sabato 28 febbraio 2015

Salvini, gli antifa e le allettanti promesse




Annalisa Terranova

Pensando alle piazze contrapposte di oggi (i #maiconsalvini e i #consalvini) mi viene in mente la canzone di Lucio Battisti, Le allettanti promesse. Il cui senso è: non posso perdere tempo a parlare di cose che non hanno senso (la politica del curato contro quella della giunta, tutti lì a vedere chi la spunta, non posso parlare solo di calcio e di donne, di membri lunghi tre spanne non posso parlare...) e che pure costituiscono il contesto rassicurante in cui adagiarsi per andare avanti. Pensiamoci un attimo: gli antifa che pensano di fare la nuova Resistenza, i fascistelli che pensano di emulare le gesta dei camerati eroici degli anni Settanta. Tutto per far tenere un comizio a Matteo Salvini, un propagandista di livello mediocre, che dice cose prevedibili, appena appena dignificate dai consigli di un intellettuale oscillante tra anticonformismo da salotto e neofascismo all'acqua di rose. Intendiamoci: è legittimo che Salvini tenga il suo comizio (e in questo, dinanzi all'incredibile sceneggiata violenta degli eredi dell'antifascismo militante ha non solo la mia solidarietà, ma avrebbe dovuto avere la solidarietà di tutte le forze politiche). 

Ma occorre fare un passo indietro e guardare la giornata odierna da una distanza di sicurezza che impedisca coinvolgimenti emotivi. Occorre pensare a quanto le piazze contrapposte siano funzionali a ciò che sta accadendo oggi in Italia e cioè la formazione di un'area di potere post-ideologica, simile ma non uguale alla vecchia Dc (perché non ne possiede la cultura politica), frutto maturo di una finanziariazzazione della politica che lascia mani libere al mercato inserendo nei parlamenti e nelle assemblee elettive personaggi che sono costruiti sulla pura immagine. Per rafforzarsi questo progetto necessita di un'estrema destra lepenista e di un'estrema sinistra radicalizzata i cui leader saranno da un lato Salvini e dall'altro Landini. Salvini, al contrario di un Beppe Grillo (che ha ormai esaurito le sue potenzialità) è molto più controllabile e prevedibile e si adatta allo schema alla perfezione. Le contrapposte mobilitazioni odierne, con le passioni e le emotività che le percorrono, sono anch'esse utilissime al clima di restaurazione neocentrista in atto (non dimentichiamo che il ministro degli Interni è Alfano, legato a Renzi e all'immarcescibile Casini). Uno schema simile agli anni Settanta che potrebbe produrre anche le stesse violenze di quegli anni, magari con un'intensità diversa ma con identico impatto psicologico sull'elettorato moderato. 

Ciò che accade è il frutto di due fallimenti: quello di Berlusconi e quello di Gianfranco Fini. Il primo aveva portato il vento nuovo del bipolarismo e dell'alternanza. C'erano due poli, c'erano due opzioni che però, anziché proporre una visione per il Paese, hanno prodotto un berlusconismo irrazionale e incapacitante e un antiberlusconismo odioso e infantile. Le potenzialità di un assetto politico nuovo (tra cui il superamento delle logica del nemico, l'abbandono dell'antifascismo viscerale, l'archiviazione dell'anticomunismo) sono evaporate in una serie di errori, di immobilismi, di interessi personali che hanno interagito con l'attività politica e di governo. E tuttavia quello scenario è addirittura da rimpiangere dinanzi a quello, tristissimo e plumbeo, che si profila oggi all'orizzonte.

Quanto a Gianfranco Fini, la sua operazione di trasformare la destra nostalgica in una forza matura e di governo è stata supportata (anche grazie alle scelte da lui stesso fatte sui dirigenti chiamati a interpretare tali istanze) solo da slogan e asfittici documenti. Alla prova dei fatti la destra di governo è apparsa meno credibile di quanto ci si aspettava, né ha saputo abbandonare il vizio antico della subalternità (prima a Berlusconi e oggi a Salvini) che nasconde un mero interesse elettorale. E tutto ciò a discapito di comunità (che sono cosa distinta dall'elettorato) che pure con dedizione, onestà e corretto spirito militante hanno cercato di fornire un contributo disinteressato a questo progetto. La destra oggi deve tornare dunque nel suo recinto ghettizzante di forza estremista, protestataria, in ultima analisi inservibile. E meglio se ogni tanto si arriva a qualche scontro fisico con gli avversari. Il renzismo gliene sarà grato. 

mercoledì 25 febbraio 2015

Ma la "sottomissione" di Houellebecq non è una "conversione"


