mercoledì 14 maggio 2014

Il desolante silenzio sul Tibet in fiamme



Francesco Pullia

In Tibet si brucia. Anche in questi giorni. Nel quasi totale silenzio dell’informazione, sono arrivati a 131 i tibetani che negli ultimi cinque anni hanno deciso di sacrificare la propria vita con il fuoco per denunciare al mondo intero la repressione attuata dalla Cina nel loro paese. Le fiamme si alzano, i corpi si anneriscono. Il pensiero inevitabilmente corre al lontano 1963, al monaco vietnamita che nel centro di Saigon si immolò per protestare contro la politica di discriminazione religiosa del proprio governo. Un inferno durato circa un quarto d’ora, senza grida, senza lamenti, che allora scosse l’opinione pubblica. Le sconvolgenti immagini del martirio fecero il giro dei quattro angoli del pianeta. Trentacinque anni dopo, ma in un altro contesto, un analogo gesto. A New Delhi, Pawo Thupten Ngodup, uno dei centomila esuli tibetani riusciti fortunosamente a raggiungere l’India, militante del Tibetan Youth Congress (un’organizzazione giovanile che rivendica l’indipendenza del Tibet dal mostro cinese), anziché consegnarsi alla polizia indiana, che voleva obbligarlo a smettere uno sciopero della fame protrattosi da una cinquantina di giorni, preferì trasformarsi in una pira. Speravamo rimanesse un caso isolato. Purtroppo non è stato così.
Sono tanti, troppi, i giovani, monaci o laici, che, con un incremento dal 2009 ai nostri giorni, hanno seguito il suo esempio. Può sembrare assurdo, e difatti lo è, darsi la morte in questo modo atroce. Ma il giudizio diviene meno perentorio una volta che ci si renda conto di quanto sia straziante assistere al genocidio del proprio popolo da parte di un paese straniero, alla tragedia di una terra invasa nel 1950, in spregio al diritto internazionale, dalle truppe della Repubblica popolare cinese e teatro, nella deplorevole inerzia degli stati occidentali, di una spietata colonizzazione. Basti considerare che nell’altopiano himalayano culla del buddhismo lamaista, i tibetani sono ridotti ad una minoranza di appena sei milioni, rispetto a quasi dieci milioni di immigrati cinesi. Non è un caso che la Cina si sia spesa nella costruzione della linea ferroviaria più alta del mondo, nota come la Pechino-Lhasa, che arriva a transitare ad oltre 5000 m. sul livello del mare. L’invasione del Tibet da parte dei cinesi non conosce soste e, come una piovra, abbraccia tutto.
Se sei tibetano, in Tibet non puoi studiare e parlare la tua lingua, praticare il buddhismo, seguire la millenaria tradizione della tua gente, sventolare la bandiera della terra in cui sei nato (quella con i raggi rossi e blu, il sole splendente, i due leoni di montagna, i simboli che rimandano all’insegnamento buddhista) e tanto meno avere un’immagine del Dalai Lama, il leader religioso e politico, fervente e rigoroso sostenitore della nonviolenza, costretto, come si sa, dai cinesi a fuggire nel 1959 in India, a Dharamsala, nella regione dell’Himachal Pradesh. Se te la trovano addosso o in un angolo della casa, ti spediscono dritto dritto a marcire in galera o in un campo di concentramento.
Il processo di annientamento dei tibetani viene scientemente perpetrato dalla Cina tramite la disintegrazione della loro identità, lo stravolgimento di abitudini e costumi, il severo controllo delle nascite (anche con il ricorso alla sterilizzazione e agli aborti forzati), la deforestazione e il depauperamento delle preziose risorse boschive e minerarie, la trasformazione di vaste aree in depositi di scorie radioattive, l’urbanizzazione di numerosi gruppi nomadi abituati da sempre a vivere di pastorizia, l’immissione di colture intensive del tutto estranee alla vocazione del territorio.



