domenica 20 dicembre 2015

La Porta Santa: la poesia di Pascoli per il Giubileo 1900



Sandro Consolato

Papa Leone XIII aprì il solenne Giubileo che doveva segnare il passaggio di secolo, dall’Otto al Novecento, il 24 dicembre del 1899; chiuse quindi la Porta Santa un anno dopo, il 24 dicembre del 1900. L’evento ispirò a Giovanni Pascoli uno dei suoi INNI, intitolato LA PORTA SANTA, pubblicato sul “Marzocco” il 6 gennaio 1900. Questo testo rientra tra quelli di Pascoli in cui sono presenti il “tema cosmico” ed un senso indefinito di angoscia collettiva, lo stesso che noi ancor più forte avvertiamo al termine di questo quindicesimo anno del nuovo millennio in cui, tra guerre e migrazioni di popoli, si apre un nuovo Giubileo straordinario, voluto da un Pontefice che si è annunciato come “venuto dalla fine del mondo”. Giustamente Arnaldo Colasanti, curatore dell’edizione Newton Compton di “Tutte le poesie”, per “La Porta Santa” parla di “Poesia di grande fascino”, in cui si affaccia “il dubbio assurdo di un’apocalisse vicina”. Patrizia Paradisi, nel suo studio presente in rete su “La ricerca dell’Assoluto nella letteratura: Giovanni Pascoli”, osserva: “Pascoli stravolge il significato religioso del rito, immaginando che il popolo che vi assiste si senta in qualche modo escluso, tenuto fuori, dalla realtà oltre la porta, la Vita Eterna promessa da Dio e dalla religione, e allora invoca il Papa perché non chiuda questa porta, e lasci che il popolo dei fedeli possa vedere quello che c’è di là”. Forse potremmo leggere questo inno pascoliano anche come un monito a contemplare certi eventi come eventi di portata universale, al di là della nostra appartenenza religiosa, l’apertura e la chiusura della Porta Santa essendo uno di quei gesti sacri che vengono da tempi antichi ma si coniugano con speranze e paure connesse sia allo stesso esistere umano sia al vivere in un determinato tempo. Ed ora, non ci resta che leggere il testo.

Uomo, che quando fievole / mormori, il mondo t’ode, / pallido eroe, custode / dell’alto atrio di Dio;
leva la man dall’opera, / o immortalmente stanco! / Scingi il grembiul tuo bianco, / mite schiavo di Dio: / la Porta ancor vaneggi! / Vogliono ancor, le greggi / meste, passar di là.
O nostro primogenito, / puro tra i bissi puri, / le pietre che tu muri / con la gracile mano, / nel sepolcreto sembrano / chiudere i tuoi fratelli / tutti; con tre suggelli, / tutto il genere umano.
Solo la bianca Morte / chiude così le porte, / che non riaprirà!
Oh! le tue mani tremano! / Dove sarai tu, quando / un secol nuovo, orando, / toglierà le tre pietre?
Dove anche noi. Le candide / culle ch’or vanno e stanno / tra un canto pio, saranno / tombe immobili e tetre.
Avanti quella Porta / chiusa non c’è che morta / gente; un’ombrìa che va. /
O vecchio, è vecchio, al nascere, / del suo morir futuro / anche il bambino, puro / là tra i puri suoi bissi.
Tutti i fratelli tremano / seguendo te che tremi, / come su gli orli estremi / d’invisibili abissi.
Vecchio che in noi t’immilli, / lasciaci udir gli squilli / dell’immortalità!
Di là, di là, risuonano / chiare le argentee trombe / che spezzano le tombe / d’inconcusso granito!
Di là, di là, risuonano / canti or soavi or gravi; / ché c’è di là, con gli avi, / qualche bimbo smarrito!
Tutto il di noi che vive / è ciò che a noi sorvive: / tutto è per noi di là!
Non ci lasciar nell’atrio / del viver nostro, avanti / la Porta chiusa, erranti / come vane parole;
ad aspettar che l’ultima / gelida e fosca aurora / chiuda alle genti ancora / la gran porta del Sole;

quando la Terra nera / girerà vuota, e ch’era / Terra, s’ignorerà.