Luciano Lanna


“Se attualmente c’è qualcuno, nella letteratura mondiale e non solo francese, che pensa questa sorta di enorme mutazione che tutti noi sentiamo essere in corso senza avere i mezzi di analizzarla, e che non concerne soltanto la civiltà occidentale ma lo status dell’umanità, questi è lui…”. Il riferimento è a Michel Houellebecq e al suo romanzo Sottomissione (Bompiani) e a sostenerlo è un altro grande scrittore francese a noi contemporaneo, Emmanuel Carrére, autore del recentissimo Il Regno (Adelphi).
Il romanzo di Houellebecq, comunque, a leggerlo (e saperlo leggere) bene non è affatto – come molti pensano o cercano di farlo pensare – una denuncia “à la Fallaci” sull’invasione musulmana o sulla minaccia jihadista in corso ma un libro sulla più complessa e contraddittoria mutazione di civiltà che l’Europa starebbe attraversando.
Che il libro sia la cronaca di una mutazione attraverso le vicende di un personaggio-io narrante è un dato di fatto. Il protagonista è una tipica figura houellebecqiana: docente universitario, specialista di Huysmans, vive solo e sradicato, non vede i familiari e i parenti da decenni, non ha legami affettivi stabili, non crede in nulla. Si scalda, da solo, piatti al microonde,  sperimenta solo rapporti erotici prima con una ragazza ma che la sua onestà patologica gli impedisce di amare. Non aspira che ad andare a dormire verso le quattro del pomeriggio con una bottiglia di alcol forte, una stecca di sigarette, una pila di buoni libri che non molti ormai leggono, e la prospettiva a questo ritmo di morire rapidamente, infelice e solo. Ovvio che la sua esistenza è pensata e descritta da Houellebecq come quella di milioni di persone in una postmodernista società globale sempre più diffusa…
Ma il romanzo, a un certo punto, introduce la trasformazione in corso della percezione pubblica della politica attraverso la descrizione della elezione presidenziale francese del 2020. Nella precedente tornata, quella del 2017, François Hollande era stato rieletto per sbarrare la strada a Marine Le Pen, ma intanto s’era manifestata una nuova forza politica: la Fratellanza musulmana. Il suo leader, Mohammed Ben Abbes, è un musulmano francese, dal fisico rassicurante del “vecchio droghiere tunisino di quartiere”, che non si riconosce nell’antisemitismo, sostiene la causa palestinese ma con circospezione, recluta i suoi seguaci ben al di là delle popolazioni musulmane. La situazione è quindi inedita: i due grandi partiti, di centrodestra e di centrosinistra, attorno ai quali si strutturava la vita politica francese, ma non solo, dalla fine della seconda guerra mondiale, sono ormai fuori gioco, privi di funzione e rappresentanza. Così come perdono di centralità i media e il loro teatrino a buon mercato: “La brutale implosione del sistema di opposizione binario centrosinistra/centrodestra – si legge nel romanzo – aveva inizialmente sprofondato l’insieme dei media in uno stato di stupore ai limiti dell’afasia”. Si potevano vede i più popolari commentatori televisivi “trascinarsi da uno studio tv all’altro, incapaci di commentare una mutazione storica che non avevano previsto…”. Il dibattito pubblico è cambiato, è straordinariamente diverso da quelli visti in Europa negli ultimi decenni, ne sono cambiati gli elementi di discussione. Non più quelli strettamente economici o di logica economici, ma semmai di ordine morale. Non a caso, nella Francia di Mohammed Ben Abbes, riprendono vigore le idee del distributivismo cattolico d’inizio Novecento, l’orientamento prospettato da HIlaire Belloc e G.K. Chesterton: “La sua idea di base – ricorda Houellebecq – era la soppressione della separazione tra capitale e lavoro. La sua forma sostanziale di economia era l’impresa familiare; nel caso si presentasse la necessità, per determinate produzioni, di riunirsi in entità più ampie, si doveva fare di tutto perché i lavoratori fossero azionisti della propria impresa e corresponsabili della sua gestione”. All’inizio del Novecento declinato in versione cattolica, nel 2020 in versione musulmana, il distributivismo spinge la nuova Francia verso una serie di trasformazioni: totale soppressione degli aiuti di stato ai grandi gruppi industriali, adozione di trattamenti fiscali molto vantaggiosi per l’artigianato e l’autoimprenditorialità, sollecitazione ai giovani a “mettersi in proprio” più che a cercare un posto nelle burocrazie. Il passaggio novecentesco al lavoro salariato generalizzato, spiega ancora Houellebecq, aveva necessariamente provocato l’esplosione della famiglia e l’atomizzazione completa della società che, di contro, sarebbe riuscita a rifondarsi solo quando il modello di produzione normale fosse tornato a basarsi sull’impresa individuale e familiare.
Su questo sfondo, nelle pagine di Sottomissione, mentre la mutazione di civiltà avviene, all’inizio, si è leggermente turbati nel non vedere più, da nessuna parte, donne che indossino la gonna né, ben presto, donne che frequentino i luoghi pubblici, ma la Francia ritrova comunque un ottimismo che aveva perso dalle “Trente glorieuses” (i trenta gloriosi anni di crescita economica dalla fine della seconda guerra allo choc petrolifero). Visto che le donne escono dal mercato del lavoro, la curva della disoccupazione si inverte e si ridefinisce una sorta di società tradizionale e organica… Ed è proprio sull’organicismo come alternativa al nichilismo e al disincanto postmoderni che si dipana la trama (come la riflessione filosofica e politica) dell’intero romanzo. La religione e la spiritualità in quanto tali non c’entrano nulla: in gioco entra semmai una certa idea della religione come collante di civiltà, che porta i protagonisti a vivere e praticare l’adesione a una fede come risoluzione ai problemi personali e sociali. E se all’inizio del Novecento l’opzione era quella del cattolicesimo così come prospettato da Charles Maurras e altri autori – progenitori degli identitari e lepenisti di oggi – Houellebecq delinea un analogo processo possibile attraverso l’adozione dell’islam. Non è un caso che, nel romanzo, molti ex identitari di estrema destra passano direttamente all’islam dopo averlo contrastato scoprendo, in realtà, che la prospettiva possibile è assai simile… E il punto culminante del libro è la  conversazione del protagonista con un il nuovo rettore della Sorbona islamizzata che, autore di una tesi su René Guénon, è passato dagli ambienti identitari per approdare all’islam. Tutto sommato, è forse nelle osservazioni condotte sugli scrittori cattolici di fine Ottocento e inizio Novecento – Huysmans e Bloy in primis, ma anche Maurras – si può cogliere l’essenza del romanzo insieme alla sua incomprensione di fondo del vero cristianesimo. È infatti vero che la prospettiva viene prospettata come “sottomissione” a una fede e non come “conversione”, interiore e spirituale. Il narratore alla fine del romanzo si converte. Ma si tratta di una vera conversione o, piuttosto, di una risoluzione ai suoi problemi di vita pratica, tutti umani troppo umani (il posto di lavoro, l’unione e la convivenza con una o più donne, l’alternativa alla solitudine e al non senso, una rete di contatti e amicizie)? Tutto questo emerge chiaramente nella non comprensione della visione e della “conversione” di Charles Péguy, che viene citato come convertito ma di cui, nel libro, non traspare nulla delle pagine speranza e della trasformazione del cuore apportate dall’incontro con Cristo.
Ribadiamo che la “sottomissione” del protagonista del romanzo non ha nulla di spirituale ma viene descritta solo come l’approdo a un orizzonte organico da parte di un soggetto disorientato e vuoto che vi si appiglia – come disperato – quale ultima spiaggia. Niente di diverso, sia ben chiaro, dalla visione del cristianesimo fatta propria da Maurras, una modalità di presentare il cattolicesimo come strumento politico e quale collante organico della civiltà occidentale. Tesi che presentava la presunta identità cristiana non come una prospettiva di fede, di speranza e di carità ma come sovrastruttura ideologica di unificazione politica e di civiltà. Tesi che però già negli anni Trenta del Novecento erano state condannate ufficialmente e sanzionate dalla Chiesa cattolica. Preparata già dal 1913 da papa Pio X – con l’esplicito rimprovero di subordinare la religione alla politica e all’ordine civile – la condanna arrivò infatti il 29 dicembre del 1926 quando papa Pio XI metteva all’indice i libri di Maurras per decreto del Sant’Uffizio e l’8 marzo del 1927 agli iscritti all’Action française venivano interdetti i sacramenti. Ma questi tesi, lo sappiamo bene, hanno ripreso vigore all’inizio del nuovo millennio, attraverso la propaganda teo-con dei conservatori statunitensi e la vulgata catto-identitaria dell’estrema destra europea e sono, fortunatamente, state stoppate e rinviate al mittente dal pontificato di Papa Bergoglio.

