venerdì 6 febbraio 2015

Noi, che Houellebecq lo leggiamo da anni...



Luciano Lanna


Dopo il suo romanzo "Sottomissione" tutti leggono (o fanno finta di leggere) Michel Houellebecq... Ripubblico, tra i tanti, un mio articolo (e ne scrivevo da un decennio) su di lui del 24 ottobre 2008


Che lo scrittore francese Michel Houellebecq sia inclassificabile è più di un dato di fatto, è una verità in discutibile. «Io sono – ha detto – troppo contro il sessantottismo per piacere a sinistra ma, allo stesso tempo, troppo legato al tema dell’eros per piacere ai conservatori». E mentre in Francia faceva molto discutere l’epistolario tra lui e il filosofo Bernard- Henri Levy – Nemici pubblici edito da Flammarion e Grasset – in Italia arrivava nelle librerie La ricerca della felicità (Bompiani, pp. 363, euro 18,00), prima raccolta di saggi dello scrittore pubblicata nel nostro paese a eccezione del suo precedente studio su Lovercraft – Contro il mondo, contro la vita (Bompiani) – uscito nel 2001. Sullo sfondo di questi «saggi dissimulati » – così come li definisce Simone Barillari nella postfazione – c’è, intanto, un attacco spietato al progressismo a buon mercato e alle conseguenze esistenziali e sulla vita di relazione del sessantottismo come ideologia del ”tutto è facile”, ”tutto e subito”: «Il capitalismo liberale – scriveva già nel suo saggio su Howard Philip Lovecraft – ha allargato la propria presa sulle coscienze; di pario passo sono andati affermandosi il mercantilismo, la pubblicità, il culto cieco e grottesco dell’efficienza economica, l’appetito esclusivo e immorale per le ricchezze materiali. Peggio ancora, il liberalismo è passato dal campo economico al campo sessuale. Tutte le convenzioni sentimentali sono andate in pezzi. La purezza, la castità, la fedeltà, la decenza sono diventati marchi infamanti e ridicoli. Oggigiorno il valore di un essere umano si misura tramite la sua utilità economica e il suo potenziale erotico». Le conseguenze di una “modernizzazione senz’anima” sono chiare a Houellebecq: «Il fatto che esista soltanto il rapporto individuale fa sì che il fallimento delle coppie diventi un evento ancora più drammatico perché la coppia rappresenta l’ultimo nucleo comunitario che separa l’individuo dal puro mercato».
E non sono pochi in La ricerca della felicità gli attacchi alla cultura “politicamente corretta”, come nel capitolo “Jacques Prévert è un coglione”, in cui Houellebecq ridicolizza il facile «ottimismo» della generazione degli anni Settanta: «All’epoca si ascoltavano gli chansonniers... Innamorati che si sbaciucchiano sulle panchine, baby-boom, costruzione massiccia di case popolari per alloggiare tutta quella gente. Molto ottimismo, molta fiducia nel futuro e un po’ di stupidità...».

Lo scrittore francese, autore di autentici best seller come Estensione del dominio della lotta, Le particelle elementari, Piattaforma nel centro del mondo, La possibilità di un’isola (tutti tradotti e pubblicati in Italia da Bompiani) arriva in quest’opera saggistica a chiarire fino in fondo il suo pensiero. Quel ragionare fuori degli schemi che negli anni lo ha fatto collocare sulla scia della lezione di Louis-Ferdinand Céline. E, non casualmente, di Houllebecq aveva scritto il narratore italiano Alessandro Baricco: «Da lui ho imparato cosa vuol dire essere di destra oggi» (ovviamente si parla di destra culturale, della tradizione del pensiero della crisi, non certo di politica e schieramenti partitici...). D’altronde in questo libro leggiamo a chiare lettere: «L’errore del marxismo è stato quello di immaginare che bastasse cambiare le strutture economiche, che il resto sarebbe seguito. Ma il resto, come si è visto, non è seguito, Se, per esempio, i giovani russi si sono adattati così rapidamente all’atmosfera ripugnante di un capitalismo mafioso, è perché il regime precedente si era dimostrato di promuovere l’altruismo». Efficace il suo ricordo personale del ’68, nel capitolo “La poesia del movimento arrestato”: «Nel maggio del 1968 – annota – avevo dieci anni. Giocavo con le biglie, leggevo Pif le Chien, era una bella vita. Degli “avvenimenti del ’68 serbo solo un ricordo, ma abbastanza vivo. All’epoca mio cugino Jean-Pierre faceva la prima liceo a Le Raincy. Il liceo mi appariva allora come un posto vasto e spaventoso in cui dei ragazzi più grandi studiavano con accanimento materie difficili. Un venerdì, non so perché, mi recai con mia zia ad aspettare mio cugino all’uscita delle lezioni. Lo stesso giorno il liceo entrava in sciopero a oltranza. Il cortile, che mi aspettavo di vedere pieno di centinaia di adolescenti indaffarati, era deserto. Alcuni professori si attardavano senza scopo fra i pali della pallamano. Mi ricordo di avere camminato lunghi minuti in quel cortile mentre mia zia cercava di raccogliere briciole di informazioni. La pace era totale, il silenzio assoluto. Era un momento meraviglioso...». Houllebecq, insomma, si mostra in linea con quanto aveva affermato tempo fa decretando il fallimento tale della cultura cosiddetta “impegnata” successiva al ’45, quella che secondo molti – soprattutto in Italia – costituirebbe lo scenario dell’egemonia che ancora oggi condizionerebbe il discorso pubblico: «Sul piano della letteratura e del pensiero il crollo è quasi incredibile e il bilancio costernante». E va giù pesante contro «la crassa ignoranza scientifica» di un Sartre e Simone de Beauvoir, contro le «sciocchezze» di Bourdieu e Baudrillard e tutto il «gradino di abbrutimento al quale ci avrà portato la nozione di impegno politico». Rievocando i «misfatti» degli intellettuali di sinistra, Houellebecq si mostra poi impietoso: «Marxisti, esistenzialisti ed estremisti di sinistra di tutti i tipi hanno potuto prosperare e infettare il mondo conosciuto proprio come se Dostoevskij non avesse mai scritto una riga. Hanno almeno apportato un’idea, un pensiero nuovo rispetto ai loro predecessori del romanzo I demoni? Neanche un po’». Si torni al grande russo, quindi. Altro che Prévert.

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