domenica 24 maggio 2015

L'italiano nato a Giava e cresciuto in campo di concentramento tra il '40 e il '46



Luciano Lanna

Tra le mie letture preferite ci sono, prima di tutto, le autobiografie, la memorialistica, la narrativa che ripercorre storie personali e familiari. Sono i testi che ci aiutano a conoscere la storia vera, le vite e la vita di persone reali di cui possiamo percepire la scansione autentica senza il filtro di narrazioni ideologiche e filtri di interpretazioni generali spersonalizzanti. Ultimo di questi testi in cui mi sono imbattuto, e assai favorevolmente, è Ombre lunghe di Pier Luigi Giorgi (Cromografica-Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2014, pp. 305). Il titolo si ispira a un verso di Vincenzo Cardarelli del 1948, in cui i ricordi di ogni vita vengono paragonati a “queste ombre troppo lunghe del nostro breve corpo”. Il riferimento va quindi ai ricordi, nel nostro caso di Pier Luigi Giorgi, un uomo nato nel 1933 e quindi ora ultraottantenne. Giorgi, oggi pensionato con alle spalle una lunga vita di successi professionali come manager della Olivetti, ha svolto un ruolo importante in molti passaggi fondamentali dell’azienda e dell’economia italiana, è stato amico e collaboratore di personaggi come Dino Olivetti e Pier Luigi Celli, venne assunto da giovane da Furio Colombo, ha conosciuto ed è stimato da Cesare Romiti, ed è stato sicuramente uno dei protagonisti del boom economico. Ma Giorgi, anche per come si racconta, è un uomo che viene da lontano. E la sua storia, come anche le sue idee e la sua sensibilità, sono un esempio centrale per capire la vera storia degli italiani del Novecento.
Pier Luigi nasce nel 1933 a Lembang, un villaggio sull’isola di Giava. Il papà, dopo la partecipazione alla Grande Guerra come Ardito, andò a lavorare, portandosi dietro la moglie, come dirigente nelle piantagioni di gomma delle Colonie inglesi. Ma la sua identità era certa: “Quando venne congedato, avendo militato nel battaglione che più di ogni altro si era distinto sul Piave e appartenendo a una famiglia della modesta borghesia agraria della Bassa Padana, era inevitabile che continuasse a indossare la camicia nera, la stessa che aveva già portato sotto le armi con la divisa degli Arditi”. Nel 1940, dopo quasi dieci anni da italiano cosmopolita all’estero, il mondo si capovolge: all’improvviso la famiglia Giorgi si trovò isolata in campo nemico – la Malesia era dominio britannico – e, inizialmente viene prelevato il capofamiglia, portato in prigione a Singapore e poi rinchiuso per sei anni in un campo di concentramento per civili “nemici” in Australia. Dopo poco tempo, vennero reclusi a Tatura, uno località inospitale del Sud-Est dell’Australia, anche la moglie, il figlio Pier Luigi e la sorellina Gabriella. Lì confluirono tutti i cittadini italiani e tedeschi provenienti da Singapore, dalla Malesia e da Hong Kong. E, ricorda Giorgi, “c’era anche un folto gruppo di italiani provenienti dalla Palestina, molti dei quali, di seconda o terza generazione, avevano sposato donne del posto e si erano convertiti agli usi e costumi locali e parlavano arabo in famiglia. Inoltre, gli ebrei, sia italiani che tedeschi, erano numerosissimi, soprattutto tra questi ultimi, perché erano emigrati dalla Germania per sfuggire alle leggi razziali”.