È pensabile, allora, quello che profetizza il romanzo di Houllebecq? E cioè che questo approccio “non spirituale” alla religione si riproponga, dopo l’epifania della postmodernità disincantata e secolarizzata, attraverso presunte parole d’ordine delll’islam, magari attraverso la mediazione intellettuale di Guénon, e che gli ambienti identitari possano trovare alla fine il loro cavallo di Troia proprio nell’islam? Come ha commentato Carrére, “non è impossibile che l’islam più o meno a lungo termine non rappresenti il disastro ma l’avvenire dell’Europa, come il giudeo-cristianesimo fu l’avvenire dell’Antichità pagana”. Noi, comunque, non vorremmo che ciò che non è riuscito ai maurassiani possa riuscire, domani, ai neo-guénoniani. Continuiamo infatti a pensare, proprio con Charles Péguy, che la conversione non è affatto una questione di risoluzione di vita pratica così come non è una questione di civiltà, ma un qualcosa che riguarda (e salva) il cuore della singola persona:  “Vi era il cattivo tempo anche sotto i Romani. Ma Gesù non si rifugiò affatto dietro la disgrazia dei tempi. Egli tagliò corto in un modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. Che significa che non incriminò, non accusò nessuno. Egli salvò i singoli. Egli non incriminò il mondo. Egli salvò”.

