Vittoria sembravano bellissimi, ogni volta che guardava quelle immagini. L’abito bianco della madre non era lungo, ma arrivava alle caviglie. Una vera novità, per l’epoca. C’era poi una foto che li ritraeva mentre scendevano la scalinata di pietra: il papà avrebbe voluto aiutare la mamma, ma lei faceva una faccia scocciata, come a dire: ‘Faccio da sola, lasciami in pace’. La madre confermava l’interpretazione: ‘Sì, tuo padre voleva darmi il braccio, ma io sono ’ncitosa, lo sapete”. “Incitosa” significava una che si inalbera subito, una con un bel caratterino incline ad infuriarsi per nulla. Il padre invece la giustificava: “Era emozionata, bisogna capirla...”. 

L’altro rito natalizio che si ripeteva ogni anno era la preparazione dei fritti per il cenone. Si acquistavano le verdure al mercato la mattina della vigilia e poi, da metà pomeriggio, la cucina veniva chiusa agli estranei, cioè a Vittoria e alla sorella, e la mamma e il papà friggevano cavolfiori, 
zucchine, carciofi e cardi avvolti nella pastella. Una quantità che avrebbe sfamato un esercito. Senza la frittura il cenone della vigilia non sarebbe stato degno dell’occasione speciale e sembrava davvero che il padre ne traesse grande soddisfazione, presentando poi i piatti ricolmi con orgoglio da chef provetto. In quei giorni era consentito usare il cosiddetto servizio buono, che la madre custodiva con 
cura certosina. Si trattava dei piatti di porcellana bianca con decorazioni color oro, regalo di matrimonio, che facevano la loro comparsa a tavola solo una volta l’anno, cioè per il cenone di Natale. Oltre ai fritti si mangiavano spaghetti al tonno, merluzzo bollito, panettone e torrone. 

Tra le numerose famiglie del condominio di Vittoria quella di Agnese e Sebastiano, che era stato per anni emigrante in Germania a fare l’operaio, organizzava per la sera di Santo Stefano tombolate e giochi di carte con parenti e vicini di casa. Si mangiava panettone fino a tarda notte, poi Agnese serviva i torroni di tutti i tipi e si passava al gioco del mercante in fiera o del sette e mezzo. Vittoria giocava con troppa timidezza, non aveva voglia di sperare nelle carte per non restare delusa, atteggiamento che i giocatori provetti disapprovano: “Se non credi nelle carte, le carte ti puniscono...”. Però assisteva felice al giro della sorte, cercando ogni volta di indovinare chi sarebbe stato toccato dalla buona stella. La vincita ammontava a un massimo di cinquemila lire ma procurava comunque esultanza in quella compagnia di gente abituata alla fatica, che si godeva le feste con animo semplice. C’era in particolare un cugino della signora Agnese che faceva anche lui l’operaio e, prima di mettersi a giocare, si metteva al collo un fazzoletto rosso contro la jella e chiedeva scusa al padre di Vittoria: “Lo so – diceva – è il colore dei comunisti, ma io lo metto solo perché voglio vincere tutto, nun me guarda’ male...”. Poi aveva anche un altro fazzoletto rosso portafortuna in cui metteva le monete per giocare e diceva che non se ne sarebbe andato finché non lo avesse riempito con le cento lire vinte al gioco. Era lui che faceva il mercante in fiera ed era molto bravo a vendere una carta fingendo che fossero almeno tre. Sapeva animare le giocate facendo ridere tutti e, se mancava lui, le serate erano meno divertenti. Se vinceva, offriva vino rosso alla salute dei presenti e qualche goccia era consentita anche a Vittoria, che lo accettava volentieri pur non apprezzandone il gusto troppo aspro, di vino poco ricercato. 