In breve, il Tibet di oggi rischia di sparire, interamente fagocitato da Pechino. Poco dell’inestimabile patrimonio artistico, culturale, religioso, si è salvato dalla furia iconoclasta delle guardie rosse maoiste che, nel 1969, oltre a sottoporre monaci e abitanti ad umilianti processi “rieducativi”, ridussero in macerie più di 6500 tra templi e monasteri. Gli occidentali non devono lasciarsi fuorviare dalle attuali finte ricostruzioni: rispondono esclusivamente a una bieca operazione di marketing turistico. Il danno ormai è irreparabile e se una cultura plurisecolare non si è, per fortuna, ancora dissolta lo si deve alla tenace opera dei profughi che, sulle orme del Dalai Lama, sono riusciti a scappare dall’inferno, traversando, in viaggi rocamboleschi, altitudini impervie ricoperte di ghiaccio e piene di insidie. Molti ce l’hanno fatta. Tanti altri, purtroppo, no e sono morti sopraffatti dal gelo e dalla fame o colpiti dalle pallottole dei militari cinesi. Dietro l’immagine macchiettistica, quasi da Disneyland asiatico, che la Cina vorrebbe veicolare del Tibet, ad uso e consumo di sprovveduti occidentali, si cela, in realtà, una tragedia d’immane portata che non può e non deve lasciarci indifferenti.
Quei corpi carbonizzati ci chiamano implorando aiuto. Testimoniano, bisogna pur dirlo anche se con amarezza, il fallimento della politica di dialogo con il Leviatano cinese inutilmente caldeggiata da venticinque anni dallo stesso Dalai Lama. Splendide intenzioni finite in fumo. Invano la guida spirituale tibetana ha ostinatamente perorato una “via di mezzo” che salvasse il salvabile rivendicando per il suo Tibet non l’indipendenza ma l’autonomia all’interno del composito impero cinese. Niente da fare. La sua saggezza ha dovuto arenarsi dinanzi alla tetragona arroganza di Pechino. E così colui che è ritenuto incarnazione del Buddha della compassione è stato costretto a sopportare vergognosi ritardi, colloqui dilazionati e privi di significato tra i suoi rappresentanti e i funzionari comunisti cinesi, ridicolizzato, accusato di capeggiare una “cricca separatista" il cui scopo è la destabilizzazione del regime. Emblematiche, in questo senso, le pressioni esercitate dalla satrapia cinese ogniqualvolta il Dalai Lama si rechi in visita in uno stato. Si pensi alle minacce rivolte, nel febbraio di quest’anno, al presidente americano Obama o a quelle indirizzate al primo ministro norvegese Erna Solberg costretto, l’8 maggio, ad ignorare l’arrivo ad Oslo della guida buddhista. “Da anni i nostri rapporti con la Cina sono difficili”, ha cercato di giustificarsi. Pechino ha interrotto le relazioni commerciali e declinato gli incontri bilaterali con la Norvegia da quando, nel 2010, fu assegnato il Nobel per la pace allo scrittore dissidente Liu Xiaobo, a tutt'oggi ancora detenuto. La decisione del governo di Oslo, che in passato ha manifestato simpatia e sostegno alla causa tibetana (il Dalai Lama è stato insignito nel 1989 del premio Nobel per la pace), è indice di resa, debolezza, capitolazione.
Certo è che finché gli interessi economici continueranno ad avere il sopravvento sulla questione dei diritti umani in Tibet e in tutta la Cina, il governo di Pechino si sentirà legittimato a ritenersi intoccabile e a spadroneggiare. Ma da nessuna parte è scritto che l’economia debba per forza mettere in secondo piano il rispetto di diritti inderogabili. Un economista del livello di Amartya Sen ha dimostrato, anzi, il contrario, e cioè che democrazia e sviluppo non sono termini antitetici ma, appunto, straordinariamente interconnessi. Dovrebbero saperlo quanti, da noi, si fanno promotori di sciagurate iniziative volte a sbandierare, nel segno del peggiore opportunismo e di un machiavellismo da quattro soldi, gli “strabilianti” traguardi ottenuti da Pechino guardandosi bene, per non offendere la suscettibilità di funzionari d’ambasciata, dal toccare il tema della violazione dei diritti in un paese che detiene il triste primato di esecuzioni capitali.
Un cambiamento di rotta è necessario se non vogliamo che ci ricada addosso l'onta di centinaia di torce umane. Una presa di coscienza terrorizza i governanti cinesi più di un devastante terremoto. La loro cecità e la loro spavalderia nascondono, in realtà, la paura che, prima o poi (speriamo presto, molto presto), anche nella terra del Dragone si verifichi un cataclisma politico analogo a quello che spazzò via il totalitarismo comunista nell’Est europeo. Ecco perché togliersi la vita è considerato da Pechino un intollerabile atto sovversivo che non deve essere visto e conosciuto. I poliziotti girano con gli estintori nelle città tibetane, pronti a intervenire. Se qualcuno si dà fuoco, i testimoni vengono immediatamente dispersi. Non si devono scattare foto o girare video. I corpi sono subito trafugati e fatti sparire. Chi diffonde notizie è sottoposto a durissime pene detentive.

Quanto durerà questa tragedia dipenderà da noi, solo da noi, da come saremo in grado di lasciarci investire, attraversare e coinvolgere da un appello che ci riguarda, eccome. Ne vanno di mezzo la nostra dignità e il senso stesso della democrazia, di quella democrazia le cui fondamenta, se veramente salde,  devono poggiare sulla fratellanza e sulla solidarietà. 

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