martedì 17 febbraio 2015

E nell'Italia bigotta e dc quel giorno nacque il Piper



Luciano Lanna

Il Piper compie cinquant’anni. Quel locale, che apriva i battenti alle 21 e 30 del 17 febbraio 1965, sarà la culla italiana di tutto ciò che fermentava nelle giovani generazioni alla metà degli anni ’60. “Il Piper – si leggeva in Roma alternativa, una guida del 1975 – fu il centro della Roma beat, freak, pop e rock”. Attraverso il Piper fece irruzione anche da noi la cultura beat: dapprima circoscritta alla sola musica elettrificata e amplificata, il termine si estenderà a definire un abbigliamento, un look, un’estetica, un modo di esprimersi e di sentirsi lontani dai vecchi schemi. Tutto parte dall’idea di due personaggi, un avvocato e un imprenditore, che volevano aprire un locale sul modello di quelli che i giovani frequentavano a Londra e a New York. Nacque l’idea del Piper, che tradotto in italiano suonava pressappoco come “pifferaio” o “zampognaro”. In realtà, soltanto le opere d’arte con cui fecero decorare il locale di via Tagliamento 9, nel quartiere Coppedè, bastavano e avanzavano ad attrezzare un vero e proprio museo d’arte contemporanea. C’erano due Andy Warhol, dei Rotella, degli Schifano, dei Rauschenberg, dei Manzoni… Pop art, beat generation e “Beatles revolution” trovavano un luogo di celebrazione a Roma. Per la serata d’inaugurazione i due fecero realizzare manifesti a sfondo rosso su cui campeggiava l’immagine di una bella ragazza svedese. Sopra c’era scritto: “Apertura del Piper 17 febbraio”. Ha raccontato Bornigia: “Nell’Italia democristiana, pruriginosa e bigotta del secondo dopoguerra, l’utilizzo di un’icona femminile, per di più scandinava, come logo di una neonata sala da ballo, venne subito letto, e in fondo era da leggersi, come provocazione e intento programmatico, come il segnale di una rottura che era nell’aria e che noi, più o meno consapevolmente, stavamo veicolando…”.
A rileggere le stesse biografie dei due, entrano subito in crisi i codici e gli schemi convenzionali di identificazione politico-culturale. Il Piper – ha scritto il giornalista e scrittore Paolo Conti – “era infatti la scommessa economica e culturale dell’avvocato Alberico Crocetta, a 15 anni volontario nella Decima Mas di Junio Valerio Borghese, a 40 innamorato del rock e della pop art, e dell’imprenditore Giancarlo Bornigia…”. Anche il quale, del resto, si è raccontato così: “A casa mia non si faceva politica attiva, ma mio padre era fascista, stava dalla parte di Mussolini…”. Suo padre era stato uno dei primi a vendere automobili a Roma ed era un grande tifoso della Lazio, della quale fu anche presidente nella stagione ’54-55… Giancarlo cercava una sua strada e per tre anni va a lavorare in Africa. Al ritorno l’idea del locale insieme all’amico Alberico. “Erano anni che sognavano di far ballare i ragazzi in un locale popolare come questo” dirà all’inaugurazione l’avvocato. “Fu in America, a New York – ha raccontato Gianni Borgna nel suo fondamentale saggio Il tempo della musica. I giovani da Elvis Presley a Sophie Marceau – che andando da un night a un altro gli venne in mente di aprirne una a Roma sul tipo di Small Paradise, un noto locale di Harlem”. Trovati oltre 100 milioni di lire, fu Crocetta a individuare il posto, un nuovo palazzo a due pazzi da piazza Buenos Aires. “Era un ritaglio di Londra affacciato sui Parioli” lo definì Bornigia. Dentro si suonava una musica nuova, si ballava in modo nuovo. In poche settimane l’onda lunga montò, ben oltre i confini di Roma. “Il Piper – ha spiegato Tiziano Tarli in Beat italiano – era una zona franca rispetto all’autoritarismo di tutte le istituzioni. Ci si vestiva come voleva, si ballava scatenati senza inibizioni o si sedeva per terra. I ragazzi potevano esprimersi e comunicare con le nuove regole che stavano cercando. Era un posto liberatorio, senza formalismi”.
Lì dentro si dà convegno tutte le sere il meglio del beat musicale italiano: i Rokes di Shel Shapiro, l’Equipe 84 di Maurizio Vandelli, i Dik Dik, Renato Zero, Caterina Caselli e, soprattutto, Patty Pravo, che verrà lanciata proprio come “la ragazza del Piper”. Lì passano e si esibiscono, tra gli altri, i Rolling Stones, i Byrds, i Procol Harum, i Pink Floyd, i Genesis, David Bowie… Da lì parte il fenomeno che coinvolgerà i giovani di tutta Italia portando, tra l’altro, nel corso del festival di Sanremo del 1966, alla diffusione di un Manifesto del beat italiano. A stilarlo sono un giovane cantautore esordiente, Lucio Dalla, il paroliere Sergio Bardotti e un altro ex della Decima Mas, ma innamoratosi della rivoluzione di Guevara e Castro, come l’eretico pop Piero Vivarelli (regista, sceneggiatore, autore delle prime canzoni di Celentano). In quel manifesto, tra l’altro, si leggeva: “Noi attingiamo alla tradizione, ma non la rispettiamo. Una tradizione è valida solo in quanto si evolve. Altrimenti interessa solo i musei”. E ancora: “Siamo senza alcuna riserva, decisamente contro tutti quelli che non la pensano come noi. Prima che qualcun altro ce lo dica, riconosciamo subito da soli la necessità di aderire a questa tendenza che, partendo da Ray Charles, passa attraverso i Beatles e Bob Dylan”.
Ovviamente la reazione dei benpensanti, democristiani e comunisti essi fossero, non tardò ad arrivare. Ha raccontato Bornigia:  “Il questore di Roma, Di Stefano, il 21 dicembre 1966 chiuse il locale nel pomeriggio dicendo che costituivamo ‘mezzo di distrazione dei giovani con conseguente sviamento da occupazione e studi’. Pochi giorni dopo un’interrogazione Dc, firmata da Agostino Greggi e altri, chiedeva al Viminale di applicare la norma in tutta Italia perché  ‘è dovere costituzionale dei genitori educare i figli e sottrarli ai richiami di chi offre suggestioni per lucro’…».

Da sinistra, erano le femministe di Noi donne ad andare all’assalto, già il 27 marzo 1965: “Il Piper è un mastodontico ingranaggio culturale basato sul mondo dello ye ye, dello shake che dietro l’aspetto della ribellione nasconde invece una rivolta prefabbricata che porta stampato il marchio dell’approvazione ufficiale…”. Il sociologo Alberto Abruzzese lo ha spiegato bene: “Il Piper e la nuova musica beat? La routine del Pci non consentiva di riconoscere come ‘cultura’ tutto questo anche per una semplice questione di linguaggio: erano nuovi consumi culturali, come la tv, che vedevano il partito ben poco attento. E poi era roba venuta comunque dall’America, quindi suscettibile di riserve…”. Infine è stato Tito Schipa Junior, il quale nel 1967 proprio lì su musiche di Bob Dylan aveva messo in scena Opera beat, a ricordarlo a Paolo Conti in occasione del quarantennale del Piper: “Nel coro cantava anche un giovanissimo Giuliano Ferrara, alla batteria c’era Achille Manzotti, poi produttore cinematografico. La sinistra ufficiale italiana ci giudicava borghesi orientati verso ciò che loro consideravano disimpegno”.  Quella del Piper, concludeva Schipa Junior, “fu al contrario una rivoluzione, nata dalla borghesia: come tutte le vere rivoluzioni”. Un interrogativo è quindi lecito: non è che proprio quel vento di cambiamento, quello espressosi – anche attraverso il Piper – tra il 1965 e il 1969, fosse in realtà la vera rivoluzione dei costumi e della mentalità la quale, invece, i plumbei e ideologici anni ’70 hanno poi corrotto, deviato e  interrotto? Non è, insomma, che più che dalla celebrazione della battaglia di Valle Giulia e dalla successiva militarizzazione del mondo giovanile dovremmo, semmai, ripartire – ricercando cinquant’anni dopo la via italiana alla modernizzazione – proprio dallo spirito della Piper generation?

venerdì 6 febbraio 2015

Noi, che Houellebecq lo leggiamo da anni...