Aveva sentito dire che gli operai erano tutti comunisti e le sembrava bizzarro che tra suo padre e quei lavoratori ci fosse così tanta cordialità, finché lui le spiegò che erano i comunisti ad imbrogliare gli operai, che i padroni sfruttavano le loro braccia e il Pci la loro rabbia, mentre il fascismo aveva concesso loro l’assicurazione contro gli infortuni e gli assegni familiari. Un Natale al figlio di Agnese fu regalato un mangiadischi e lui fece ascoltare a Vittoria e alla sorella il brano del momento, Jesahel, che si ballava dondolando le braccia avanti e indietro. Così passarono la serata a sentire e risentire sempre lo stesso ritornello, “Jesahel, nanananana... Jesahel”, finché i grandi non li vennero a cercare perché le giocate erano terminate e bisognava che ognuno se ne andasse a casa sua e quando li sorpresero a ballare col mangiadischi tutti ridevano tra loro dicendo che la sorella di Vittoria e il figlio di Agnese si sarebbero fidanzati, ma Vittoria sapeva che non era possibile perché alla sorella 
piaceva il figlio della signora Liliana, quella che faceva le iniezioni in giro per le case e non sorrideva mai. Il figlio era biondo e sempre immerso nei suoi pensieri e ignorava tutti gli altri ragazzini quando si radunavano in cortile. La madre consolava la sorella di Vittoria dicendole che quello non la filava perché era troppo grande, in realtà lui non filava proprio le ragazzine perché non voleva far coppia con le femmine ma con altri maschi, ma questo lo avrebbero scoperto solo più tardi. E quando lo scoprirono in famiglia si parlò del tema proibito dell’omosessualità. E il padre di Vittoria fu perentorio: “Sono persone diverse ma vanno rispettate come tutti gli altri, anzi a volte questo tipo di 
persone sono più sensibili, più umane. E poi quello che fanno nella vita privata sono fatti loro”. Il figlio di Agnese, invece, era uno spilungone un po’ allampanato, che da grande voleva fare il carabiniere, e sul possibile fidanzamento con la sorella di Vittoria la mamma scherzava dicendo che sua figlia doveva fidanzarsi minimo minimo con il figlio di un dottore e non certo con il figlio di un operaio. 





lunedì 22 dicembre 2014

Una delle più belle favole di Natale



Una delle più belle favole di Natale è Cristallo di rocca di Adalbert Stifter (1845), il racconto che fa parte della raccolta Pietre Colorate, storie edificanti per bambini e adolescenti, narrate con la prosa ordinata, austera ma capace di picchi lirici inaspettati di un autore che meglio di altri ha saputo trasferire nelle pagine dei suoi libri la meraviglia dei paesaggi montani. In questo breve racconto Corrado e Sanna, due bambini figli del calzolaio del paese, attraversano la montagna per recarsi dalla nonna, la vigilia di Natale, smarriscono al ritorno la strada, si perdono nel bianco terribile e sterminato dello scenario innevato, affrontano con cuore fiducioso la prova. Assistiti dalla magica forza luminosa della Notte Santa attraversano senza saperlo un ghiacciao e un crepaccio sempre speranzosi che dalla montagna non può venire che vitale sicurezza. Finché al mattino non vengono ritrovati dai paesani, tutti in cerca dei bambini perduti. Il lieto fine coincide con l'alba, col levarsi del sole che porta luce e salvezza come il Bambino Gesù di cui si celebra l'avvento: "Un gigantesco disco sanguigno si alzò nel cielo all'orlo della neve, e in quell'attimo si colorò di rosso la neve intorno ai bambini, come vi fossero sparse milioni di rose...".    

Annalisa Terranova

lunedì 8 dicembre 2014

Finisce la storia dell'amica geniale con il quarto romanzo di Elena Ferrante




Di seguito la recensione di Goffredo Fofi della storia dell'amica geniale di Elena Ferrante che giunge a conclusione con l'uscita dell'ultimo dei quattro romanzi, Storia della bambina perduta (E/O, pp. 452, 18 euro). L'articolo è tratto da Internazionale