Tra il 1941 e il 1945 furono ben 18mila i PoW (“Prisoners of War”) italiani ospitati in Australia: “Le autorità militari e politiche si limitavano a controllare i passaporti: hai il passaporto italiano o tedesco? Allora sei un nemico e come tale ti trattiamo…”. Le abitazioni loro riservate erano delle baracche prefabbricate in compensato con il tetto in eternit. Mancava l’acqua corrente: per questo bisognava recarsi in fondo al recinto, dov’erano collocati i servizi igienici comuni, una baracca con le latrine per le donne da una parte, per gli uomini dall’altra. Carta igienica non ce n’era, ci si passavano le pagine dei vecchi giornali. E lì Pier Luigi trascorre anni fondamentali della sua vita, dai sette ai tredici anni di età, con un professore improvvisato e un solo film visto in tutto quel lungo periodo: Fantasia di Walt Disney.
Dopo l’8 settembre 1943 agli italiani fu chiesto se volevano passare con i cooperatori. Ma il papà di Pier Luigi si rifiutò, non firmò l’atto di cooperazione. “You are a true gentleman, Mr. Giorgi”, ammise in compenso l’ufficiale britannico, alzandosi in piedi e mettendosi sull’attenti. Quindi altri tre anni di privazioni e difficoltà anche maggiori per sé e la sua famiglia, ma vissuti sempre con serenità e ottimismo. Giorgi rilegge quel periodo alla luce dell’opera di Viktor E. Frankl l’autore di Uno psicologo nel lager, dove racconta la sua esperienza di ebreo sopravvissuto al campo di Auschwitz: “Fu proprio nel lager che Frankl sperimentò l’importanza di avere una missione, un ideale, una ragione per vivere. Perché soltanto chi si era imposto un compito specifico da assolvere, e che vi si dedicava facendo appello a tutte le proprie risorse fisiche e morali, trovava la forza per superare le situazioni più degradanti e ignobili”. Giorgi spiega, infatti, che anche tra gli internati italiani a Tatura aleggiasse quello spirito e che il sentirsi, sia pure involontariamente, coinvolti in una lunga prova esistenziali abbia rafforzato quegli spiriti e condotti a temprare positivamente il loro carattere.



Buona parte degli italiani di Singapore e di altre provenienze asiatiche, annota ancora Giorgi, erano inoltre di origine o di religione ebraica, ma questi ultimi rimasero pacificamente inseriti nella comunità italiana fino all’ultimo giorno: “L’eco delle leggi razziali e delle discriminazioni antisemite dell’ultimo periodo fascista non fu percepito oltremare, dove molti ebrei continuarono a frequentare i circoli fascisti. In quegli anni, all’estero, bastava essere italiani per essere fascisti e viceversa”. Ma non era così per i tedeschi: “Quelli di loro che si identificavano col regime si trovavano di fronte, anzi decisamente in contrapposizione con altri tedeschi, la folta comunità di ebrei tedeschi fuggiti dalla Germania di Hitler. Nel nostro reparto del campo, infatti, gli ebrei tedeschi costituivano la maggioranza, mentre i tedeschi nazisti erano pochi e isolati. E non sono questi dati di fatto che si darebbero oggi per scontati…”.
Vale la pena leggere, a questo punto, alcune righe di Giorgi: “Gli ultimi due anni a Tatura furono caratterizzati da un’angosciosa sensazione di attesa della fine. All’udire le pur scarse notizie trapelate all’interno del campo – relative a El Alamein e Stalingrado prima, all’invasione della Sicilia poi, alla caduta del Duce, allo sbarco in Normandia, allo scempio dei bombardamenti alleati sulle città italiane e tedesche, allo sbarco e alla lenta risalita della penisola da parte delle truppe alleate – una cupa sensazione d’impotenza, simile a una fitta cappa nera, si era impadronita di tutti noi”. E ancora: “Qualche giorno dopo il 28 aprile del 1945, appena la notizia ci fu comunicata dal capitano di guardia in forma ufficiale, quelli della vecchia guardia fascista organizzarono un rito funebre per la morte di Mussolini: al momento del Vangelo, il padre cappellano recitò la Preghiera del legionario e, al termine della messa, ci fu l’appello al camerata Benito. Tutti, sull’attenti, risposero all’unisono: ‘Presente!’ per tre volte e questo grido segnò la fine di un mito. Avevo soltanto dodici anni ma ero in piedi in mezzo a loro e li ho guardati in faccia a uno a uno: credo di aver capito e condiviso nell’intimo il travaglio di chi, più grande di me, in quel momento sentiva tramontare per sempre le illusioni alle quali era rimasto aggrappato in tanti anni di privazioni e solitudine”.
Ci vollero le bombe di Hiroshima e Nagasaki, a metà agosto, perché le autorità si decidessero ad aprire i cancelli del campo e a smistare i prigionieri in Australia. Poi, a dicembre del 1946, da Sydney la nave per il rientro in Italia. Da Napoli, la risalita della penisola verso Pavia, dove abitavano i nonni: “Papà, mamma e io – ricorda Giorgi – indossavamo ancora i cappotti di lana grigioverde dei prigionieri di guerra, e i ferrovieri ci guardavano diffidenti, stupiti soprattutto per la presenza di una bambina imbacuccata che si guardava intorno con aria stralunata”. A Pavia, sistemata la famiglia con un po’ di difficoltà nella casa dei nonni, Pier Luigi trascorre altri sette anni, di cui gli ultimi tre in collegio. Al liceo tanto studio e ottimi risultati, tranne che agli esami di maturità, dove un professore lo prende di mira e gli abbassa la media: si era accorto che, in attesa dell’interrogazione, lo studente cercava di alleggerire la tensione leggendo Candido, il giornale satirico diretto da Guareschi. D’altra parte, Pier Luigi in quegli anni di liceo era stato attivissimo nell’organizzare manifestazioni studentesche per Trieste italiana: “Ero io che guidavo il gruppo di studenti del classico nel liberare quelli dello scientifico e delle magistrali, dove per entrare dovevamo scardinare degli enormi cancelli; e dove sapevamo di trovare torme di ragazzine che ci aspettavano festanti per sfilare al corteo al nostro fianco; ero io, infine, che attaccavo manifesti e portavo la bandiera ai comizi del Msi”.