Luciano Lanna


Dopo il suo romanzo "Sottomissione" tutti leggono (o fanno finta di leggere) Michel Houellebecq... Ripubblico, tra i tanti, un mio articolo (e ne scrivevo da un decennio) su di lui del 24 ottobre 2008


Che lo scrittore francese Michel Houellebecq sia inclassificabile è più di un dato di fatto, è una verità in discutibile. «Io sono – ha detto – troppo contro il sessantottismo per piacere a sinistra ma, allo stesso tempo, troppo legato al tema dell’eros per piacere ai conservatori». E mentre in Francia faceva molto discutere l’epistolario tra lui e il filosofo Bernard- Henri Levy – Nemici pubblici edito da Flammarion e Grasset – in Italia arrivava nelle librerie La ricerca della felicità (Bompiani, pp. 363, euro 18,00), prima raccolta di saggi dello scrittore pubblicata nel nostro paese a eccezione del suo precedente studio su Lovercraft – Contro il mondo, contro la vita (Bompiani) – uscito nel 2001. Sullo sfondo di questi «saggi dissimulati » – così come li definisce Simone Barillari nella postfazione – c’è, intanto, un attacco spietato al progressismo a buon mercato e alle conseguenze esistenziali e sulla vita di relazione del sessantottismo come ideologia del ”tutto è facile”, ”tutto e subito”: «Il capitalismo liberale – scriveva già nel suo saggio su Howard Philip Lovecraft – ha allargato la propria presa sulle coscienze; di pario passo sono andati affermandosi il mercantilismo, la pubblicità, il culto cieco e grottesco dell’efficienza economica, l’appetito esclusivo e immorale per le ricchezze materiali. Peggio ancora, il liberalismo è passato dal campo economico al campo sessuale. Tutte le convenzioni sentimentali sono andate in pezzi. La purezza, la castità, la fedeltà, la decenza sono diventati marchi infamanti e ridicoli. Oggigiorno il valore di un essere umano si misura tramite la sua utilità economica e il suo potenziale erotico». Le conseguenze di una “modernizzazione senz’anima” sono chiare a Houellebecq: «Il fatto che esista soltanto il rapporto individuale fa sì che il fallimento delle coppie diventi un evento ancora più drammatico perché la coppia rappresenta l’ultimo nucleo comunitario che separa l’individuo dal puro mercato».
E non sono pochi in La ricerca della felicità gli attacchi alla cultura “politicamente corretta”, come nel capitolo “Jacques Prévert è un coglione”, in cui Houellebecq ridicolizza il facile «ottimismo» della generazione degli anni Settanta: «All’epoca si ascoltavano gli chansonniers... Innamorati che si sbaciucchiano sulle panchine, baby-boom, costruzione massiccia di case popolari per alloggiare tutta quella gente. Molto ottimismo, molta fiducia nel futuro e un po’ di stupidità...».

Lo scrittore francese, autore di autentici best seller come Estensione del dominio della lotta, Le particelle elementari, Piattaforma nel centro del mondo, La possibilità di un’isola (tutti tradotti e pubblicati in Italia da Bompiani) arriva in quest’opera saggistica a chiarire fino in fondo il suo pensiero. Quel ragionare fuori degli schemi che negli anni lo ha fatto collocare sulla scia della lezione di Louis-Ferdinand Céline. E, non casualmente, di Houllebecq aveva scritto il narratore italiano Alessandro Baricco: «Da lui ho imparato cosa vuol dire essere di destra oggi» (ovviamente si parla di destra culturale, della tradizione del pensiero della crisi, non certo di politica e schieramenti partitici...). D’altronde in questo libro leggiamo a chiare lettere: «L’errore del marxismo è stato quello di immaginare che bastasse cambiare le strutture economiche, che il resto sarebbe seguito. Ma il resto, come si è visto, non è seguito, Se, per esempio, i giovani russi si sono adattati così rapidamente all’atmosfera ripugnante di un capitalismo mafioso, è perché il regime precedente si era dimostrato di promuovere l’altruismo». Efficace il suo ricordo personale del ’68, nel capitolo “La poesia del movimento arrestato”: «Nel maggio del 1968 – annota – avevo dieci anni. Giocavo con le biglie, leggevo Pif le Chien, era una bella vita. Degli “avvenimenti del ’68 serbo solo un ricordo, ma abbastanza vivo. All’epoca mio cugino Jean-Pierre faceva la prima liceo a Le Raincy. Il liceo mi appariva allora come un posto vasto e spaventoso in cui dei ragazzi più grandi studiavano con accanimento materie difficili. Un venerdì, non so perché, mi recai con mia zia ad aspettare mio cugino all’uscita delle lezioni. Lo stesso giorno il liceo entrava in sciopero a oltranza. Il cortile, che mi aspettavo di vedere pieno di centinaia di adolescenti indaffarati, era deserto. Alcuni professori si attardavano senza scopo fra i pali della pallamano. Mi ricordo di avere camminato lunghi minuti in quel cortile mentre mia zia cercava di raccogliere briciole di informazioni. La pace era totale, il silenzio assoluto. Era un momento meraviglioso...». Houllebecq, insomma, si mostra in linea con quanto aveva affermato tempo fa decretando il fallimento tale della cultura cosiddetta “impegnata” successiva al ’45, quella che secondo molti – soprattutto in Italia – costituirebbe lo scenario dell’egemonia che ancora oggi condizionerebbe il discorso pubblico: «Sul piano della letteratura e del pensiero il crollo è quasi incredibile e il bilancio costernante». E va giù pesante contro «la crassa ignoranza scientifica» di un Sartre e Simone de Beauvoir, contro le «sciocchezze» di Bourdieu e Baudrillard e tutto il «gradino di abbrutimento al quale ci avrà portato la nozione di impegno politico». Rievocando i «misfatti» degli intellettuali di sinistra, Houellebecq si mostra poi impietoso: «Marxisti, esistenzialisti ed estremisti di sinistra di tutti i tipi hanno potuto prosperare e infettare il mondo conosciuto proprio come se Dostoevskij non avesse mai scritto una riga. Hanno almeno apportato un’idea, un pensiero nuovo rispetto ai loro predecessori del romanzo I demoni? Neanche un po’». Si torni al grande russo, quindi. Altro che Prévert.