Giunge a conclusione il romanzo-fiume di Elena Ferrante in quattro volumi, un ambizioso e riuscito affresco napoletano che avanza per più di mezzo secolo della nostra storia attraverso quella di un'amicizia femminile. Elena, la narratrice, che va a studiare alla Normale di Pisa e diventa scrittrice famosa, che lascia Napoli per Torino, che si sposa con un uomo di sinistra scoprendo che "al mondo non c'era niente da vincere", ma che ha soprattutto un'amica, Lila, più forte di lei e più "geniale", che sceglie di restare e di patire la sua condizione di donna e di napoletana fino in fondo, con instancabile e proterva lucidità. Due "piccole donne" che crescono in una Napoli-Italia che è sempre più un pozzo nero. Ognuno di noi dovrebbe avere accanto un "beffardo", un demone che ci costringe a non mentirci, a non illuderci. Il confronto di Elena - dell'autrice - è infine con se stessa e con Napoli, descritta con rara sapienza nel suo corpo tra piccolo-borghese e sottoproletario, tra Viviani ed Eduardo, e nel suo degrado, ma anche con un'idea di donna, in anni di nuove idee delle donne sulle donne. Il solo limite (ma è forse la sua forza) di Ferrante, che conosce bene Morante, Ortese, Ramondino - cantatrici della sua città - è l'assenza di quel "di più" di inquietudini che queste avevano, e il chiudersi in una sorta di laicismo senza velo e trascendenza, mai. 

Goffredo Fofi 

Marco Tarchi al Fatto quotidiano: già ai tempi della Voce della Fogna si parlava di "cloaca romana"



Il 7 dicembre, "il fatto Quotidiano" ha pubblicato un'ampia parte dell'intervista qui allegata al politologo Marco Tarchi (dedicata ai recenti fatti di cronaca politico-delinquenziale romani) con il leggiadro titolo (tra virgolette!) "Tra noi camerati c'erano spostati e delinquenti".

Giustamente Tarchi ha inviato al quotidiano una sua lettera di precisazioni, che riportiamo dopo il testo dell’intervista, che intanto proponiamo:


Dice Carminati a Buzzi: “È la teoria del mondo di mezzo, compà”. Mafia Capitale ci restituisce l’ultimo capitolo della rivoluzione impossibile. Da camerata a compare. Come è stato possibile?

Non vedo nessi fra le aspirazioni utopiche di un microcosmo come quello neofascista degli anni Settanta-Ottanta e le squallide vicende odierne. Anche se dall’esterno molti faticano ancora oggi a capirlo, quell’ambiente politico non era, umanamente, agli antipodi di altri di diverso segno. Ci si trovava di tutto: dagli idealisti ai carrieristi, dagli onesti ai delinquenti, dai teppisti alla “gente d’ordine”. Io non ho mai giudicato, per dire, la sinistra extraparlamentare dal destino di un certo numero di suoi militanti finiti in pessimi giri. Certo, negli ambienti in odore di estremismo la proporzione di spostati, ribelli e marginali è sempre maggiore, e le conseguenze si vedono. Ma, anche se la battuta è scontata, non va fatto d’ogni erba un fascio.

Quando venne eletto, Alemanno fu accolto dai saluti romani al Campidoglio. È finita con un sistema rossonero dominato dall’affarismo e tante suggestioni da romanzo criminale.

A me, ma anche a non pochi amici provenienti dall’esperienza missina, quello spettacolo capitolino apparve patetico e ridicolo nel contempo. E indicativo della mancata risoluzione del nodo cruciale dell’identità che aveva accompagnato Alleanza nazionale in tutta la sua storia: mentre Fini esibiva la sua più o meno sincera conversione liberale, i ventenni di base continuavano a celebrare grotteschi riti nostalgici. Era il trionfo della linea della doppiezza, utile a conservare un potenziale di ricatto verso gli alleati, e nel contempo il sigillo della nullità propositiva di una classe dirigente che non aveva saputo imboccare la via di un’evoluzione coerente e meditata. In mancanza di quella, non restava che l’abbuffata del sottogoverno, con tutte le sue conseguenze.

In questo caso non è la politica che controlla il sistema ma il contrario. Burattini, non burattinai. Si ribalta il complesso di Mosè tra capo e militanti?