Comunque, superata la maturità, Pier Luigi parte in autostop insieme a un suo amico alla volta della Scandinavia. Attraverso Svizzera, Germania, Danimarca, Svezia e Norvegia fu un viaggio di iniziazione che avrebbe segnato la sua vita e il suo spirito. Quindi, l’università, sempre a Pavia. Qui Giorgi fu il promotore della prima lista del Fuan. Le elezioni non andarono bene, soprattutto per alcuni brogli messi in atto dalle altre liste. Giorgi se ne fa una ragione: “Non ebbi bisogno di pensarci su molto: decisi che da quel momento non avrei più sprecato tempo a occuparmi attivamente di politica, né all’università né in altre sedi”. Ma leggendo il libro si comprende bene che il suo orientamento sia rimasto sempre lo stesso e che anche le sue simpatie, anche elettorali, siano andate nella stessa direzione. Solo che Pier Luigi si è occupato d’altro nella vita: della costruzione del suo carattere, della sua curiosità intellettuale, della sua famiglia, del suo lavoro. E a leggere bene tutte le pagine, estremamente interessanti e coinvolgenti che dedica a questo, saltano molti stereotipi e si scardinano molti luoghi comuni. A cominciare dalla descrizione dell’anno che ha trascorso negli Stati Uniti per una borsa di studio di preparazione al lavoro nell’Università di Tulane in Louisiana. Pier Luigi rimase estasiato dalla percezione di una realtà plurietnica. Gli apparvero come meravigliosi i jazz funeral, i funerali con processione e jazz band della gente di colore, con l’ascolto di brani come When the Saints Go Marching In. E non a caso, racconta: “C’era ancora l’apartheid e i bianchi non erano ammessi, ma noi avevamo brigato per ottenere un’autorizzazione speciale in quanto europei e simpatizzanti dichiarati del semiclandestino movimento integrazionista”. E Giorgi ricorda le battaglie, che lui condivideva, di Martin Luther King.
L’altro aspetto interessante è la lettura che, lui e i suoi colleghi di studi, fanno in inglese di On the Road di Jack Kerouac, che soltanto due anni dopo verrà tradotto in Italia: “Era il manifesto di protesta delle correnti di avanguardia giovanili, una tormentata generazione di filosofi mistici che si ribellavano al dilagante conformismo di massa con la loro disperata ricerca di valori, di un nuovo senso della vita: giovani che si esaltavano suonando o ascoltando jazz, passavano da una moto a un’auto schiacciando l’acceleratore fino a bucarsi la suola delle scarpe, sfogando così la loro energia, quella loro avidità di vita che sembrava non potersi placare mai e in nessun luogo…”. E Giorgi, sulla scorta di Kerouac, percorrerà gli States coast to coast, dall’Est alla California, con avventure, conoscenze, entusiasmi e scoperte, dagli homeless all’Ymca. Godibilissime le “pagine americane”, come poi anche quelle delle sue prime avventure professionali.
Al termine del libro, Giorgi spiega come tutta quanta la sua vita sia stata mossa dall’ideale della formazione del carattere, un percorso consapevole in cui ogni occasione è stata utile per mettersi alla prova. “Tutto ciò che non ci uccide ci rende più forti”, ricorda commosso, “erano le parole di Nietzsche che tante volte mi aveva ripetuto il mio professore di tedesco e di filosofia a Tatura”.  Una visione della vita che non si chiude però mai nell’individualismo: “La mia speranza – è il suo messaggio – è che chi legge si renda conto che la formazione personale di ciascuno di noi non è circoscritta ai posti e ai tempi che gli sono toccati in sorte, ma che essa attinge a un forziere ricchissimo e prezioso, pieno di tutte le storie delle persone per noi importanti che ci hanno preceduto e che hanno vissuto in altre epoche e in altri mondi, così lontani e diversi, apparentemente”. 

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