Brasillach, un contestatore al servizio della vita





Luciano Lanna 

Oggi è la volta di Robert Brasillach, essendo il 6 febbraio il giorno della ricorrenza della sua morte. Infatti, a tanti anni di distanza, qualcosa va aggiunta a quanto è stato annotato negli anni scorsi. Qualcosa che ha a che fare anche con il trattamento riservato ad altri grandi scrittori o pensatori del Novecento: Ezra Pound e Ernst Junger, Céline o Giovanni Gentile, Heidegger o Drieu La Rochelle… Certi ambienti, forse per via una sorta di riflesso condizionato, scattano subito a rievocare il santino, il martire, il perseguitato, quasi tralasciando e censurando i contenuti, le suggestioni e le idee di cui le opere di cui gli autori in questione sono state portatori. Eppure, guardando altrove, quasi nessuno scrive di Federico Garcìa Lorca, di Majakovskij, di Cesare Pavese o di Piero Gobetti limitandosi alle fini tragiche della loro biografie oppure ai loro suicidi. Ma anche questo è un segnale dello sforzo che ancora occorre per restituire al dibattito pubblico e all’immaginario condiviso una visione serena e oggettiva della cultura – di tutta la cultura – del secolo scorso. C’era forse bisogno che fosse il Corriere della Sera, e solo nel 2007, a titolare un lungo articolo “Se Evola diventa il filosofo della libertà”? E c’era bisogno di un filosofo della scienza come Giulio Giorello per scrivere un “Elogio libertario di Ezra Pound”?

Brasillach, allora, di cui una casa editrice (Caravella) pubblicò negli anni Sessanta i primi testi tradotti. Il 6 febbraio 1945, ad appena tre mesi dalla vittoria degli alleati in Europa, Brasillach veniva condannato a morte dal governo della Liberazione francese col reato di collaborazionismo. A niente varrà un appello per la grazia sottoscritto dalla stragrande maggioranza degli intellettuali francesi, da François Mauriac ad Albert Camus. Oltretutto, nei suoi libri c’era il senso del percorso di tutta una generazione. Uno storico come Jean-Louis Loubet Del Bayle cercando, nei primi anni ’70, di rievocare quella temperie in Francia titolò infatti un suo importante saggio I non conformisti degli anni Trenta, presentandolo proprio come il «diario di una generazione». La quale era, nei fatti, la seconda generazione di “contestatori” del ’900, i francesi che avevano 25 anni nel 1930: Robert Aron, Robert Brasillach, Daniel Rops, Jean Lacroix, René Daumal, Alexandre Marc, Thierry Maulnier, Emmanuel Mounier, Denis de Rougemont e qualcun altro poco più grande d’età, come Drieu, Céline, Abel Bonnard, Alphonse de Chateaubriant, Lucien Rebatet… Benché di origini sociali, culturali e religiose diverse, essi, per solidarietà di generazione, collaborarono alle stesse riviste, parlarono lo stesso linguaggio e sognarono insieme di rinnovare e cambiare la Francia e l’Europa del loro tempo…In Italia, fino al secondo dopoguerra, di Brasillach in realtà non si seppe più di tanto. Sappiamo solo che Alberto Moravia nel ’41 fece pubblicare la traduzione di un suo racconto (“Morte improvvisa”, del ’35), inizialmente apparso sulla rivista francese Je suis partout che era diretta proprio dal giovane intellettuale francese. Da noi, in realtà, solo nel maggio 1961, e solo grazie al coraggio di un editore non-conformista e di area socialista-libertaria come Massimo Pini, arriva nelle librerie Romanticismo fascista di Paul Sérant, con cui per la prima volta veniva portata alla diretta conoscenza nel nostro contesto culturale quell’importante movimento generazionale. Le 350 pagine di quel saggio – ripubblicato poi nel 1971 dalle Edizioni del Borghese curate da Claudio Quarantotto – provocheranno curiosità, traduzioni, approfondimenti. E il primo interprete sarà Giano Accame con il suo saggio “Contraddizioni di un romanticismo a destra” che solleciterà anche una lunga e articolata risposta dello stesso Sérant.