Da quando si è iniziato a celebrare il funerale delle grandi aspirazioni a cambiare il mondo, delle ideologie, dei progetti – magari ingenui – di rifondare da capo a piedi una società, è apparso chiaro che la politica si sarebbe ridotta, per chi intendeva praticarla a tempo pieno, a carrierismo. E in un contesto in cui è l’economia a segnare l’orizzonte dei valori e delle aspirazioni e l’arricchimento è il metro della considerazione sociale, non ci si può stupire se molti “politici di professione” non sono altro che arrampicatori spregiudicati, disposti a qualunque compromesso (per essere eufemisti). Il mondo già neofascista non ha fatto eccezione. Ma da qui ad equipararne tutti i militanti a reali o potenziali delinquenti, ce ne corre.

L’amministrazione Alemanno è sempre stata al centro delle polemiche per i rapporti con l’antico mondo nero, dai Nar a Terza Posizione per arrivare alla più recente Forza Nuova. Secondo lei, l’ex sindaco aveva un patto d’onore con i vecchi camerati?

L’onore è una parola forte. Penso che, volendo costruire una rete di sostegno dopo essere giunti a un successo inatteso, sia più facile e comodo puntare sulle vecchie conoscenze che partire da zero guardando ad altri ambienti. Anche se Alemanno, come è noto, soprattutto attraverso la sua fondazione Nuova Italia, ha cercato addentellati anche negli ambienti cattolico-conservatori. Credo che abbia contato anche, in certi contatti pericolosi e sgradevoli, la sindrome degli ex reclusi nel ghetto, che ha sempre connotato il neofascismo romano. Dove vigeva la mentalità del “siamo tutti camerati” (un po’ l’equivalente del “compagni che sbagliano”), che era bersaglio delle critiche di quanti avevano ben presenti le distanze tra Msi ed extraparlamentarismo e ci teneva a rimarcarle.

Alemanno è stato rautiano, come lei. Un mondo contrapposto al doppiopetto di Almirante. In ogni caso la Seconda Repubblica ha sancito il fallimento di entrambe le due maggiori correnti storiche del Msi. Fini è naufragato a Montecarlo, Alemanno su Carminati.

Sulla corrente di Rauti si è molto favoleggiato e travisato, sebbene uno studioso nettamente schierato a sinistra come Piero Ignazi fin dalla fine degli anni Ottanta ne abbia disegnato un profilo corretto, dipingendola come l’ambiente interno al neofascismo in cui più si era attenti al dibattito culturale, si accettava il confronto con la modernità e si demolivano gli stereotipi nostalgici. Quel che non si dice è che da quell’ambiente non sono usciti solo gli Alemanno e altri mestieranti della politica, ma anche accademici, dirigenti di vertice di associazioni ambientaliste “ufficiali”, managers che sono finiti sulle prime pagine dei maggiori quotidiani per le loro qualità inventive, personaggi di successo del mondo della informazione e dello spettacolo, funzionari statali di grado elevato, membri del Csm e perfino un giudice della Corte costituzionale. Tutto questo non risulta – e non risalta – perché, nel loro caso, non si è costituita alcuna lobby come quella accreditata agli ex di Lotta Continua. Sono stati tutti percorsi individuali indipendenti. Ma sta a dimostrare che non si trattava certo di un’accolita di sprovveduti estremisti con velleità golpiste o insurrezionali. 

Lei che ha inventato la Voce della Fogna si sarebbe mai aspettato questa trasfigurazione criminale della Terra di mezzo tolkeniana?

No davvero. Quel giornaletto politico-satirico era nato, prima ancora che per replicare agli avversari, per fare autocritica dei tanti insopportabili vizi che affliggevano il neofascismo, e non a caso fu proprio su quelle colonne che si tentò di far trasmigrare l’immaginario collettivo di quell’ambiente dal Ventennio alla Contea tolkieniana. Spero comunque che fra il “mondo di mezzo” di cui si parla in questi giorni e la Middle Earth di Bilbo, Frodo e soci non ci sia altro che una vaga assonanza linguistica.

Un’altra frase di Carminati, prima spontaneista armato, poi in contatto della banda della Magliana, che colpisce è questa: “Bisogna vendersi come le puttane, adesso”. Il fascino del male (assoluto) è sempre corrotto dal denaro. È Sauron che riesce a riprendersi l’anello del potere?