È del 1964, come dicevamo, la pubblicazione per le edizioni Caravella di Lettera a un soldato della classe ’40, un testo coinvolgente, un diario dal carcere, in cui Brasillach iniziava con «caro ragazzo», rivolgendosi ai giovani della generazione successiva alla sua e si concludeva così: «Tu che mi leggerai, e che vivrai in un mondo diverso, avrai fatto la tua scelta, e guarderai le nostre disgrazie, contemporanee alla tua infanzia, con la stessa obiettività storica che noi abbiamo avuto per la prima grande guerra del secolo. Ti chiedo solo di non disprezzare le verità che noi abbiamo cercato, gli accordi che abbiamo sognato al di là di ogni disaccordo, e di conservare le due sole virtù alle quali io credo: la fierezza e la speranza». Ma perché, a differenza di altri “maledetti” come Céline o Drieu, Brasillach non sfonderà davvero mai in Italia nella grande editoria? Ce lo spiegava, già nel 1965, Giano Accame: «Perché Drieu è attuale, Céline è ancora attuale, e Brasillach non lo è? Perché Drieu e Céline erano dei disperati e Brasillach era pieno di felicità». Per cui un certo ambiente ne ha apprezzato più la dimensione tragica e l’eroismo della fine che la sua estetica e la sua visione della vita… Tardi, troppo tardi, abbiamo infatti riscoperto I sette colori, Il nostro anteguerra e La ruota del tempo. Brasillach, il poeta morto giovane, è stato soprattutto il cantore della giovinezza, della bellezza, della modernità con l’anima, della speranza, del cambiamento, dell’ottimismo… Ha scritto Stenio Solinas: «Brasillach sta a Stendhal così come Flaubert sta a Céline. Per i primi la vita vale la pena d’essere vissuta, per i secondi l’orrore e la stupidità che ne sono alla base fanno sì che essa non meriti altro che la sua descrizione, come un biologo che osservi al microscopio una coltura di batteri». E aggiunge: «Il grande equivoco sul quale poggia il giudizio, ideologico più che critico, nei confronti di Brasillach è quello di non perdonargli proprio questo atteggiamento di fronte alla vita». È vero l’ambiente degli “sconfitti” ha sempre preferito il martire allo scrittore.

Ma Brasillach, per dirne una, era invece un contestatore al servizio della vita. Era affascinato come pochi dalla magia della modernità: amava il jazz, il teatro, il cinema, i cartoni animati, la musica, i caffè, tutto ciò che era estetica. Niente di decadente, niente di recriminatorio, tanto meno nessuna tentazione conservatrice o passatista. Il fascismo stesso lui lo interpretò in maniera molto personale e intellettuale, come la rivolta dei giovani contro la decadenza e la bruttezza. «La gravità – scriveva – non è tutto nell’esistenza, e persino assai meno importante della leggerezza». Libertario, in fondo, non conformista, ribelle e vitalista, quasi anarchico. Gli piacerà ai tempi dell’occupazione tedesca la battuta di un ragazzo deluso dall’esito autoritario, oppressivo, moralistico e bigotto dei fascismi storici: «In fondo noi siamo degli anarco-fascisti». Una inclinazione che, a ben leggere, nella visione di Robert Brasillach è tutt’uno con l’essenza della giovinezza, il grande mito politico del Novecento. Un mito che Brasillach così definiva: «Spirito anticonformista per eccellenza, antiborghese sempre, irriverente per vocazione».

scritto nel 2012

mercoledì 4 febbraio 2015

Fascistelli: il film. Ecco com'era il Msi al di là delle retoriche postume



Annalisa Terranova

Ho visto il film Fascistelli, tratto dal romanzo omonimo, dove Stefano Angelucci Marino fa il regista e l'attore. Lui è anche quello che il romanzo l'ha scritto. Fa teatro. E' uno di quelli che in genere a destra non trovi e che se per caso li trovi, dopo un po' se ne scappano. E nella vicenda di Fascistelli - tormenti e iniziazione alla politica di Vittorio Brasile, sedicenne di Civitella, paesino abruzzese fuori dalla storia - Stefano Angelucci Marino di disillusioni personali a mio avviso ne dissemina una buona dose. Il film è divertente, si nota l'impegno di superare il dilettantismo che caratterizzava pellicole più ambiziose (come Sangue sparso), ci ritrovi i tic d'ambiente, vecchi e nuovi, ci rintracci certe ingenuità arroganti che abbondavano tra i militanti tutti d'un pezzo. Colpisce per l'assenza di retorica e per la capacità di "tipizzazione" dei personaggi. Vittorio è l'adolescente di destra in cui in tanti si possono riconoscere. L'altro protagonista, Tonino Fendente, il segretario del Msi locale e consigliere comunale trombone, intriso di luoghi comuni sul fascismo, è il classico dirigente di partito che tutti, più o meno, abbiamo conosciuto, e per il quale manteniamo magari un affetto appena appena venato di rimprovero. 
Ed ecco la storia: Vittorio, sentendosi diverso, sentendosi "contro", trova che iscriversi alla sezione del Msi del suo paese, nel 1993, possa rappresentare il massimo della trasgressione. Lì trova il dirigente di cui sopra, Fendente il fascistone, consigliere comunale che tira a campare, appagato da una sopravvivenza politica che si reputa bastare a se stessa per le gite periodicamente organizzate a Predappio. E trova anche camerati caricaturali, quelli che raccontano di risse e di performance amorose o che leggono Evola a tutte le ore del giorno. E ancora ci trova l'immancabile busto del Duce, a cui rivolge la domanda delle domande: ma tu chi sei? Perché i fascismi, nel Msi, erano tanti, e molti "immaginari". Finché l'ingranaggio di un sistema che sembrava inespugnabile si rompe, senza che i fascistelli abbiano contribuito in nulla a determinare la svolta storica (il loro merito essendo stato appunto quelli di sopravvivere e testimoniare) e la possibilità di inserirsi nel sistema (strategia del resto inseguita dal Msi fin dai tempi di Michelini, al di là delle retoriche postume) conquista i cuori neri. Che cosa significa a Civitella inserimento nel sistema? Spartizione degli appalti. Né più né meno. Poco per farci rinnegare Fendente come traditore. Abbastanza perché il giovane Vittorio volti le spalle a un partito dove capisce che la rivoluzione non si farà mai. E poi c'è il sacrificio, simbolico, del bravo ragazzo. L'uccisione di quell'angolo di coscienza che chi fa politica a certi livelli non può permettersi di ascoltare. O meglio si racconta questa scusa per lavarsela del tutto, la coscienza. E allora riconosciamo in Vittorio quei ragazzini che negli anni Novanta con sorprendente tenacia si offrivano alla politica in modo disinteressato, prima che An ne facesse dei carrieristi insopportabili. Mi ricordo, a tale proposito, una conversazione con Tony Augello. Io sostenevo che erano meglio quelli della mia generazione, che negli anni Settanta le scelte politiche conducevano a una formazione granitica, forse limitata ma di sicuro definibile come scuola di vita. Lui era più indulgente, diceva che i ragazzini che in un decennio post-ideologico bussavano a una sezione di partito erano più eroici di chi faceva gli scontri negli anni di piombo. Perché chi glielo fa fare di trascinarsi tra queste macerie? Ora, a parte i pochi che hanno ricevuto ricompensa per il loro farsi portaborse (ma sempre rivoluzionari, per carità) i molti continuano a farsi quella domanda. E magari anche a sorriderne, un sorriso amaro e liberatorio, osservando ormai distanti le gesta del camerata Vittorio Brasile. 