Volerei molto più basso. È una delle tante prove che la passione politica non preserva dalle miserie antropologiche. Tutt’altro.

È mai esistita, a questo punto, una diversità nera, tenendo presente anche i rapporti storici tra ambienti di destra e massoneria e servizi deviati?

Per certi versi sì, perché quell’ambiente ha sempre celebrato propri culti, innalzato propri idoli, coltivato propri sogni che non coincidevano con quelli del mondo che gli era estraneo (e a cui era estraneo). Per altri no, perché nei vizi molto spesso comunicano ambienti e individui che per il resto sono molto diversi. È una regola che non vale solo per l’ambito politico.

Lei spiegò così la Voce della Fogna: “Tutto fuori puzza. Il profumo si è rifugiato nelle fogne”. Quarant’anni dopo quel mondo è solo gestionismo del potere, solo soldi e opportunismo?

Quell’affermazione, che prendeva di mira lo slogan “fascisti carogne, tornate nelle fogne” e mirava a considerare queste metaforiche ridotte come le nuove catacombe da cui sarebbe partita una riscossa culturale ed esistenziale, era indubbiamente spropositata e oggi può sembrare insensata. Ma se i giovani missini di allora avessero accolto quel messaggio, invece di farsi abbindolare dai proclami ondivaghi e talvolta ipocriti dei loro maggiorenti, parecchie pagine oscure non sarebbero state scritte.

C’è uno specifico romano in questa vicenda? In fondo anche il fascismo una volta al potere si rammollì nei palazzi della capitale, come per esempio ha scritto Fusco.

Altroché se c’è! Ai tempi de “La voce della fogna”, si parlava apertamente di “cloaca romana” per descrivere i maneggi, gli intrecci sgradevoli e il pressapochismo che caratterizzavano buona parte (c’erano, ovviamente, eccezioni lodevoli) del panorama missino della Capitale. Ma era roba da niente rispetto alle porcherie odierne.

Che impressione le fa il nuovo termine fasciomafioso?

Come molti neologismi dei nostri anni, mi pare buono per attirare l’attenzione, molto meno per capire ciò che vorrebbe descrivere. Perché questa associazione delinquenziale, a quanto pare, di addentellati politici ne aveva di vari colori: rossi, neri, bianchi…

P:S:
Ecco gli appunti di Tarchi soprattutto sul titolo e sull’incipit dell’intervista, lì dove si legge: "A destra, il politologo Marco Tarchi, che insegna alla "Cesare Alfieri" di Firenze, è un'istituzione".

Questa le lettera inviata al quotidiano: “Ho letto. Insegnando comunicazione politica da quindici anni, non fingo stupore sul titolo - che, lo so, non dipende dall'intervistatore -, che al giornale serve, anche con i falsi virgolettati come in questo caso, per accreditare la propria versione dei fatti a prescindere da ciò che sostiene l'intervistato. Mi stupisce invece di essere considerato da Lei "un'istituzione a destra". Per la verità, a destra da vari decenni mi censurano, mi attaccano, mi discriminano. Se non avessi avuto interlocutori in altre aree, e soprattutto nel mondo scientifico, di occasioni di espressione ne avrei avute, più che poche, "punte", come dicono i fiorentini veri (io, ohimè, sono... reimmigrato da Milano a 16 anni). Avendo io espresso il mio ultimo voto a destra (Msi) nel 1979, e non considerandomi minimamente appartenente a quell'area malgrado gli sforzi altrui di infilarmici a forza, non posso dolermene più di tanto. Ma che ora debba scoprire, invece, di essere "un'istituzione" di quell'ambiente, mi sorprende non poco. Temo proprio che gli stereotipi siano duri a morire. Durissimi, direi. Vuol dire che mi consolerò pensando che un ex redattore de "La voce della fogna" è stato nominato alla Corte costituzionale da Napolitano. Chi l'avrebbe mai immaginato...”

martedì 2 dicembre 2014

Filippo Tommaso Marinetti 70 anni dopo



articolo apparso sul quotidiano "il Garantista" martedì 2 dicembre


Luciano Lanna

No, non è facile separare la maschera (impostasi con gli anni) dal volto (reale) di Marinetti. La difficoltà sorge comunque spontanea ogni qualvolta si viene invitati a ricordare, a celebrare, inevitabilmente a codificare un personaggio quale Filippo Tommaso Marinetti che, per tutto quello che è stato e ha fatto, risulta costitutivamente refrattario a qualsiasi incasellamento. Come si fa del resto a sintetizzare e a sistematizzare la vita, il pensiero e l’opera del padre del futurismo, di chi cioè – mettendo in azione la prima avanguardia storica del Novecento – aveva esordito invitando a “distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie” e a “combattere contro il moralismo” di ogni tipo? Essendo costretti a farlo, anche perché ricorre il settantesimo della sua morte, proviamoci cercando di fare emergere il volto e mettendo in secondo piano la maschera sia di Marinetti che del futurismo.
Filippo Tommaso Marinetti (FTM o effe-ti-emme), padre di un approccio nuovo alla cultura e alla vita fatto di “comprensione” reale del Novecento, di sintonia con il concetto (e la prassi) di simultaneità e con una concezione del tempo non lineare ma circolare e compresente, e quindi con lo spirito di mescolamento dei linguaggi e dei generi, dei materiali e delle sensibilità estetiche, della rottura della tradizione canonica ottocentesca, con la rottura di ogni compostezza formale di tipo borghese, di ogni chiusura identitaria, era nato non a caso ad Alessandria d’Egitto il 21 dicembre 1876, cullato – come lui ha più volte ricordato – dal richiamo dei muezzin e dal vociare dei bazar musulmani. Ancora nel 1930, nel suo libro Il fascino dell’Egitto, confessava d’altronde la sua insopprimibile passione “per il sacro meccanismo dei dervisci” sino a lasciarsi andare a un atto sincero di ammirazione per l’universo e la religiosità dell’Islam: “La polvere nostalgica di tutte le strade d’Africa e d’Asia che le tinge, dialoga con la vicina grande nicchia santa rivolta alla Mecca, dramma sintetico d’oggetti muti che riassume l’immenso Islam…”.
Più di qualche critico, in tempi recenti, ha non casualmente ricollegato proprio a questa situazione infantile la genesi stessa del paroliberismo e di un’idea non figurativa dell’arte. Ma ripercorrendo il vero Marinetti (e il vero futurismo) riemergono tante altre dimensioni che inevitabilmente lo collocano oltre e al di là l’universo culturale in cui – per pigrizia politicistica – si tenderebbe invece a sistematizzarlo.  Si pensi alla sintonia con le altre avanguardie e con tutta l’arte cosiddetta “degenerata”, al rifiuto del razzismo, allo spirito libertario, all’idea di svaticanizzare l’Italia, all’anticipazione profetica di un’estetica televisiva e di una percezione multimediale e da internet della comunicazione, alla passione per la musica jazz, al fatto che uno dei primi a parlare bene di Marinetti e dei futuristi fu Antonio Gramsci, annotando nel 1921: “Hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio…”.
Certo, Marinetti fu interventista e, con i suoi futuristi, fu tra i primi a dare corpo e anima al movimento fascista delle origini. Ma, tanto per dire, gli ex anarchici e futuristi Mario Gioda, segretario del Fascio di Torino, insieme al suo sodale Libero Tancredi, che si rese poi noto con lo pseudonimo di Massimo Rocca, già nel dicembre del 1922 avevano avviato un’aspra polemica contro il notabilato fascista locale, il rassismo e la deriva violenta e illiberale degli squadristi. Poi, tra alti e bassi, distacchi, polemiche e rapporti ripresi, sarà sempre il regime ad avere bisogno dei poeti, dei pittori, degli artisti futuristi. Ed è anche vero che Marinetti, dopo essere andato volontario nella campagna di Russia a sessantasei anni, aderì a Salò, accettando anche di presiedere l’Accademia d’Italia, lui che pure da giovane voleva abolire tutte le accademie… E proprio nella Repubblica fascista, si spegnerà a Bellagio sul lago di Como, il 2 dicembre 1944, mentre dettava alla moglie Benedetta il poemetto Quarto d’ora di poesia della Decima Mas: “Salite in autocarro aeropoeti e via che si va finalmente a farsi benedire dopo tanti striduli fischi di ruote rondini critico mani lambicchi di ventosi pessimismi…”.