lunedì 2 febbraio 2015

Sorpresa: sarà il cattolicesimo a guidare la riscossa, Houellebecq ha torto...





Riproponiamo di seguito un estratto di un interessante articolo di Antonio Carioti (da La Lettura del Corriere di domenica 1 febbraio 2015) su come la religione cattolica stia conoscendo un risveglio inedito a dispetto di una secolarizzazione che si vorrebbe irreversibile. Lo spunto di Carioti è lo studio di Manlio Graziano, Guerra santa e santa alleanza. Religioni e disordine internazionale nel XXI secolo (Il Mulino). Graziano riprende lo scenario che troviamo nel romanzo Sottomissione di Houellebecq ma approda a conclusioni diverse: l'Islam non dominerà in Europa e l'Occidente conoscerà una riscossa della chiesa cattolica. 

"Fornire sicurezza, afferma Manlio Graziano, sarebbe appunto il compito principale dello Stato, che però ci riesce sempre meno: 'La sua sovranità è erosa dalla finanza globale e dalle organizzazioni internazionali. In più la crisi fiscale lo costringe a tagliare i servizi sociali su cui basa il consenso. Opprime i cittadini comuni con le tasse e non li aiuta a risolvere i problemi. Così si è creato un vuoto che le religioni tendono a colmare, offrendo un riferimento identitario ma anche prestazioni assistenziali. La vita sociale non si può fondare solo sulla ricerca del profitto: la fede diventa così un correttivo rispetto all'individualismo esasperato'. Lascia perplessi l'idea che sia la chiesa cattolica la massima beneficiaria di questo processo. Non è la rinascita islamica il fenomeno più vistoso e purtroppo anche violento? '... Non bisogna sopravvalutare i fautori della guerra santa, le cui posizioni estreme non derivano dall'islam originario ma piuttosto dall'imitazione di movimenti rivoluzionari moderni. L'imperversare del Califfato, in Siria e in Iraq, è un effetto della rivalità geopolitica tra Iran, Arabia Saudita e Turchia. Boko Haram, in Nigeria, è un gruppo tribale che nobilita la sua sete di potere con il richiamo all'Islam. E va ricordato che il fanatismo sanguinario si incontra anche tra seguaci di altre religioni: in ambito musulmano ha più spazio perché l'Islam sunnita, largamente maggioritario, manca di autorità religiose investite del compito di delimitare il perimetro della legge divina, la sharia, e condannare i devianti'. 
La forza della Chiesa cattolica, sostiene Graziano, risiede invece proprio nella sua struttura centralizzata e gerarchica, che ha ricominciato a far valere con Giovanni Paolo II: 'Papa Wojtyla non si è limitato a combattere il comunismo... ha opposto allo scontro di civiltà, teorizzato da Samuel Huntington, il progetto di una santa alleanza tra tutte le grandi religioni per far arretrare il secolarismo e riportare la fede al centro della sfera pubblica". (...) 'Su scala globale - dice Graziano - dal 1978 al 2012 i seminaristi sono raddoppiati e anche i sacerdoti sono aumentati, sia pure non di molto, mentre i diaconi sono passati da meno di 8mila a 41mila. In diversi Paesi, persino in Gran Bretagna, si registra una crescita della pratica religiosa cattolica.  Non bisogna confondere l'Europa con il mondo'. Tuttavia la battaglia di Ratzinger sui valori non negoziabili sembra fallita, tanto che Papa Francesco l'ha abbandonata: '... La campagna ratzingeriana è comunque servita a mobilitare gruppi militanti, le minoranze creative, che hanno ridato visibilità e influenza alla Chiesa. Lo stesso Bergoglio ha smorzato i toni sulla bioetica ma ha rilanciato lo spirito missionario, che consente ai cattolici di fronteggiare la concorrenza dei gruppi evangelici in America Latina'. "   
Antonio Carioti