Fatto sta, comunque, che Filippo Tommaso Marinetti, fondatore e animatore di quella che sarebbe stata definita “l’avanguardia della contestazione”, tornerà centrale nell’immaginario e nel dibattito pubblico italiani solo dopo il ’77 e grazie a due artisti, libertari e figli del miglior ’68: Pablo Echaurren e Andrea Pazienza. Accadde infatti che a un indiano metropolitano di 26 anni come Echaurren, impastato in realtà di dada-surrealismo, i conformisti dell’epoca sputassero addosso tutta la loro insofferenza tacciandolo tout court di “marinettismo”. Lo ha raccontato lui stesso: “Io, per esempio, mi sono impegolato nel futurismo italiano in pieno clima degli anni di piombo. E mi ci sono ingolfato perché un tizio, in un volantino cretino da lui stilato e firmato, mi aveva accusato di esserne un verace seguace”. Ma Echaurren invece di subire e indignarsene, prese a studiare, a fissarsi che doveva risalire alle origini marinettiane, far proprie le scaturigini del suo pensare e agire controcorrente. All’epoca, del resto, in quel triennio 1977-78-79 Marinetti non era stato riscoperto e capito: “Per dirla tutta, a destra – ha ricordato Pablo nel suo libro Nel paese dei bibliofagi – il suo futurismo era considerato roba da sovversivi e dissacratori dell’ordine costituito e costruito di tipo Brasini e Piacentini, da adoratori dei trimotori e spregiatori delle aquile imperiali e dei fori romani. A sinistra la si riteneva cianfrusaglia da bastonatori, diciannovisti, squadristi pseudo artisti”. I capoccioni, i solini, i tromboni, i benpensanti di ogni colore politico gliela facevano pagare cara a Marinetti e al futurismo, a quelli cioè che le biblioteche volevano bruciarle e i musei abolirli. Risucchiata nei buchi neri della memoria, criminalizzata dai censori, di sinistra o tradizionalisti essi fossero, ostracizzata dai redattori delle pagine culturali che contavano e dai compilatori delle antologie scolastiche, l’opera di Marinetti giaceva solo nelle bancarelle dei libri usati, sui cataloghi antiquari, nelle cantine e nelle soffitte degli ex futuristi. Da qui una sorta di bibliofagia compulsiva che in trent’anni ha fatto di Pablo, insieme con sua moglie, la critica d’arte Claudia Salaris, i più grandi collezionisti di futurismo in Italia. E non solo: Echaurren realizzerà anche una storia a fumetti di Marinetti: Caffeina d’Europa che, dopo decenni, riproporrà il ruolo effettivo del padre del futurismo al grande pubblico della cultura pop.
Lo stesso approccio e la stessa passione per il futurismo verranno celebrati anche da Andrea Pazienza, il celebre Paz, altro grande artista e fumettista della generazione degli anni Settanta, scomparso prematuramente nel 1988 a 32 anni, in una poesia risalente proprio al 1977 e il cui manoscritto è stato riprodotto nel bel libro a fumetti Le straordinarie avventure di Pentothal. E lì Paz celebrava le matrici profonde dell’immaginario della sua generazioni: “Amo Lacerba e Giovanni Papini / Amo Georges Mathieu / amo Ezra Pound, fascista… / e Balla Boccioni Segantini Severini Carrà; / Marinetti Filippo Tommaso, fascisti / li amo…”. Una dichiarazione, un omaggio postumo che, in qualche modo, riusciva a ricollocare FTM all’interno dell’incandescenza creativa del miglior Novecento. Se infatti qualche nome dovesse essere fatto per immaginare gli eredi di FTM si dovrebbe andare a Marshall McLuhan, a Guy Debord, a Steve Jobs e a Bill Gates… Il resto, avrebbe detto Filippo Tommaso, sarebbe solo passatismo…